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Il Giappone riaccende il nucleare. E le polemiche

Tre anni dopo Fukushima, a Tokyo si torna a parlare di nucleare. Un argomento destinato a dividere, tra chi teme nuovi incidenti e chi lo considera un’opportunità per avere energia a basso costo. Cinque spunti per riflettere. E uno sguardo alle scelte dell’Italia.

IL NUCLEARE DOPO FUKUSHIMA

A tre anni di distanza dall’incidente di Fukushima, il primo ministro giapponese Shinzo Abe spinge per riattivare dodici dei cinquanta reattori nucleari del paese; nelle prossime settimane, poi, è prevista l’approvazione della strategia energetica di lungo periodo che potrebbe includere anche la costruzione di nuove centrali.
L’opinione pubblica è divisa, in Giappone come nel resto del mondo: a preoccupare i contrari restano i limiti della tecnologia, gli alti rischi di gestione e le incognite irrisolte dello stoccaggio delle scorie. I favorevoli invece esaltano il basso costo dell’energia generata e le minori emissioni di anidride carbonica in atmosfera. Si tratta, ad ogni modo, di una delle tecnologie più utilizzate per la produzione di energia nei paesi sviluppati (circa il 20 per cento nei paesi Ocse) e, per capire il futuro incerto del nucleare, vale la pena porsi qualche domanda e cercare di filtrare le informazioni piovute sui giornali, spesso ingigantite o difficili da interpretare.
Facciamo allora un passo indietro. Marzo 2011, Fukushima, Giappone. Un terremoto del nono grado della scala Richter e il successivo tsunami causano il black-out dei sistemi di raffreddamento della centrale nucleare. Nonostante diversi tentativi volti a evitarlo, accade quello che più si teme: la fusione del nocciolo, ovvero un aumento rapido di temperatura che porta allo scioglimento del combustibile nucleare e a possibili fuoriuscite. In sintesi, si verifica la peggiore situazione possibile in un incidente nucleare (grado 7 su 7 della scala Ines), di entità comunque ben inferiore rispetto a quanto accaduto a Chernobyl, dove l’esplosione del reattore aveva causato una distribuzione di sostanze radioattive attraverso successive correnti d’aria.
L’Oms conferma che per la popolazione (locale e non) i rischi sono bassi e non sono stati accertati aumenti di tumori rispetto ai livelli standard. I paesi “lontani” temono principalmente la contaminazione dell’oceano a seguito degli sversamenti di acqua ad alto tenore radioattivo proveniente dalla centrale. Secondo l’Istituto di ricerca oceanografica statunitense le paure per un “avvelenamento” delle acque californiane sono infondate; allo stesso modo l’ufficio della sanità pubblica svizzera garantisce che si possano utilizzare, senza alcun tipo di riserva, i prodotti importati dal Giappone, i cui severi controlli ne tutelano la qualità.
Non tutto però è così semplice: pochi mesi fa il Giappone ha confessato che la situazione nella centrale è ancora preoccupante. Per la bonifica del sito serviranno forse altri quaranta anni, e si dovrà trovare una soluzione a due problemi principali: come evitare di scaricare nell’oceano tonnellate di acqua contaminata e come estrarre le barre di combustibile dall’attuale sito, manovra delicata, mai effettuata prima di oggi e ad alto rischio. Non da scenari catastrofici come citato su alcuni media, ma sicuramente rischiosa e molto costosa (11 miliardi secondo Bloomberg).

LA PAURA DI UNA NUOVA FUKUSHIMA

Sulla probabilità di un nuovo incidente si leggono pareri molto diversi.
Sì, può succedere ancora, secondo il parlamento giapponese, dato che Fukushima fu un evento causato “principalmente dall’uomo”, con colpe da distribuire tra il Governo, le autorità di controllo e i responsabili della società elettrica Tepco, che già dal 2006 era conscia del potenziale rischio di un evento simile. Un adeguamento delle norme giapponesi agli standard internazionali di sicurezza avrebbe potuto evitare l’incidente. In Europa, una recente indagine indipendente sulle centrali, condotta per Greenpeace, denuncia due reattori particolarmente vicini al suolo italiano, in Svizzera e in Slovenia, definendoli “da chiudere immediatamente”. La Comunità europea non è però dello stesso parere e dagli “stress test” post Fukushima condotti su tutte le 58 centrali nucleari, conclude che per nessuna vi siano rischi o problematiche tecniche tali da richiedere lo spegnimento dei reattori.
A ogni modo, sembra che le vere conseguenze dei possibili incidenti siano percepite erroneamente dalle masse e la paura dell’atomo sia giusta, ma spesso esagerata. Le stime a tutt’oggi incerte sui decessi non aiutano. Per Chernobyl si passa dai 50 morti calcolati dall’Oms (dato 2005) ai ben 985mila di Greenpeace. Anche per Fukushima il range varia di diverse grandezze ma, secondo l’Oms stessa, il danno delle radiazioni sarà più gravoso per il suolo che per la salute umana e le conseguenze saranno meno devastanti rispetto a quelle del 1986. Numeri comunque molto meno preoccupanti rispetto alle 13mila persone morte negli Stati Uniti nel solo 2010 a causa delle emissioni da centrali a carbone, secondo la Clean Air Task Force.
Il nucleare, in sostanza, non deve essere valutato come un fenomeno isolato, ma va confrontato con le diverse tecnologie alternative di produzione elettrica. Ci ha provato l’Ocse studiando le intere filiere di generazione e analizzando i relativi incidenti. Il risultato dello studio non comprende ancora le stime di Fukushima, ma evidenzia in maniera decisa come le fratture di dighe appositamente costruite per l’idroelettrico, le esplosioni di miniere di carbone o i numerosi incidenti nelle tubazioni di gas e petrolio abbiano un impatto di gran lunga più rilevante rispetto all’energia atomica. Pare dunque che la paura del nucleare sia troppo amplificata sui media e percepita spesso in modo non corretto.

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LE SCORIE

Il centro di ricerca Enea stima che ogni anno si producano in Europa circa 40mila metri cubi di scorie, quanto basta per riempire quasi dieci piscine olimpiche. Fortunatamente, la maggior parte sono a bassa e media attività: decadono cioè nel giro di poche decine o centinaia di anni. Soltanto il 10 per cento ha bisogno di tempi più lunghi, nell’ordine delle centinaia di migliaia di anni. Il combustibile esausto delle centrali, dopo una prima fase di stoccaggio nelle piscine delle centrali stesse, in cui l’attività si riduce significativamente, viene oggi temporaneamente depositato in pozzi di calcestruzzo, in attesa della soluzione definitiva, ovvero il trasporto in un sito appositamente individuato. Accantonata l’ipotesi brutale dello scarico negli oceani (già applicata in passato) o quella fantascientifica del lancio nello spazio, l’Europa sembra aver trovato la soluzione: uno “stoccaggio geologico profondo”. Si tratta di “una cavità scavata nel granito e nell’argilla tra i 100 e i 700 metri di profondità”, in grado di stoccare i rifiuti radioattivi anche per milioni di anni. Il problema è che un sito di questo tipo, in realtà, oggi non esiste e per la sua realizzazione servirebbero, secondo alcuni, quaranta anni. Diverse associazioni ambientaliste, ad ogni modo, non ritengono la proposta priva di rischi.
Il dibattito va avanti ormai da più di cinquanta anni e, sebbene si pensi ora che i nuovi reattori di quarta generazione possano processare le vecchie scorie, ipotizzare una strategia che accontenti tutti sembra alquanto improbabile.

BASSO COSTO E BASSE EMISSIONI?

È sicuramente vero che durante i cinquanta anni di produzione, i costi di esercizio di una centrale sono molto bassi, ma quelli di investimento, dovuti soprattutto alla sicurezza degli impianti, sono molto superiori rispetto alle tecnologie tradizionali. Da uno studio della Comunità europea del 2013, sembra che il costo dell’energia dall’atomo in Europa sia sostanzialmente in linea con quello delle tradizionali centrali a gas o a carbone e leggermente più vantaggioso rispetto alle fonti rinnovabili attualmente a disposizione, anche se i risultati variano sensibilmente a seconda della regione geografica e delle variabili ipotizzate nei calcoli (durata dell’impianto, costo del finanziamento, eccetera). Nei prossimi dieci anni, un calo del 15 per cento dei costi delle rinnovabili, come da previsioni del centro di ricerca tedesco, potrebbe colmare l’attuale scarto.
Guardando invece al riscaldamento globale, le emissioni di gas serra dell’energia atomica sono basse, ma non è corretto considerarle nulle. Vero che durante la vita operativa le emissioni di CO2 dei reattori sono quasi inesistenti, ma la quantità di materiali necessari per la realizzazione degli impianti (cemento, acciaio e così via) richiede un’analisi dell’intero ciclo di vita (life cycle analysis) che sconti anche l’energia utilizzata per produrli. Secondo tale approccio, gli scienziati concordano che, per ogni kW/h generato, le emissioni di una centrale nucleare siano circa dieci volte inferiori rispetto a quelle di una tradizionale centrale a gas e pressoché identiche a quelle di un impianto solare fotovoltaico (secondo l’Agenzia nucleare sarebbero addirittura inferiori, mentre secondo diversi articoli pubblicati su Nature, invece, superiori).

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IL FUTURO DEL NUCLEARE E L’ITALIA

Secondo l’International Energy Agency (2013), nonostante la battuta d’arresto degli ultimi tre anni, l’elettricità generata dal nucleare nel mondo raddoppierà nei prossimi venticinque anni. Il Giappone sta per riattivare parte delle proprie centrali e, sebbene in Europa molti vecchi reattori siano in dismissione, l’energia atomica è in forte crescita nei paesi in via di sviluppo con consumi elettrici in grande espansione, come Cina, Russia, India e paesi del Medio Oriente.
In Italia nei prossimi decenni non vedremo di certo nuovi reattori, e non solo perché nel referendum del 2011 ha vinto il “no”. Una centrale nasce in dieci anni, vive per circa cinquanta ed è ben vista in paesi che devono far fronte a consumi elettrici in forte crescita. Nel nostro paese i consumi sono in calo da diversi anni e la nostra capacità di generare potenza è ben al di sopra della domanda. Se in futuro questa dovesse ripartire, si spera che le “nuove” tecnologie rinnovabili siano diventate ancora più competitive e possano essere convenientemente applicate su larga scala.
Concludendo, è difficile esprimere un netto parere favorevole o contrario al nucleare sulla base di dati statistici e previsioni così eterogenei, quasi al limite del casuale, come quelli che vengono sovente presentati. L’Italia ha comunque preso una decisione “di pancia”, subito dopo il disastro giapponese, e ha scelto di restarne fuori. Probabilmente, al di là di ogni considerazione ambientale, visti gli effetti della crisi e del calo dei consumi, ci è andata bene.

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  1. Lorenzo Luisi

    “Di pancia” erano le discussioni che trent’anni fa (lei forse non era nemmeno nato) si accendevano sulle rinnovabili. Il partito del nucleare e del petrolio diceva “le rinnovabili non potranno sostituire l’attuale sistema” e con un solo verbo, sbagliato, incutevano il timore di un medioevo energetico.
    Oggi le rinnovabili integrano efficacemente, e in alcuni “spot moment” potrebbero anche sostituire il fossile.
    Contrariamente al nucleare, le rinnovabili hanno dei costi bassissimi di smaltimento a fine vita anche perché i materiali utilizzati sono riciclabili anch’essi e una volta smontate le infrastrutture, lo stato dei luoghi torna tal quale com’era.
    Che dire, ci è andata bene perché fortunatamente (per noi) l’incidente di Fukushima è avvenuto poco prima del referendum altrimenti Berlusconi e Scajola ora sarebbero alla testa della lobby nucleare e l’Italia sarebbe ancora nel dilemma partire o non partire.
    Meglio, molto meglio così, certo anche per la decisione, davvero sensata, di uscire sempre più fuori del tornaconto di petrolieri e nuclearisti.

  2. info

    I reattori di quarta generazione sono ancora in fase di studio e le attuali centrali e le prossime non potranno che essere simili a quella di Fukushima. Che poi ci sia qualcuno che garantisce che ci sono stoccaggi garantiti per milioni di anni è ridicolo visto che non riusciamo nemmeno a calcolare se e dove avverrà un terremoto; senza contare che abbiamo a che fare, comunque, con opere umane con tutti i rischi dovuti alla corruzione ed alla malversazione. Non a caso lo sviluppo del nucleare si prevede in paesi a bassa o bassissima democrazia come Cina, Russia e Medio Oriente: la prima può permettersi morìe a milionate vista la potenzialità del turn-over, la seconda è governata da uno zar la cui principale preoccupazione è ricreare una superpotenza modello Urss, il terzo è un’accozzaglia di paesi medievali a gestione oligarco-teocratica.

  3. Osvaldo Forzini

    Articolo interessante. Leggendo il paragrafo “Le scorie” mi ero allarmato, troppo ottimismo. Poi però il parafrago sotto ha “riequilibrato” in modo convincente.

    Dunque. La questione a mio parere è “semplice”: i rischi del nucleare a fissione sono troppo elevati, la questione scorie è un’incognita perché non abbiamo esperienza di millenni, e quando hai creato un problema (scorie che decadono almeno in centinaia d’anni) poi non puoi non affrontarli (cioè pagarli), ed i costi di dismissione sono esagerati e mal (e talvolta mai) conteggiati.

    Quanto al fatto che “l’energia atomica è in forte crescita nei paesi in via di sviluppo con consumi elettrici in grande espansione, come Cina, Russia, India e paesi del Medio Oriente”, mi suggerisce un’osservazione. Già all’epoca della discussione in Italia, c’è chi diceva “ma che senso ha non averle, tanto siamo circondati da quelle svizzere, francesi, slovene, se succede qualcosa…”.
    Che ragionamento è: se succede a Marsiglia, non è è la stessa cosa se succede a Roma.
    A Marsiglia avranno dei problemi, a Roma forse, ma di ben altro tenore. Il “tabula rasa” del territorio e delle falde, che si protrae per decenni, ovviamente riguarda per lo più il territorio più vicino al luogo dell’incidente. Per cui non è affatto la stessa cosa avere i reattori qui o averli “un po’ più in là”.

    Infine, sulla sicurezza alimentare, una battuta: da quanto riportato sui giudizi degli Enti USA e svizzero, sembra quasi che quelle di Fukushima siano acque termali, grazie dell’ospitalità. Saluti

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