Manca in Italia una seria valutazione d’impatto degli esiti occupazionali dei corsi di formazione professionale finanziati con risorse Fse. Eppure, la valutazione potrebbe fornire indicazioni utili sulla loro efficacia e sui modi per migliorarla. I risultati di un’esperienza trentina.
CORSI DI FORMAZIONE A TRENTO
Che nel nostro paese gli effetti dei fondi strutturali europei siano avvolti in una fitta nebbia, giusto quanto hanno sottolineato Roberto Perotti e Filippo Teoldi, da un lato, e Tito Boeri (La Repubblica del 7 luglio), dall’altro lato, è fuori discussione. Soprattutto è vero che quasi mai sono stati oggetto di seria valutazione d’impatto gli esiti occupazionali dei corsi di formazione professionale per disoccupati finanziati con risorse Fse. Naturalmente, neppure valutazioni di tal fatta sono in grado di dare piena risposta alla domanda sul rapporto tra i costi e i benefici delle iniziative formative. È, però, indubbio che le valutazioni d’impatto possano fornire indicazioni non banali sull’efficacia di questi corsi e sui modi per migliorarla. Vediamo come attraverso il richiamo a una piccola esperienza locale.
Lo scorso anno, l’Agenzia del lavoro della provincia autonoma di Trento ha chiesto all’Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (Irvapp) di misurare l’effetto occupazionale di 64 corsi di formazione di lunga durata (ossia tra i due e i sei mesi), riservati a disoccupati iscritti ai centri per l’impiego, riguardanti venti diverse figure professionali qualificate (come, ad esempio, elettricisti, termoidraulici, pizzaioli, macellai, addetti alle vendite, addetti alla contabilità), finanziati su fondi Fse (Fondo sociale europeo) e attuati nel 2010.
Per rispondere alla richiesta dell’Agenzia del lavoro, si è posta attenzione alle chance di trovare un nuovo impiego da parte di (842) disoccupati che hanno frequentato i corsi (gruppo dei trattati), nei quindici mesi successivi al loro inizio. A loro volta, queste chance sono state comparate (via propensity score matching) con quelle di soggetti (circa 32mila), anch’essi disoccupati iscritti ai centri per l’impiego e del tutto simili ai partecipanti quanto a caratteristiche socio-demografiche e precedenti esperienze lavorative, ma che non avevano preso parte ad alcun corso (gruppo di controllo). L’effetto medio sulle chance di uscita dalla disoccupazione derivante dalla partecipazione ai corsi è stato ottenuto confrontando la storia occupazionale dei trattati (nei ricordati quindici mesi successivi all’inizio del corso) con la corrispondente storia dei controlli.
CHI TROVA LAVORO?
Figura 1: Tassi di occupazione dei partecipanti ai corsi e dei controlli nei 36 mesi precedenti l’inizio corso e nei 15 mesi successivi.
La figura 1 riporta i tassi di occupazione rilevati tra i frequentanti i corsi e i controlli nel periodo che va dai trentasei mesi precedenti l’inizio del corso ai quindici mesi successivi. Pone in luce la piena comparabilità dei due gruppi, fino al momento dell’inizio della frequenza del corso da parte dei trattati, a riprova del buon esito della procedura di matching. In più, mostra che nei primi cinque mesi successivi all’inizio del corso, i trattati fanno registrare chance significativamente minori di trovare un nuovo impiego rispetto a quelle esperite dai controlli. Si tratta del ben noto effetto di lock-in. Tuttavia, dal settimo al quindicesimo mese dopo l’inizio dei corsi (termine della nostra finestra osservativa), i soggetti formati posseggono una probabilità maggiore di essere occupati rispetto a quella delle loro controparti non partecipanti. In particolare, l’analisi fa vedere che, a un anno dall’inizio dei corsi, la probabilità che un formato abbia trovato un nuovo impiego è, in media, di 6,5 punti percentuali superiore a quella che avrebbe sperimentato se non avesse preso parte al corso (tabella 1).
Tabella 1: Effetti medi dei corsi sulla probabilità dei trattati di avere trovato un nuovo impiego a 12 mesi dall’inizio dei corsi e variazioni in alcuni sottogruppi (errori standard tra parentesi).
Livelli di significatività delle stime: ***p<0.01, **p<0.05.
Questo effetto medio, tuttavia, non è distribuito omogeneamente entro i trattati. I corsi non sembrano avere alcun effetto sui partecipanti con meno di 25 anni e su quelli con più di 44 anni. Ma è guardando all’interazione tra genere e cittadinanza che si colgono le più importanti variazioni dell’impatto occupazionale. I corsi sembrano produrre effetti particolarmente positivi sulle donne italiane (+10,4 punti percentuali) e sugli uomini con cittadinanza straniera (+5,8 punti percentuali), mentre nel caso degli uomini italiani l’impatto risulta nullo (tabella 1).
Tabella 2: Effetti medi dei corsi sulla probabilità dei trattati di trovare un nuovo impiego a 3, 6, 12 e 15 mesi dall’inizio dell’intervento in funzione della durata del corso (errori standard tra parentesi).
***p<0.01, **p<0.05
Oltre agli esiti occupazionali complessivi e su singoli gruppi di trattati, la valutazione d’impatto qui riassunta consente di chiedersi se l’efficacia dei corsi di formazione studiati variasse in funzione della loro durata. La risposta è così sintetizzabile. L’effetto di lock in è decisamente più marcato nei corsi che durano oltre i tre mesi, ma questo svantaggio risulta, almeno in parte, compensato da una maggiore estensione temporale dell’effetto positivo sulle chance di trovare un nuovo impiego (tabella 2).
MENO SPRECHI CON LA VALUTAZIONE
I risultati presentati mostrano – almeno crediamo – che, se esistono la volontà politica e la capacità tecnica di condurre sensate valutazioni d’impatto, l’opacità che avvolge i corsi di formazione finanziate con il Fse (o con altre risorse) può essere, almeno in parte, ridotta. In particolare, è possibile stabilire per quali gruppi socio-demografici la partecipazione a iniziative formative sia efficace e quale sia la loro configurazione organizzativa preferibile. Di qui anche lo stimolo a riflettere sulle categorie dei destinatari delle iniziative formative, a individuare, per alcuni gruppi di disoccupati, politiche attive diverse dalla partecipazione ai corsi di formazione, a ridurre la durata temporale dei singoli corsi in modo da limitare gli effetti di lock in e così via. È evidente che neppure costringendo lo Stato italiano e tutte le Regioni a ricorrere sistematicamente alle procedure analitiche esemplificate in queste righe – come per altro sarebbe doveroso – si riuscirebbe a garantire che gli eventuali vantaggi economici derivanti dall’utilizzazione del Fse (e del Fesr- Fondo europeo di sviluppo regionale) fossero tali da superare i costi che essa comporta. Si ridurrebbero, però, gli sprechi e le inefficienze associati alle iniziative attivate per loro tramite e si potrebbero eliminare quelle che a nessun utente, ma solo ai loro organizzatori, servono.
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giulio
Molto interessante, ma non sarà che la motivazione (a partecipare a un corso oppure a cercare attivamente un lavoro) spiega la differenza tra trattati e controlli? Che è difficile controllare con un propensity score matching. Grazie
Enrico Rettore
Non è il metodo in sè – il ps-matching – che conta, sono le variabili incluse nel pscore. Qui sono inclusi 36 (trentasei) mesi di storia lavorativa precedente l’inizio del corso che dovrebbe incorporare parecchie delle caratteristiche individuali rilevanti per gli esiti sul mercato del lavoro. Questo almeno è quanto suggerisce tutta la letteratura in tema di valutazione di ‘active labour market policies’.
Maria Cristina Migliore
C’è la possibilità di ricevere il report di questa ricerca? Sarei interessata a conoscere quali sono le variabili considerate per controllare le caratteristiche individuali. Dove lo si può trovare? Grazie.
Enrico Rettore
Il testo del rapporto è stato utilizzato per un saggio di prossima pubblicazione. Non appena possibile, indicheremo i riferimenti del medesimo. Nel frattempo fornisco qui di seguito l’elenco delle covariate utilizzate. Oltre alle caratteristiche principali dei soggetti (età, genere, nazionalità), le variabili chiave sono nella descrizione della storia lavorativa pregressa. Sono stati utilizzati gli stati occupazionali (occupato o disoccupato) nei 36 mesi precedenti l’inizio dell’intervento formativo; il numero di mesi trascorsi in disoccupazione dalla data di iscrizione al CPI; il numero di avviamenti al lavoro e la qualifica professionale più elevata raggiunta negli ultimi tre anni; la qualifica professionale e il settore produttivo relativi al lavoro di maggior durata svolto negli ultimi 3 anni.
Maria Cristina Migliore
Grazie per la risposta. Aspetto il rapporto per capire meglio il tipo di analisi fatta. Al momento mi pare che più che effetto sulle probabilità di occupazione, mi pare lo studio metta in luce come un effetto di disturbo del periodo di formazione. A ben guardare il grafico mostrerebbe – come mi ha fatto notare un collega – un effetto di delay: i Formati recuperano sui Controlli in un secondo tempo il ritardo cumulato con la perdita di contatto con il mercato del lavoro durante la formazione che richiede un tempo di ripresa dei contatti (effetto lock in). Comunque sono d’accordo che occorrano maggiori investimenti nella valutazione delle politiche e anche una più ampia discussione di cosa sia l’apprendimento.
Claudia Villante
Comincio a pensare che esista un disegno dietro questo attacco indiscriminato alla mancanza di valutazione. Qui il problema non è la mancanza di valutazione ma lo scarso investimento in questo processo che non inizia, come sanno bene gli autori, al termine dell’intervento, ma al momento del disegno della policy. Per parte mia, occupandomi dell’argomento dal lontano 1994, posso dire che ho fatto una fatica enorme a ricostruire l’universo di riferimento. Certo in realtà piccole come la Provincia di Trento tutto è molto più semplice (è possibile addirittura ricostruire i percorsi personali dei trattati), ma le cose ovviamente si complicano in realtà ben più ampie. Tuttavia dal mio osservatorio posso evidenziare che, malgrado tali difficoltà, passi avanti ne sono stati fatti (Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna…..) e non è assolutamente vero che le valutazioni non siano state realizzate!
M.S.
E che cosa sospetta? Non sono molte le valutazioni ben fatte in Italia, ma sopratutto larga parte della spesa pubblica non è valutata, nè per l’efficacia delle procedure adottate (a volte molto peculiari rispetto ad altri paesi Europei) nè per gli esiti che consegue.
Sopratutto il sistema è spesso collusivo, cioè incoraggia il valutatore a lavorare solo quando c’è accordo preventivo con il policy maker, ed in dipendenza completa dallo stesso; quest’ultimo, quando il risultato non è gradito (cioè se il valutatore non sostiene la “sua” politica, o dà qualche notizia comunque sgradita), lo manda a casa, in modo del tutto indipendente dalla qualità del lavoro realizzato. Di conseguenza si ha che solo quando una valutazione conferma la decisione del policy maker questa viene conclusa e resa pubblica, altrimenti è molto spesso soggetta a seri problemi di censura (in maniera indipendente dalla sua qualità). Molte valutazioni svolte “sul mercato” sono realizzate da società di consulenza, e poche o pochissime di queste società investono in competenze adeguate, e riescono a realizzare lavori utili e soddisfacenti. E’ invece scoraggiato un atteggiamento indipendente che possa mostrare, con analisi fondate, ed oneste (non finalizzate a sostenere tesi precostituite), esiti insoddisfacenti da correggere. Tra le cause ci sono problemi di disegno istituzionale, ma anche di qualità dei responsabili delle politiche pubbliche, non sempre adeguati rispetto alla possibilità di migliorare il funzionamento dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali per le politiche che realizzano. Infine, e in un certo senso sopratutto, la valutazione resta spesso nelle pubbliche amministrazioni, piuttosto che essere diretta utilmente alle assemblee parlamentari, dove i suoi esiti potrebbero e dovrebbero essere discussi per migliorare il funzionamento delle politiche pubbliche, il contenuto del dibattito politico, ed il processo legislativo.
Franco Bisi
Sono sempre più convinto che esista un inconsapevole pregiudizio verso la formazione professionale che si alimenta di affermazioni raramente confrontate con i risultati effettivi in termini di esiti occupazionali. Occorre distinguere la formazione a favore dell’inserimento al lavoro da quella fatta per i lavoratori. In un mercato del lavoro in Italia composto di operatori di basso livello di istruzione la formazione dei lavoratori non fa aumentare direttamente il numero degli occupati, ma evita l’aumento dei disoccupati e questo non è censibile in termini di nuova occupazione, ma è importante per l’intero sistema economico.
Per la formazione al lavoro esistono sistemi di rilevazione occupazionale meno raffinati e ricchi di quelli esposti per la Provincia di Trento, ma altrettanto rivelatori in Emilia-Romagna: la rilevazione degli esiti occupazionali a 12 mesi dal termine dei corsi. Sono a conoscenza di dati parziali, ma penso che studiosi dalla materia siano in grado di ottenere i dati aggregati dalla Regione Emilia-Romagna.
Torno oggi da un convegno nel quale sono stati citati dati da “La Voce” sul fatto che la formazione serve unicamente a finanziare gli stipendi dei formatori. È uno slogan facile da riferire e soddisfa gli istinti forcaioli degli esasperati. Ben vengano ricerche di questo tipo e altre ancora che affrontino il tema in modo più imparziale e approfondito.
Cosimo Copertino
Sono anni che si parla di questo argomento e non ho conoscenza di novità significative da quando vi lavoravo ad oggi. Sono tanti gli aspetti che concorrono al buon funzionamento di un sistema e a giudicare dall’alto tasso di arresti/inquisiti in questo settore in giro per tutta Italia (da Genovese, buon ultimo, passando per i vari assessori regionali lombardi nelle varie giunte Formigoni) vien da pensare che il settore è fortemente imbrigliato nelle relazioni politiche, è un settore “ricco” a fronte di una discrezionalità alta dei decisori, è un settore in cui regna l’immobilismo di vision in tandem con una impostazione datata del funzionamento e dell’allocazione delle risorse della formazione professionale.
Ad ogni modo, non per buttarla per forza in politica, ma un passo importante sarebbe dare una nuova architettura (riforma) al (del) sistema degli ammortizzatori sociali e degli strumenti di politica attiva del lavoro (se ne parla da tanto ma, ad es. alla stessa riforma Biagi è mancata proprio questa parte).
Il trasferimento delle risorse “dall’offerta alla domanda” avrebbe una logica più chiara e funzionale nel quadro della riforma.