Il ministro Tremonti ha individuato nella apertura troppo violenta dei mercati a Paesi come la Cina la causa del declino economico italiano. Ma le ragioni del declino sono piuttosto addebitabili ai mancati investimenti in infrastrutture, nella ricerca, nei sistemi formativi, nelle grandi reti di servizio. Con i risultati che vediamo. Insomma i cinesi non devono servire a coprire responsibilità politiche. In un’intervista al Corriere della Sera del 20 luglio Giulio Tremonti ha impartito una nuova lezione di protezionismo neo-colbertiano. A sentire il ministro, alla base del declino dell’industria italiana c’è in pratica – la globalizzazione e in particolare l’ingresso della Cina nel mercato mondiale. “Non puoi competere afferma il titolare dell’Economia se tu hai la legge 626 e il tuo competitore inquina, se tu hai l’articolo 18 e il tuo concorrente non ha vincoli”. La specializzazione sbagliata C’è del vero in queste considerazioni. Ma è altrettanto vero che, nella generalità dei casi, un rubinetto costruito secondo i severissimi standard europei è di una qualità superiore di quello costruito “con materiale di risulta con uranio impoverito” e che, quindi, può essere venduto e comprato ad un prezzo superiore. Non ha senso mettersi alla coda di quei segmenti di apparato produttivo che temono la concorrenza dei prodotti dei paesi in via di sviluppo (si veda Manasse, 04-02-2003), che non riescono ad avere la meglio rispetto alle contraffazioni, alle frodi, agli abusi sul marchio. Anche perché il conto torna sempre a favore dei paesi più ricchi e sviluppati, i quali possono subire la concorrenza dei paesi emergenti in qualche settore, ma è sempre più elevata la loro quota di esportazioni verso i nuovi mercati nel presente e nel futuro. Il rapporto della Banca mondiale dimostra che molti paesi in via di sviluppo continuano a dover subire le politiche protezioniste dei paesi ricchi proprio nei comparti in cui essi hanno un relativo vantaggio: agricoltura (il protezionismo dell’Unione europea è vergognoso) e beni ad alta intensità di lavoro. Il protezionismo dei paesi ricchi costa secondo la Banca mondiale più di 100 miliardi di dollari l’anno ai paesi poveri, il doppio del volume totale di aiuti dal Nord al Sud. I responsabili dei danni all’ambiente E che dire delle questioni ambientali ? Sette economie sono responsabili del 70% delle emissioni di CO2 che stanno determinando un vistoso e drammatico cambiamento climatico. Gli Usa, in cui risiede il 4% della popolazione mondiale, emettono circa il 25% dei gas serra. La Cina si trova al secondo posto dell’elenco, seguita dalla UE, dalla Federazione Russa, dal Giappone, dall’India e dal Brasile. Spiegazioni deresponsabilizzanti Ma Tremonti non disarma. A suo avviso il declino italiano è stato troppo rapido. Naturalmente, non si interroga sulla giustezza della politica condotta negli ultimi anni (dare la colpa solo a lui sarebbe ingeneroso) in un Paese che non vuole rinunciare a vivere al di sopra delle sue possibilità. Pur di non ridimensionare la spesa corrente, pur di mantenere un modello di welfare insostenibile (solo adesso, meglio tardi che mai, Tremonti ha scoperto l’estrema debolezza della delega previdenziale), abbiamo rinunciato a tutto: ad investire in infrastrutture, in ricerca, nei sistemi formativi, nelle grandi reti di servizio. Siamo una nazione che dispone sì e no di 800-1.000 chilometri di linea ferroviaria minimamente efficiente: il resto è degno del terzo mondo. Abbiamo un sistema stradale ed autostradale che è una trappola e che strangola l’attività delle regioni più sviluppate, dei distretti industriali più fiorenti. E i cinesi non ne hanno colpa. Siamo noi che abbiamo voluto consentire a 1,5 milioni di italiani (dal 1996 ad oggi) di andare in pensione poco più che cinquantenni (quasi 50mila di loro erano dirigenti industriali). Per Tremonti il declino sta nel Wto, si chiama “apertura troppo violenta dei mercati”. Così, il 20 luglio, anniversario del G 8 di Genova, il ministro dell’Economia sembra iscriversi al partito dei “no global”. La Cina è entrata a far parte del Wto all’indomani dell’attentato alle Twin Towers e quell’ingresso, in un contesto di avanzamento del mercato globale, fu salutato come la risposta più pertinente al terrorismo internazionale. Noi siamo ancora di quell’opinione. Per ragioni molto precise. Forse saranno necessari anni di stabilizzazione (con relative contraddizioni), ma nel giro di un decennio il mercato cinese garantirà sbocchi di enorme portata per le economie dei paesi sviluppati. Inoltre, sarà il mercato globale che travolgerà, in Europa e da noi, le ultime sacche di resistenza conservatrice (come quella sull’articolo 18). In caso contrario diventeremo ciò che di noi disse una volta Bill Clinton: dei guardiani del museo nel quale custodiamo le memorie del mondo. I turisti, alla ricerca delle proprie radici, pagheranno il biglietto per venirci a visitare. E a noi starà pure bene.
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Remo Giusti
Egregio Giuliano Cazzola,
non si puo’ che convenire con le Sue considerazioni critiche riguardo al recente propagarsi della “sindrome cinese” e ai fremiti protezionistici del ministro Tremonti.
Ma quando passa al rapido declino dell’economia italiana, mi riesce difficile seguire il suo ragionamento. Se, come emerge dai dati empirici, gli imprenditori italiani non investono, preferendo la comoda rendita finanziaria, e il paese diventa percio’ meno competitivo sui mercati internazionali, che c’entrano i prepensionamenti e l’articolo 18?
Distinti saluti
La redazione
Caro Signor Remo Giusti,
la ringrazio comunque: per quanto condivide e per quanto non condivide.
Quanto agli esempi di “malitalia” contenuti nel mio pezzo, uno (come l’articolo 18) era una replica alle osservazioni di Tremonti che metteva questo argomento tra i motivi di scarsa competitività del Paese rispetto alla Cina. Quanto ai pensionamenti anticipati, io credo che questo fenomeno sia l’emblema della nostra imprevidenza come sistema paese
Giuliano Cazzola