Investimenti in grandi opere e ricerca fuori dalla spesa pubblica e quindi dai vincoli imposti dal Patto di Stabilità: è una ricetta che non garantisce il rilancio dell’economia, come dimostra il caso-Giappone. Può diventare invece un’ottima scusa per abbandonare il rigore nei conti pubblici. Perché la “regola d’oro” funziona bene solo se la si applica come nel Regno Unito, ovvero mantenendo la sostenibilità della politica fiscale.

Il Patto di stabilità e di crescita impone ai Paesi dell’Unione monetaria europea vincoli sui conti pubblici. Questi vincoli hanno creato difficoltà a quei Paesi che (a) non avevano portato i conti pubblici sotto controllo nel periodo di espansione dell’economia; e (b) hanno difficoltà politiche nel ridurre la spesa primaria.

Negli ultimi due anni c’è stata perciò una intensa discussione sulla possibilità di modificare il Patto in linea con una Golden Rule che escluderebbe dalla spesa pubblica le spese per investimenti, quelle per la ricerca, e forse per altre categorie, come la difesa.

Diversi gli argomenti a favore della Golden Rule. Tra i più importanti: (a) è usata senza difficoltà dal Regno Unito; (b) in un periodo di quasi recessione, il Patto può diventare una regola troppo rigida o persino “stupida” perché impedisce l’uso di politiche anticicliche; (c) gli investimenti pubblici e, forse, le spese pubbliche per la ricerca contribuiscono alla crescita dell’economia e quindi a mantenere, o persino a ridurre, il rapporto debito/Pil.

Nel Regno Unito si applica così

Una discussione approfondita di questi argomenti richiederebbe molto più spazio di quello disponibile, ci limitiamo perciò ad alcune osservazioni.

Come applicata nel Regno Unito, la Golden Rule è molto meno flessibile di quanto generalmente si pensi. Infatti, mentre permette l’esclusione degli investimenti pubblici dalla spesa primaria, la sua applicazione richiede che la politica “fiscale” (in senso anglosassone) rimanga “sostenibile” e definisce come politica sostenibile un debito pubblico (netto) che non aumenta nel tempo rispetto al Pil. Per di più, il debito pubblico netto del Regno Unito è molto basso.

Secondo, la politica (keynesiana) anticiclica ha più probabilità di successo quando è usata da un Paese con i conti pubblici sotto controllo. Se, invece, non sono sotto controllo e i media ne hanno parlato a lungo, l’aumento del disavanzo indotto da una politica anticiclica avrebbe inevitabilmente, su consumatori e imprese, conseguenze psicologiche negative che potrebbero, in parte o totalmente, neutralizzare i possibili effetti positivi della maggiore spesa pubblica: i consumatori potrebbero non aumentare i consumi; le imprese gli investimenti; e la politica “fiscale” potrebbe diventare meno sostenibile.

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Queste reazioni psicologiche spiegano perché la politica anticiclica spesso non ha l’effetto sperato di stimolo all’economia (vedi Giappone). Al contrario, Paesi che hanno ridotto il disavanzo dei conti pubblici, non hanno avuto effetti negativi sulla crescita dell’economia.

Se il peggioramento dei conti pubblici fosse causato da aumenti di spese per investimenti e per la ricerca, perché ci dovremmo preoccupare? Non è ovvio che queste spese stimolano la crescita e agiscono quindi sul denominatore del rapporto fra indebitamento (o debito) e Pil? Perché non allentare i vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita se lo si fa per opere pubbliche e per la ricerca?

Le opere pubbliche aiutano la crescita?

Consideriamo prima gli investimenti e poi le spese per la ricerca. Innanzi tutto, è opportuno ricordare che solo pochi studi econometrici trovano una relazione positiva tra investimenti pubblici e crescita economica.

Secondo, molte opere pubbliche (strade, ponti, linee ferroviarie, metropolitane) richiedono anni per essere completate. Durante questo periodo, non solo non si hanno effetti positivi sullo stock di capitale pubblico, ma la stessa costruzione dell’opera spesso genera intralci che possono ridurre l’efficienza del sistema economico. L’effetto positivo sulla crescita si verificherà solo più tardi, quando l’opera sarà completata. Per queste ragioni, gli investimenti in opere pubbliche non possono svolgere un ruolo efficace di stabilizzazione anticiclica eccetto che in periodi di prolungata depressione.

Terzo, le opere pubbliche si prestano a influenze politiche che spesso compromettono il loro valore economico. Il mondo purtroppo è pieno di “elefanti bianchi” o di “cattedrali nel deserto”, opere fatte per ragioni più politiche che economiche.

Quarto, ciò che funziona nel Regno Unito, non necessariamente funzionerà in altri Paesi. Gli inglesi rispettano le regole: l’introduzione della Golden Rule non ha comportato modifiche nella contabilità per ciò che riguarda la distinzione fra spese correnti e spese di investimento. Possiamo essere sicuri che ciò accadrà anche in altri Paesi, tenendo conto che a tutto oggi non esistono definizioni chiare e universalmente accettate di cosa costituisce un investimento pubblico? Non vi è il rischio che spese correnti si trasformino magicamente in investimenti pubblici?

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Quinto, il caso del Giappone degli ultimi dieci anni indica che gli investimenti pubblici non contribuiscono necessariamente alla crescita economica, anche quando raggiungono livelli eccezionalmente alti.

Il finanziamento della ricerca

Infine, le spese per la ricerca. La teoria economica insegna che un Governo dovrebbe finanziare solo la ricerca fondamentale perché è questa che genera le esternalità positive che giustificano l’intervento pubblico. La ricerca applicata dovrebbe essere responsabilità delle imprese private, magari aiutata da incentivi fiscali. Ma la ricerca fondamentale genera benefici per il mondo intero e non solo per il Paese che la finanzia. Quindi, il suo effetto sulla crescita del Paese è solo indiretto e limitato. Per questa ragione, non c’è giustificazione per applicare la Golden Rule, e scorporare queste spese dal Patto di stabilità, perché non contribuiscono necessariamente e direttamente alla crescita dell’economia. Più ragionevolmente, si potrebbero ampliare quei programmi di ricerca di base finanziati a livello comunitario per i quali più forti sono le esternalità tra paesi europei.

In conclusione, la Golden Rule può diventare una cattiva regola se adottata in circostanze diverse da quelle che prevalgono nel Regno Unito. Specialmente se usata come scusa per abbandonare il rigore nei conti pubblici, e nella vaga speranza che questo faccia crescere l’economia.

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