Dopo un esito del voto molto contestato, il presidente del Venezuela è ancora una volta Nicolás Maduro. Nell’indifferenza della comunità internazionale, solo un miracolo potrebbe impedire al paese sudamericano di proseguire sulla via del declino irreversibile.
La tragica farsa delle presidenziali
Come si temeva, in Venezuela le elezioni presidenziali del 28 luglio sono state una tragica farsa.
Già la campagna elettorale si è svolta in un clima ricco di tensioni. Una decisione della (sedicente imparziale) Corte suprema ha impedito a Maria Corina Machado, leader delle forze di opposizione, di candidarsi contro Nicolás Maduro. Così tra mille difficoltà – compresa l’impossibilità a muoversi agevolmente su di un territorio grande tre volte l’Italia – Machado ha svolto un’intensa campagna a sostegno di Edmundo González Urrutia, un ex-diplomatico prestatosi alla politica, a cui tutti i sondaggi riconoscevano un ampio margine di vantaggio (superiore a 20 punti percentuali). Anche le ricevute delle schede elettorali (actas) – raccolte dai votanti dell’opposizione, trafugate (ancorché illegalmente) al di fuori dei seggi e successivamente pubblicate on-line – hanno dimostrato un consenso schiacciante a favore di Gonzalez (7 milioni di voti contro i 3 milioni a supporto di Maduro). Ma il regime non ha avuto esitazioni nel dichiarare la vittoria del presidente uscente, rieletto con il 51,2 per cento dei voti.
Sia a livello nazionale che internazionale si è gridato allo scandalo. La cosa ha suscitato un’immediata reazione da parte del governo, che ha richiesto e ottenuto che la Corte suprema (sì, ancora lei) certificasse l’esito del “voto ufficiale”. Inoltre, ha immediatamente ordinato alle forze armate di rimuovere le urne dai seggi elettorali, impedendo qualsiasi forma di controllo e riconteggio dei voti da parte di osservatori esterni.
Le proteste non si sono fatte attendere, persino nelle aree più povere del paese tradizionalmente favorevoli al regime chavista. La reazione di Maduro è stata durissima. Il quartier generale di Maria Corina Machado è stato distrutto. Gli oppositori al regime sono stati minacciati e denunciati dai colectivos, formazioni paramilitari composte da civili fedeli al regime. Nelle strade e nelle piazze in cui esplodeva la rivolta vi sono state decine e decine di morti, oltre a migliaia di arresti.
Mentre il paese continua a crollare
Per certi versi quanto accaduto negli ultimi mesi è una storia già vista. Nel gennaio 2019, l’Assemblea Nacional – avvalendosi della possibilità di destituire il presidente della repubblica – proclamava presidente ad interim Juan Guaidò. Nonostante il riconoscimento ufficiale ricevuto dall’amministrazione Usa e da altri cinquanta paesi, che disconoscevano la legittimità delle elezioni presidenziali svoltesi nel 2018, Guaidò non è mai riuscito a subentrare a Maduro, che rimane alla guida del paese. Nell’aprile dello scorso anno, dopo aver subito continue minacce ed essere stato al centro di una vera e propria persecuzione giudiziaria (trenta procedimenti a proprio carico), Guaidò decide di abbandonare il Venezuela per raggiungere gli Stati Uniti. A distanza di sei anni, Edmundo González non solo non viene proclamato presidente della repubblica ma– per garantire la propria incolumità, dopo essere stato accusato di terrorismo da parte della procura generale del paese – è costretto a fuggire in Spagna, ove chiede asilo politico.
Oltre alle similitudini riguardanti le vicende vissute dai leader dell’opposizione, vi sono inquietanti analogie anche per quanto riguarda il deterioramento del quadro macroeconomico. Il Pil rimane su livelli minimi, in conseguenza di una produzione petrolifera ormai cronicamente anemica, unita alla più totale assenza di diversificazione dell’offerta. La popolazione residente continua a ridursi, per effetto di flussi migratori verso gli altri paesi latino-americani che costituiscono l’unica possibile risposta alla profonda crisi umanitaria. Neppure la temporanea sospensione delle sanzioni Usa – decisa dall’amministrazione Biden per spingere Maduro a cessare il regime repressivo – è riuscita a invertire la tendenza. La piccola ripresa tra il 2021 e 2023 è rapidamente abortita, dopo aver creato benefici a vantaggio esclusivo della fascia più ricca della popolazione.
Gli altri paesi stanno a guardare
Di fronte a un vero e proprio collasso, non solo economico-umanitario ma anche politico-istituzionale, la comunità internazionale si è resa protagonista di un assordante silenzio. Al di là delle immediate reazioni di sdegno successive alla pubblicazione dei risultati elettorali, non vi è stato alcun atto ufficiale degno di nota. Brasile e Colombia – che unitamente al Perù costituiscono le principali aree di destinazione dei flussi migratori provenienti dal Venezuela – prima chiedono la pubblicazione dei risultati elettorali, ma poi si astengono quando la Organization of American States mette ai voti una richiesta ufficiale di chiarimenti sull’esito elettorale. L’amministrazione Usa – che in aprile ha reintrodotto un esteso pacchetto di sanzioni finanziarie, commerciali e anche personali (nei confronti dei membri dell’amministrazione Maduro, con il sequestro degli asset detenuti all’interno del territorio statunitense) – si è limitata a confiscare, agli inizi di settembre, un aeromobile di proprietà del governo venezuelano, acquistato con fondi di dubbia provenienza. L’Unione europea, per bocca del suo rappresentante per gli Affari esteri Josep Borrell, ha dichiarato che continuerà a sostenere il popolo venezuelano nella propria ricerca della democrazia. Dichiarazioni di riconoscimento ufficiale della vittoria di Maduro arrivano invece da Russia e Cina. Un atteggiamento per certi versi ben più comprensibile, una volta considerato che questi paesi vantano cospicui crediti nei confronti del governo di Caracas e – assieme a Cuba, Turchia e Iran – continuano a essere i principali partner commerciali della repubblica bolivariana.
Esiste un futuro?
Il Venezuela di oggi è il risultato di decenni di sfruttamento perpetrato da Hugo Chavez e Nicolás Maduro, due autocrati che hanno progressivamente concentrato nelle loro mani (e in quelle dei loro sodali) una quantità crescente di potere politico ed economico. È la situazione tipica degli stati falliti in cui istituzioni estrattive favoriscono e sfruttano a vantaggio delle élite legami di corruzione tipici di un’economia dipendente dallo sfruttamento di materie prime. Non a caso, la Heritage Foundation nella elaborazione del suo indice di libertà economica mette il Venezuela al 174esimo posto (su 184 paesi esaminati).
Pensare che l’economia venezuelana si possa riprendere grazie a un ritorno alle liberalizzazioni e al ripristino di condizioni favorevoli agli afflussi di investimenti diretti esteri appare come il più puro dei pii desideri. Chi mai tra le multinazionali dell’industria petrolifera sarebbe disposto a investire in un paese dove il crollo degli investimenti ha de facto annichilito le infrastrutture esistenti e dove decenni di corruzione all’interno dell’apparato giudiziario hanno comportato la violazione continua del diritto di proprietà, portando il rischio di espropriazione a livelli elevatissimi? E dove Maduro, nel tentativo estremo di recuperare consenso, ha deciso di anticipare l’avvio delle festività natalizie agli inizi di ottobre? A questo punto solo un miracolo può evitare che il paese rimanga su un sentiero di declino irreversibile. A meno che la comunità internazionale non risvegli il proprio interesse nei confronti del Venezuela. Ma lo scenario geo-politico di questi ultimi anni è diventato così ingarbugliato da lasciar pensare che difficilmente ciò potrà accadere, almeno nel futuro più prossimo.
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