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La legge elettorale che non c’è: quella europea

La questione delle diverse soglie di sbarramento a livello nazionale riporta in evidenza la necessità di una legge elettorale uniforme a livello europeo. Troppe le differenze esistenti: dall’età per candidarsi alla composizione delle circoscrizioni, fino alle modalità per votare dall’estero.

LA SOGLIA DI SBARRAMENTO

La soglia di sbarramento, ossia il numero di voti necessari per avere accesso alla ripartizione dei seggi in Parlamento, diverrà nuovamente oggetto di scrutinio da parte della Corte Costituzionale. Questa volta la soglia è il 4 per cento previsto nella legge elettorale italiana per le elezioni Europee, una tra le ventotto differenti leggi presenti nell’Unione Europea. Quella stessa Unione che dalla ratifica del Trattato di Lisbona attende qualcosa di completamente diverso: una legge elettorale europea (uniforme per tutti gli Stati Membri) che possa garantire un maggiore margine di legittimazione e di rappresentatività ad un Parlamento, unica istituzione eletta all’interno della governance europea, che ancora fatica nell’opinione pubblica ad essere percepito come centrale per il decision-making.
Mentre il Tribunale di Venezia ha rinviato alla Corte Costituzionale la legge elettorale per le europee, la Corte Costituzionale tedesca si è pronunciata per l’abolizione della soglia, un tempo fissata al 5 per cento come per le elezioni legislative e poi abbassata al 3 per cento dal Bundestag per venire incontro alle richieste della stessa Corte. Proprio basandosi sulle risultanze di questa decisione, i ricorrenti sostengono che tale soglia sia illegittima, poiché lederebbe l’articolo 48 della Costituzione Italiana, in particolare l’aggettivo “eguale” e “libero” nella formulazione “il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.”
Stante la similare formulazione dell’articolo 48 della Costituzione italiana e l’articolo 38 di quella tedesca, vi sarebbero i presupposti perché la Corte italiana giunga ad affiancarsi sentenze della Corte tedesca.
Eppure, si tratta di un problema marginale in una prospettiva europea (l’unica realmente legittima, dato che si voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo): anche accettando un sistema proporzionale puro, garante dell’effettiva uguaglianza del voto in Italia e in Germania (1), la questione rimane aperta in molti altri paesi, dove esistono soglie di sbarramento, seppure non troppo elevate e dove non è in vista alcun pronunciamento in materia da parte delle Corti Costituzionali nazionali.
In Spagna per esempio, pur essendoci un sistema proporzionale puro, ossia senza soglie, esiste un unico collegio nazionale con una lista bloccata unica per ogni partito. Liste bloccate le troviamo anche in Ungheria, dove in più esiste, una soglia di sbarramento fissata al 5 per cento. In altri paesi si trovano liste semi-aperte e altri ancora, come l’Irlanda e l’Irlanda del Nord, hanno il voto singolo trasferibile, che permette di fare una graduatoria dei diversi candidati in lista. La soglia si applica in totale a quattordici paesi e parte da un minimo dell’1,8 per cento a Cipro sino a un massimo del 5 per cento, comune a 9 Stati. La circoscrizione è spesso unica e solo Francia, Belgio, Regno Unito, Polonia, Irlanda e Italia hanno circoscrizioni multiple. Cambia anche l’età per candidarsi: dai 18 anni nella maggioranza dei paesi ai 25 necessari in Italia e in Grecia. In sintesi, la situazione è frastagliata in tutta Europa con differenti leggi elettorali e con l’unica costante dell’adozione del proporzionalismo come criterio principe.
Per questo motivo è necessario spostare l’attenzione a livello sovranazionale quando si parla di legge elettorale per il Parlamento Europeo.

TANTI STATI, TANTE REGOLE

Storicamente, il proporzionalismo delle leggi elettorali nazionali si è affiancato al “consensualismo” che da sempre si ritrova nel decision-making del Parlamento Europeo: raggiungere un accordo tra le varie famiglie europee in un Parlamento capace di rappresentare tutte le tendenze politiche presenti nel Continente è sempre stato il leit motiv.
Se si pensa che il Parlamento Europeo è nato per essere, prima di tutto, una camera di rappresentanza, dotata di un potere minimo (una sfiducia collettiva verso l’intera Commissione e non verso il singolo Commissario) e raramente esercitato (soltanto una volta, nel 1999) sulla Commissione, allora si coglie il perché della preferenza del proporzionalismo. Senza esigenza di governabilità non è necessario strutturare leggi elettorali che limitino la rappresentanza dei partiti minori.
Non avere soglie di sbarramento sarebbe quindi una possibile soluzione, qualora il Parlamento debba rimanere ancorato alle logiche sopra descritte,  ma certamente non sarebbe il livello nazionale a doversene occupare, come del resto sanciscono i Trattati ratificati dagli stessi Stati membri.
Nonostante si trovino, come detto, leggi elettorali differenti da Stato a Stato, l’articolo 223 del Trattato sull’Unione Europea sostenga che “[i]l Parlamento europeo elabora un progetto volto a stabilire le disposizioni necessarie per permettere l’elezione dei suoi membri a suffragio universale diretto, secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri”. Se il principio comune è quello della rappresentanza allora non è possibile limitarsi alla giurisprudenza tedesca o italiana: tutte le norme confliggenti dovrebbero adeguarsi se l’obiettivo è quello di adattarsi ai “principi comuni a tutti gli Stati membri”. Quindi o tutti e ventotto gli Stati con liste chiuse o tutti con possibilità di preferenza: se si adottasse la seconda possibilità a livello europeo, probabilmente si verrebbe a creare un conflitto tra quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale italiana (liste bloccate sì, ma non troppo lunghe) o con le leggi in vigore in altri paesi (listone unico per una sola circoscrizione nazionale). Lo stesso discorso vale per la soglia di sbarramento. Altri principi comuni dovrebbero riguardare anche l’età minima per essere candidabile, l’obbligatorietà del voto (che vige solo a Cipro, in Belgio, Grecia e Lussemburgo) e il sistema di voto dall’estero. In particolare per una tornata elettorale europea quest’ultimo punto risulta molto intricato, poiché le possibilità sono molteplici e mai uniformi: è infatti possibile votare per posta (in quattordici paesi) per delega (proxy vote),come in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi e , nelle ambasciate (in sedici Stati) o addirittura tramite  l’e-voting (in Estonia). Non è possibile votare all’estero, invece, in Repubblica Ceca, Irlanda, Malta e Slovacchia. Una babele di possibilità che rende impossibile nei fatti l’uguaglianza del voto: e questo senza tenere conto di soglie di sbarramento e liste bloccate.
Se poi il progetto andasse al di là della mera adesione ai principi da parte degli Stati e si estendesse alla creazione di una procedura uniforme in tutti gli Stati membri allora tutte le differenti leggi dovrebbero adattarsi al compromesso raggiunto nel Parlamento Europeo.

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UNA LEGGE ELETTORALE UNICA

Questa sarebbe, in tutta probabilità, la soluzione migliore: una legge elettorale europea, di ispirazione proporzionalista, con una soglia di sbarramento unica (o l’assenza della stessa), collegi plurinominali (che però non modifichino il rapporto tra numero di abitanti per eletto), stessa soglia di età per la candidabilità e stesse possibilità di voto. Per esempio, se un sistema di e-voting comune, efficace ed efficiente sarebbe possibile solo con l’assenza del digital divide, la possibilità di votare nelle proprie ambasciate di riferimento (almeno) sarebbe non solo possibile, ma auspicabile e dove questo non fosse possibile si dovrebbero mettere a disposizione ambasciate “straniere”, dato che a votare sarebbero persone in possesso della cittadinanza europea.
La questione dell’uguaglianza di tutti i partiti sarebbe in ogni caso lontano dall’essere risolta anche con queste modifiche, in quanto un vero proporzionale europeo che assolva ai principi della Costituzione italiana e di quella tedesca, dovrebbe fondarsi, come per il Congresso degli Stati Uniti, su collegi (districts) con la stessa popolazione o quasi (e una nuova designazione a cadenza periodica a seconda delle statistiche dei censimenti nazionali). Ad oggi, la Spagna ha un rappresentante ogni 875.160 abitanti, mentre il Lussemburgo uno ogni 76.667 abitanti, vale a dire 11 volte e mezzo in più rispetto agli iberici. Si tratta, invero, di una sproporzione simile a quella del Senato americano, a cui sottende tuttavia tutt’altra logica di rappresentanza e che ha come contraltare il Congresso dove, come detto, il rapporto tra numero di abitanti ed eletti viene mantenuto costante.
Se si volesse ottemperare al principio di proporzionalità tra rappresentanti e rappresentati si dovrebbero superare numerosi inconvenienti, che nel breve-medio periodo appaiono insormontabili: la definizione di collegi o il loro riassetto qualora esistano già, ma con numero di eletti difforme e, soprattutto, la revisione del numero degli eletti per ogni Stato, modificando il  trattato di Lisbona (che a sua volta aveva già cambiato il sistema di ripartizione stabilito a Nizza).
In conclusione, se anche il ricorso andasse a buon fine, non risolverebbe le incongruenze esistenti. Eppure gli strumenti sono forniti dai trattati. Una legge elettorale unica sarebbe un primo timido passo verso una prima (ma non definitiva) uniformità nell’uguaglianza del voto. Un’uguaglianza che non può riguardare solo l’Italia o la Germania, ma tutti i paesi europei con tradizioni, sotto questo punto di vista, differenti. E non è detto che una di soglia di sbarramento (anche a livello europeo, non per forza solo nazionale) non aiuti: riducendo parzialmente la frammentazione, si potrebbero premiare o punire a livello europeo i partiti e le coalizioni che decidono di allearsi per eleggere un Presidente della Commissione e per portare avanti un programma comune. In questo modo si potrebbero evitare pratiche troppo consensuali, che, oltre a non aiutare a controbilanciare lo strapotere del Consiglio Europeo, rendono spesso difficile capire chi vota cosa, favorendo peraltro coloro che fondano sull’uguaglianza sostanziale dei restanti partiti la propria identità politica.

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(1) Questo presupposto, a sua volta si fonda sulla visione di un Parlamento Europeo che, non avendo oneri di governabilità, debba rispecchiare fedelmente (per non dire aritmeticamente) tutte le forze politiche in campo chiamate a prendere decisioni attraverso il consensus building e non attraverso l’attuazione del programma del partito uscito vincitore. Un principio certamente nobile, che però confligge con la necessità di fornire maggioranze “politiche” all’interno del Parlamento Europeo con un chiaro mandato elettorale, ricevuto sulla base di differenti programmi di policy europee. Questo punto richiama, di conseguenza, l’agenda delle elezioni europee nei vari Stati membri, sempre e comunque focalizzata su temi di rilevanza nazionale: non è però questo l’oggetto dell’articolo.

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  1. Sandro Leipold

    Per il voto all’estero la situazione in Italia è ancora più complessa di quella descritta. È possibile per i residenti in Europa; non lo è per tutti gli altri.

  2. nextville

    Mentre i premi di maggioranza servono alla governabilità le soglie minime servono in genere ad evitare la frammentazione e la rappresentanza di lunatic fringe di vario tipo.
    In entrambi i casi hanno senso solo premi e soglie riferite all’assemblea complessiva e non ai singoli stati: la soglia a livello nazionale è sine causa e veramente ingiusta e contraria all’uguaglianza tra cittadini.
    Un solo esempio: in italia chi voti per i candidati ALDE butta via il suo voto (saranno sicuramente sotto la soglia del 4%), pur essendo ALDE il 3° partito europeo.

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