Finalmente i paesi dell’Eurozona hanno trovato un accordo sulla ricapitalizzazione diretta delle banche da parte del Meccanismo di stabilità europeo. E tuttavia le condizioni e le richieste per accedervi appaiono troppo stringenti per spezzare il legame tra banche e Stati sovrani in difficoltà.
PROLOGO: LA RICAPITALIZZAZIONE DIRETTA ESM
Dopo lunghe e penose negoziazioni, i capi di Stato e governo dell’Eurozona hanno trovato un “accordo politico” sulla ricapitalizzazione diretta delle banche da parte del Meccanismo di stabilità europeo (Esm). Si tratta di una misura proposta più di due anni fa, al culmine della crisi economica e finanziaria. Insieme al Meccanismo di supervisione unico (Ssm) e all’accentramento delle pratiche di risoluzione e ristrutturazione bancaria, la misura rientra nel pacchetto di riforme costitutive dell’Unione bancaria europea. Benché se ne stesse discutendo da parecchio tempo, la conclusione dell’accordo è passata quasi in sordina.
L’idea di ricapitalizzare direttamente le banche attraverso il Meccanismo di stabilità europeo nasce nel 2012, al culmine della crisi economico-finanziaria che ha investito l’Eurozona. Dopo quattro anni di turbolenze sui mercati finanziari, era ormai diventato chiaro che la crisi viaggiava a doppio senso tra Stati sovrani e sistema bancario. La fortissima interdipendenza tra Stati e banche non è una caratteristica esclusiva della crisi dell’Eurozona. Diversi lavori di ricerca economica mostrano che storicamente le crisi bancarie tendono a essere seguite da crisi del debito. (1) Ma certamente il “circolo vizioso” sembra essere stato molto più forte nel contesto dell’Eurozona. Perché? Ci sono principalmente due ragioni.
Primo, c’è un canale attraverso cui i problemi del settore finanziario si ripercuotono sulle finanze pubbliche e sulla percezione della loro sostenibilità. Data l’assenza (fino a quest’anno) di un meccanismo sovranazionale in grado di ristrutturare o ricapitalizzare le banche in difficoltà, la responsabilità dei salvataggi bancari rimaneva interamente in capo ai singoli Stati nazionali. Questo creava un primo punto di debolezza, perché in quasi tutti i paesi dell’Eurozona, la dimensione del sistema bancario è imponente, rispetto al Pil. Ciò implica che, per i singoli Stati sovrani, ricapitalizzare le banche in deficit di capitale era molto costoso in termini d’impatto sul bilancio pubblico. L’anticipazione, da parte dei mercati, di questo costo, si traduceva in dubbi sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. Le possibili conseguenze di questa situazione divennero chiare nel 2009, con il caso irlandese. Solo due anni prima, nel 2007, l’Irlanda era uno tra i paesi più virtuosi in termini di finanza pubblica, con un rapporto debito/Pil pari ad appena il 25 per cento. Alla fine del 2011, dopo aver salvato alcune delle istituzioni finanziare più grandi d’Europa, il debito era salito al 108 per cento del Pil. Secondo una stima del Fondo monetario internazionale, più della metà dell’aumento nel debito irlandese è attribuibile direttamente al costo del salvataggio bancario.
Secondo, c’è un canale inverso, attraverso il quale i dubbi riguardo alla sostenibilità delle finanze pubbliche si ripercuotono sulle condizioni di salute del sistema bancario. Ciò avviene attraverso il valore dei titoli del debito pubblico che le banche hanno in portafoglio. Le banche nell’Eurozona detengono quantità molto elevate di titoli del debito pubblico domestici. Si tratta di un atteggiamento storicamente radicato, non di una novità: anche prima della crisi, infatti, le banche avevano un “bias” nazionale nei loro portafogli di titoli pubblici. Ma con l’introduzione dell’euro e l’eliminazione del rischio di convertibilità, le banche avevano cominciato a differenziare geograficamente i loro portafogli e, di conseguenza, anche il mercato del debito pubblico si era tendenzialmente internazionalizzato. Per esempio, tra il 2000 e il 2007, la quota detenuta da investitori stranieri su totale del debito pubblico era passata dal 35 al 70 per cento in Grecia, dal 30 a quasi il 50 per cento in Spagna, dal 30 al 50 per cento in Italia. Simmetricamente, le quote detenute da banche nazionali erano diminuite, in percentuale del totale. Con lo scoppio della crisi, e soprattutto dal 2010, si è verificata un’inversione di tendenza. In particolare nei paesi più in difficoltà le banche nazionali hanno svolto una funzione importante di cuscinetto, comprando la parte di titoli scaricata dagli investitori stranieri che cercavano di fuggire verso investimenti più sicuri. A dispetto di quanto si sente talvolta dire dagli oppositori della moneta unica, questa ri-nazionalizzazione del mercato del debito pubblico non è benefica. Se è vero che può consentire allo Stato di finanziarsi a tassi più bassi anche in periodi di stress, favorisce al tempo stesso il trasmettersi molto rapido dello stress da Stati a banche, in maniera sistemica. I titoli del debito pubblico possono trasformarsi in un rischio per le banche che li detengono, se si diffondono dubbi sulla solidità delle finanze pubbliche dello Stato emittente. In quel caso, infatti, il valore dei titoli tende a scendere. Ciò ha un impatto sulle banche che li detengono in portafoglio sia direttamente (attraverso il valore di questi titoli registrati al prezzo di mercato), sia indirettamente (attraverso la facilità di scambiarli in cambio di liquidità sul mercato).
Questo “circolo vizioso” è ciò che l’Unione bancaria europea mira a rimediare. La ricapitalizzazione diretta delle banche da parte del Maccanismo di stabilità europeo (Esm) dovrebbe in principio agire sul primo dei due canali. L’idea è molto semplicemente quella di mettere a disposizione fondi pubblici da iniettare direttamente nelle banche in difficoltà, senza passare per il bilancio dello Stato in questione, e quindi senza gli effetti negativi sulle finanze pubbliche.
L’ACCORDO: IL DIAVOLO STA NEI DETTAGLI (LESSICALI)
Alla luce di tutto ciò, come spiegare lo scarsissimo rilievo dato alla notizia della conclusione di un accordo che, potenzialmente, dovrebbe essere un passo in avanti nella direzione di rimuovere una delle criticità specifiche dell’Eurozona? Il motivo probabilmente è duplice. Da un lato, la crisi si è attenuata e certamente il senso di urgenza è venuto meno agli occhi di mercati, politici e opinione pubblica. Secondo, e più importante, le informazioni (parziali) che sono state rese note suggeriscono che purtroppo non si tratti dello strumento rivoluzionario che ci si aspettava.
L’obiettivo iniziale era molto chiaro. Dopo la tempesta perfetta che aveva investito i mercati finanziari tra estate 2011 e inizio 2012, i leader europei avevano raggiunto la conclusione che fosse “imperativo spezzare il legame tra banche e Stati sovrani”. Da allora, però, il lessico dei leader europei è cambiato significativamente, rispecchiando il sorgere di obiettivi aggiuntivi (e spesso confliggenti con quello iniziale) e l’evolversi delle priorità politiche. Nei vari documenti ufficiali resi pubblici, la missione della ricapitalizzazione diretta da parte di Esm viene descritta in termini via via meno ambiziosi fino a scomparire del tutto (fatto piuttosto singolare) nello statement rilasciato dal presidente dell’Eurogruppo il giorno in cui l’accordo è stato raggiunto. Lo stesso Esm ha pubblicato sul proprio sito una serie di Frequently Asked Questions, in cui si chiarisce (forse un po’ ingenuamente) che: “quando questo strumento fu inizialmente proposto, il suo obiettivo era quello di spezzare il legame tra banche e Stati sovrani in difficoltà. Tuttavia, è divenuto presto evidente che gli altri pezzi dell’Unione bancaria avrebbero molto probabilmente raggiunto questo obiettivo senza la necessità che [questo strumento] metta a disposizione fondi significativi”.
Benché espresso in maniera politicamente corretta, questo è il punto chiave di tutta la vicenda. Infatti, le caratteristiche dello strumento che sono state rese note finora sembrano renderlo inadatto all’obiettivo per cui era stato inizialmente concepito. Soprattutto a causa del contributo che si continua a richiedere agli Stati nazionali nelle operazioni di ricapitalizzazione bancaria.
COME FUNZIONA IN PRATICA?
Cosa succederebbe se una banca dovesse aver bisogno di essere ricapitalizzata tramite il Meccanismo di stabilità europeo? La prima condizione per accedere ai fondi pubblici è l’imposizione di un significativo contributo sul settore privato. Fino al dicembre 2015, i creditori privati della banca sarebbero chiamati a contribuire (“bail-in”) alla ricapitalizzazione per un ammontare pari all’8 per cento delle passività totali della banca in questione, inclusi fondi propri. Da gennaio 2016, invece, si applicheranno le regole stabilite dalla Bank Recovery and Resolution Directive, un testo legislativo che ha lo scopo di armonizzare a livello europeo le pratiche da seguire nel caso di ristrutturazione e risoluzione d’istituzioni finanziarie. Come condizione necessaria per accedere alla ricapitalizzazione diretta, sarà anche indispensabile un contributo del fondo di risoluzione nazionale che, secondo le nuove regole europee, va accantonato per far pronte a problemi nel sistema bancario. A partire dal 2016, quando le regole della Brrd saranno interamente operative, questo contributo potrebbe raggiungere fino al 5 per cento delle passività totali della banca, inclusi fondi propri. In teoria, si tratta anche qui di fondi di origine privata, dal momento che i fondi di risoluzione nazionali sono finanziati imponendo un contributo ex ante (o anche ex post, a seconda della spesa per l’intervento) al settore bancario. Va comunque ricordato che la Brrd impone come target (decisamente poco ambizioso) l’accantonamento di fondi pari all’1 per cento dei depositi assicurati, su un periodo di dieci anni. Il nuovo meccanismo unico europeo prevede la successiva fusione dei fondi di risoluzione nazionali in uno unico europeo, ma il target è di soli 55 miliardi (meno dei fondi ufficialmente disponibili per lo strumento di ricapitalizzazione diretta di Esm) e il trasferimento dei fondi non sarà immediato, ma prenderà dieci anni a partire dal 2016.
Perché far contribuire i creditori delle singole banche da ricapitalizzare? L’obiettivo è proprio quello di evitare i costosi (per le finanze pubbliche) salvataggi bancari tipici degli ultimi quattro anni. Si tratta di un’inversione di tendenza generalizzata a livello europeo. Se la filosofia prevalente fino ad ora è stata quella del “bail-out” – il salvataggio interamente finanziato da fondi pubblici – la nuova regola per il futuro sarà quella del “bail-in” – il contributo forzato dei creditori privati alle operazioni ricapitalizzazioni. Una strategia che dovrebbe evitare il massiccio impiego di fondi pubblici, ma che va calibrata con cura, perché potrebbe avere conseguenze sistemiche importanti.
In aggiunta al “bail-in”, il contributo richiesto allo Stato resta rilevante. La possibilità di richiedere la ricapitalizzazione diretta da parte di Esm sarà aperta solo per quegli Stati le cui finanze pubbliche siano considerate “a rischio”. Uno Stato dovrà essere “incapace di fornire assistenza finanziaria alla banca in questione senza effetti molto seri sulla sostenibilità delle finanze pubbliche” o essere comunque a rischio di perdere l’accesso al mercato finanziario. Solo in questi casi si potrà richiedere l’intervento diretto dell’Esm per la ricapitalizzazione bancaria. Ne consegue che tale intervento sarebbe sottoposto a una condizionalità importante, dato che presuppone l’esistenza di una certa instabilità nelle finanze pubbliche. Naturalmente, nulla vieterebbe allo Stato che non dovesse “qualificarsi” per questo strumento, di richiedere un normale prestito Esm e usarlo per ricapitalizzare le banche in difficoltà (come avvenuto nel caso spagnolo). Ma ovviamente questi fondi Esm sarebbero iniettati indirettamente e quindi finirebbero per comparire sul bilancio pubblico, con tutti i problemi già visti. Pur essendo riservata a Stati le cui finanze pubbliche siano percepite “a rischio”, la ricapitalizzazione diretta da parte di Esm richiede comunque un contributo pubblico importante, la cui entità dipende da quanto la banca da ricapitalizzare sia al di sotto del livello di capitale richiesto dalle autorità di supervisione.
Un contributo da parte dello Stato richiedente risponde a obiettivi che hanno acquisito rilevanza nel dibattito politico nel corso del 2013. Primo, la necessità di far operare il nuovo strumento entro il limite (auto-imposto) di 60 miliardi. Secondo, la necessità di far quadrare politicamente il fatto che parte dei problemi bancari attualmente esistenti possono essere visti come la conseguenza di negligenze commesse in passato dalle autorità di supervisione nazionali. È un punto di vista legittimo, nel breve periodo, ma non giustificabile nel lungo, quando la supervisione bancaria verrà centralizzata in capo alla Bce. E proprio per questo, nel giugno 2013, si era deciso che le caratteristiche e i requisiti di questo nuovo strumento Esm sarebbero stati rivisti ogni due anni, per tenere conto dei cambiamenti indotti dall’Unione bancaria. Non c’è traccia di questo accordo nel comunicato rilasciato dal presidente dell’Eurogruppo, ma l’attuazione di questa promessa è cruciale.
I limiti dell’Esm – così com’è ora – sono evidenti e sono state riconosciuti anche dal Fondo monetario internazionale in un recente rapporto sull’Eurozona. Il Fondo dice esplicitamente che la ricapitalizzazione diretta delle banche da parte del Esm è un’idea che va nella direzione giusta ma, allo stato attuale delle negoziazioni, le condizioni e le richieste per accedervi sono troppo stringenti.
Fondamentalmente, il problema è che l’obiettivo di questo strumento – inizialmente chiaro – si è perso nel tentativo politico di coniugare e mediare numerose finalità confliggenti. In economia c’è una regola parecchio nota – che prende il nome dall’economista olandese Jan Timbergen – secondo cui un modello di politica economica ha soluzioni univoche solo se il numero di strumenti che si hanno a disposizione è uguale al numero di obiettivi che s’intende perseguire. Un consiglio saggio, che purtroppo non sembra aver superato il banco di prova della politica, almeno in questo caso.
(1) Si vedano tra gli altri Laeven L. and F. Valencia, “Systemic Banking Crises: A New Database”, Imf Working Paper, novembre 2008; Reinhart C. M. and K. S. Rogoff “The Aftermath of Financial Crises”, American Economic Review, 2009.
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Carmine
Tieni presente che gli statement politici sono costruiti per significare tutto ed il contrario di tutto a seconda dei tempi che corrono. Riguardo al bail-in, se attuato in modo razionale, rappresenta la soluzione più efficiente in termini di incentivi (nel lungo periodo) diversamente dai bail-out.
Piero
Spezzare il legame debito statale e banche.
La prima cosa che deve essere decisa: chi acquista il debito statale quando il mercato non assorbe l’offerta? Può andare lo stato in default per il debito emesso?
La risposta e’ ovvia, lo stato non può andare in default, qualcuno dovrà quindi acquistare il debito. Saranno le banche oppure la banca centrale?
Anche qui la risposta e’ semplice: se le banche acquistano il debito, non potranno fare più il loro mestiere. In caso di aumento dei tassi sul debito, conseguiranno minusvalenze che riducono il loro patrimonio di vigilanza e conseguentemente devono diminuire gli impieghi. Se ciò è quello che accade, anzi è cio che è accaduto negli ultimi anni, dovrà essere la banca centrale che dovrà sostenere il debito statale.
Naturale che vi saranno regole sul debito statale, ossia lo stato avrà l’obbligo del bilancio in pareggio e oggi con il fiscal compact dovrà rientrare in un determinato periodo al livello del 60%.
Il fondo Esm, nato per il debito statale, oggi viene utilizzato per le banche, al fine di spezzare il legame debito statale e banche. Chiaro che ciò sarà un fallimento, vi è la volontà espressa di volere tutelare le istituzioni finanziarie e lasciare gli stati al loro destino, se vogliono salvarsi devono farlo solo con la politica fiscale. Abbiamo già visto che questa politica della Merkel ha portato tutta l’Europa verso una profonda recessione.
Maurizio Cocucci
“Lo Stato non può andare in default”? La Storia è ricca di default di Stati. “Le banche non devono acquistare titoli del debito”? E chi dovrebbe acquistarli? Se io privato cittadino anziché lasciare i miei risparmi in conto corrente, consentendo alla banca di prestarli, acquisto titoli o obbligazioni la banca stessa non può usarli. Per cui se privati cittadini e banche non possono acquistare i titoli di Stato chi lo farebbe? La banca centrale? L’acquisto di TdS da parte delle banche, come anche i altre istituzioni e di privati cittadini, fa parte della diversificazione degli investimenti e per fortuna che è così altrimenti qualsiasi nazione dovrebbe ricorrere alla fiscalità o al pareggio di bilancio obbligato.
Maurizio Cocucci
Non condivido il giudizio negativo sul Esm. È vero che la sua introduzione e quella di altre misure in tempi diversi ha creato qualche rigidità ma il principio che a fronte di una crisi bancaria vi sia un primo intervento da parte dei creditori e dello Stato di appartenenza lo trovo del tutto corretto. Un esempio credo lo avremo a breve, benché mi auguro di no, con la crisi in cui versa in Portogallo il Banco Espirito Santo. In ogni caso non vedo quali altre alternative possano essere proposte in sostituzione di quella attuale che, concordo, necessiterebbe di un qualche aggiustamento alle modalità e requisiti di intervento ma non nelle linee guida.