Le politiche monetarie e fiscali corrono su binari opposti, mentre il dollaro si deprezza e l’euro si rafforza. Così gli Usa volano verso la ripresa e il Vecchio Continente è sull’orlo della deflazione. Eppure, i fondamentali sono giusti e per tornare a crescere agli europei basterebbe un cambio d’umore, magari determinato da politiche macroeconomiche più ambiziose.

Le strade divergenti di Europa e Stati Uniti (versione italiana)

Arriverà presto la ripresa economica, come promettono i leader del G8?

Negli Stati Uniti come in Europa, gli astri sembrano favorevoli a molte variabili economiche.

Le buone notizie

Il prezzo del petrolio sta scendendo dai picchi raggiunti con la guerra in Iraq, e sotto scenari plausibili, può indirizzarsi verso qualcosa di ben più consistente di un calo. Gli investitori di tutto il mondo si stanno riprendendo dai nervosismi Brasile-Enron-guerra in Iraq e il premio di rischio sta scendendo, determinando il rialzo dei corsi azionari e minori rendimenti dei titoli obbligazionari a lunga scadenza. Il lascito di accumulazione di capitale in eccesso avvenuta nel corso dei folli anni Novanta è per lo più eliminato. I tassi di investimento sono rimasti bassi per tre anni di seguito e soltanto alcuni settori soffrono ancora di un eccesso di accumulazione di capitale. Le imprese sono ora pronte a investire di nuovo.

Sono tutte buone notizie, ma le similarità tra Europa e Stati Uniti finiscono qui.

Un confronto Usa-Europa

Negli Stati Uniti, politica fiscale e monetaria lavorano a tutto gas, in Europa sono imbavagliate.

Negli Stati Uniti, Alan Greenspan ha fatto il suo lavoro nel 2001 e 2002, tagliando i tassi con decisione. E quando la politica monetaria non ha potuto fare più nulla, il testimone è passato all’amministrazione Bush, che lo ha preso con entusiasmo: il bilancio federale è passato da un surplus dell’1,4 per cento del prodotto interno lordo nel 2000 a un deficit stimato per il 2003 al 4,6 per cento, con un’oscillazione del 6 per cento – il 5 per cento della quale è dovuto ai mutamenti di politica economica piuttosto che alla debolezza dell’economia. Questo può essere fiscalmente irresponsabile (e con i tagli alle tasse previsti per il futuro, lo è di sicuro), ma nel breve periodo rappresenta certamente un enorme stimolo alla domanda.

In Europa, la Bce è stata molto più cauta. È vero che doveva stabilire la sua credibilità, ma la conseguenza è stata una minore e più lenta riduzione dei tassi di interesse, nonostante l’ultimo taglio. La politica fiscale è vincolata dal Patto di stabilità e crescita. Il bilancio dell’area euro è passato da un surplus dello 0,1 per cento nel 2000 a un deficit previsto al 2,4 per cento nel 2003, quasi del tutto dovuto alla debolezza dell’economia e non a modifiche nella politica fiscale. I governi fanno ora aggiustamenti al margine, barano un po’ e si prendono le reprimende di Bruxelles. Ma, anche nella migliore delle ipotesi, probabilmente non avremo quella massiccia espansione fiscale nel breve di cui l’Europa ha necessità. (Il segreto del successo qui è aumentare i deficit nel breve periodo e nello stesso tempo migliorare le prospettive a lungo termine attraverso serie riforme nei sistemi pensionistici. I governi stanno cercando di realizzare il secondo obiettivo, dovrebbero sentirsi più liberi di perseguire anche il primo).

Un’amara ironia nei tassi di cambio

Intanto, il mondo sta sperimentando un importante riallineamento dei tassi di cambio: il dollaro si sta deprezzando, l’euro apprezzando.

C’è una profonda e amara ironia in tutto ciò. L’attuale deprezzamento del dollaro è il prezzo che gli Stati Uniti devono pagare per i loro peccati del passato, per il grande deficit della bilancia di parte corrente, che gli investitori esteri non vogliono più finanziare, almeno non a un ritmo del 4 per cento o più del Pil americano. L’ironia sta nel fatto che questo aggiustamento del dollaro è indiscutibilmente un bene per gli Stati Uniti e altrettanto indiscutibilmente un male per l’Europa.

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Per gli Stati Uniti significa uno stimolo alle esportazioni e un ulteriore incremento della domanda, quindi un nuovo impulso per la ripresa. Significa anche un po’ di inflazione in più, ma al giorno d’oggi questo è un bene, non un male.

Per l’Europa significa una minore competitività e un’ulteriore contrazione della domanda. Gli effetti sono tutt’altro che irrilevanti. Le stime migliori indicano che un apprezzamento del 10 per cento dell’euro induce un calo della domanda e del prodotto dello 0,6 per cento del Pil di Eurolandia. Finora, l’apprezzamento è stato di circa il 30 per cento rispetto ai minimi di due anni fa e ci sono buone ragioni per pensare che proseguirà: l’euro è l’unica moneta verso la quale il dollaro può deprezzarsi. (Una rivalutazione dello yen è l’ultima cosa di cui ha bisogno il Giappone). E servirà ben più di quello che abbiamo visto finora, perché il deficit della bilancia corrente americana torni a proporzioni ragionevoli.

Il pericolo deflazione

Con la contrazione della domanda e l’apprezzamento dell’euro, arriva la deflazione. L’Europa è già sull’orlo della deflazione e l’apprezzamento dell’euro potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. E, come ci dimostra la ormai decennale crisi giapponese, è sicuro che l’Europa non vuole arrivare a questo punto.

In definitiva, i G8 hanno ragione a metà: tra caduta dei prezzi del petrolio, politiche fiscali e monetarie aggressive e deprezzamento del dollaro, è difficile vedere che cosa potrebbe ostacolare una forte ripresa negli Stati Uniti. Ma questo non si applica all’Europa, dove la cautela monetaria, i limiti auto-imposti alla politica fiscale e l’apprezzamento dell’euro portano tutti a chiari pericoli, deflazione e una prolungata crisi. Il rallentamento non è una strada obbligata: molti fondamentali sono giusti tanto che un semplice cambio d’umore potrebbe spingere l’Europa alla ripresa. Ma questo è il tempo di robusti piani per affrontare la contingenza, di politiche macroeconomiche ambiziose. Non mi sembra che siano in arrivo.

a pag.2 la versione in lingua inglese dell’articolo

Le strade divergenti di Europa e Stati Uniti (versione inglese)

The divergent paths of the US and Europe.

Olivier Blanchard

 

Will there be an economic recovery soon, as the G8 leaders promise us?

Many economic stars are indeed aligned right, both in the US and in Europe.

Oil prices are coming down from their Iraq war highs, and under plausible scenarios, may well be heading for more of a fall. Investors all over the world are emerging from their Brazil-Enron-Iraq war jitters, and the risk premium is falling, leading to higher stock prices, and lower yields on long bonds. The overhang of the excess capital accumulated during the crazy 1990s has now been mostly worked out. Investment rates have been low for three years in a row, and only a few sectors still suffer from excessive capital accumulation. Firms are now ready to invest again.

These are all good news. But here, the similarities between Europe and the US come to an end:

Monetary and fiscal policy are working at full throttle in the US. They are muzzled in Europe.

In the US, Greenspan did his job in 2001 and 2002, aggressively cutting rates. And when monetary policy could not do much more, the Bush administration took the relay. It did so with relish: the budget has gone from a surplus of 1.4% of GDP in 2000 to a forecast deficit of 4.6% in 2003, a 6% swing — of which about 5% is due to changes in policy rather than the weak economy. This may be fiscally irresponsible (and, together with the tax cuts put in place for the future, it indeed surely is), but, in the short run, it surely is an enormous boost to demand.

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In Europe, the ECB has been much more careful. True, it had to establish credibility, but the result is still a smaller and slower decrease in interest rates, the last cut notwithstanding. Fiscal policy is constrained by the Stability and Growth Pact. The budget for the Euro area has gone from a surplus of 0.1% in 2000 to a forecast deficit of 2.4% for 2003, nearly all of it due to the weak economy, not to changes in fiscal policy. Governments are now tinkering at the margin, cheating a bit, and getting reprimanded by Brussels. But, in the best of scenarios, what will happen is likely to fall short of the major short run fiscal expansion Europe may well need. (The secret of success here: Increase deficits in the short run, while improving the long run outlook through serious pension reforms. Governments are trying to do the second; they should feel freer to do the first. )

And the world is going through a major exchange rate realignment. The dollar is depreciating, the Euro appreciating:

There is indeed a deep and sad irony to the current depreciation of the dollar. The depreciation is the price the US has to pay for its past sins, for its large current account deficit, that foreign investors are no longer willing to finance, at least at the pace of 4% or more of US GDP. The irony is that this dollar adjustment is unambiguously good news for the US, and unambiguously bad news for Europe:

For the US, it means a boost to exports, and a further increase in demand, a further push for recovery. It also means a bit more inflation, but, in today’s world, a bit more inflation is good, not bad.

For Europe, it means lower competitiveness, and further contraction. The effects are far from negligible. The best estimates are that a 10% Euro appreciation lead to a decrease in demand and output of 0.6% of Euro GDP. So far the appreciation is close to 30% from the lows of two years ago, and there is every reason to think that there is more to come: The Euro is the only currency against which the dollar can depreciate (The last thing Japan needs is an appreciation of the yen). It will take more than what we have seen so far to return the US current account deficit to reasonable proportions.

And with contraction and Euro appreciation come deflation. Europe is already flirting with deflation; this may well be the tipping factor. And, as the now ten–year old Japanese slump tells us, Europe surely does not want to go there.

So, the G8 are half right: Between falling oil prices, aggressive fiscal and monetary policies and the dollar depreciation, it is hard to see what stands in the way of a strong recovery in the US. But this does not translate to Europe. There, monetary caution, self imposed fiscal constraints, and the Euro appreciation, all lead to clear dangers, deflation and a prolonged slump. The slump is not preordained; many fundamentals are right, and a simple change in mood may lift Europe into recovery. But this is the time for strong contingency plans, for ambitious macroeconomic policies. I do not see them coming.

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