Un dibattito tutto concentrato sugli interventi sull’offerta di lavoro ignora le possibili conseguenze sul lato della domanda. Che probabilmente tenderebbe a diminuire perché l’aumento della vita lavorativa determina una crescita del costo del lavoro. Oltre agli incentivi per chi rimanda la pensione, è necessario pensare a premi per le imprese, magari sotto forma di sgravi fiscali. Ben sapendo che il sistema imprenditoriale assorbe già molte risorse pubbliche. Nel dibattito in corso sulla riforma del sistema pensionistico, tutti concordano sulla necessità di aumentare la permanenza sul mercato del lavoro dei lavoratori più anziani. Le differenze di valutazione si manifestano sui modi per raggiungere tale obiettivo. Taluni, e il Governo in particolare, sostengono che sia sufficiente “incentivare” i lavoratori prossimi all’età pensionabile con un forte aumento retributivo. Altri, ritengono invece che per convincere i lavoratori a restare sul mercato sia necessario penalizzarne un’eventuale uscita, attraverso una riduzione della pensione tanto più alta quanto più bassa è la durata della carriera lavorativa. In un caso o nell’altro, si tratta di interventi sul lato dell’offerta di lavoro. Sorprendentemente, il dibattito sembra ignorare l’effetto dell’aumento della vita lavorativa sulla domanda di lavoro. Concordo sul fatto che la vita lavorativa vada comunque aumentata, ma ritengo sia utile riflettere anche sugli effetti di questa politica sulla domanda di lavoro. Lo schema retributivo tipico Tutte le imprese, e quelle più grandi in particolare, devono spesso risolvere il problema di come motivare i lavoratori più anziani. Questi tipi di incentivi sono molto comuni nelle grandi imprese. Conseguentemente, i lavoratori più anziani sono spesso pagati più dei lavoratori più giovani, non tanto per la loro superiore abilità, quanto piuttosto perché una retribuzione crescente è servita e continua a servire da stimolo. Uno schema retributivo di questo tipo implica che i lavoratori più anziani siano spesso pagati più di quanto producono all’azienda, mentre i lavoratori più giovani accettano di essere pagati meno del loro valore, con la speranza di rimanere in azienda fino alla pensione, ed essere poi ricompensati da un salario più alto. Se infatti improvvisamente aumentiamo la permanenza in azienda dei lavoratori più anziani, finiamo per obbligare le imprese a sopportare una perdita, perché si troveranno ad avere in azienda per un periodo troppo lungo lavoratori che costano più di quanto producano. Un meccanismo delicato Ma la riforma previdenziale si deve comunque fare e la vita lavorativa deve necessariamente aumentare.
Il problema è particolarmente serio per alcuni lavoratori cinquantenni, spesso bloccati in una data posizione di carriera, e praticamente certi di rimanere in quella posizione. Un modo molto usato per motivare i lavoratori lungo la carriera, è semplicemente quello di legare gli aumenti retributivi alla performance individuale precedente. In altre parole, le imprese trovano spesso conveniente promettere un potenziale aumento salariale fino alla pensione, in modo che i lavoratori siano incentivati a impegnarsi anche quando le prospettive di carriera si siano ridotte.
Questo schema retributivo necessita di un momento in cui i lavoratori più anziani lascino l’azienda. È proprio questo il motivo per cui gli economisti delle risorse umane sostengono la necessità di avere un’età legale e obbligatoria di pensionamento.
In altre parole, l’aumento della vita lavorativa determina un aumento del costo del lavoro per le imprese. E quando il costo del lavoro aumenta, la domanda di lavoro diminuisce.
Morale, vi è un serio rischio che la riforma delle pensioni produca una diminuzione della domanda di lavoro. Paradossalmente, si rischia di aumentare l’offerta di lavoro e simultaneamente diminuire la domanda di lavoro. Se ciò avviene, ci potrebbe essere spiazzamento di lavoratori più giovani e/o con contratti temporanei.
Quali soluzioni si possono adottare per fronteggiare la probabile diminuzione di domanda di lavoro? Cosa si può fare se il Governo sceglierà la strada degli incentivi e dei premi per i lavoratori che decideranno di non usufruire delle pensioni di anzianità, come sembra probabile alla luce dagli ultimi interventi?
Una soluzione sarebbe quella di destinare una parte del premio aggiuntivo alle imprese, sotto forma di riduzione degli oneri sociali per i lavoratori che decidono di rimanere più a lungo in azienda.
Ovviamente, questo sgravio fiscale sarebbe da destinare soltanto ai lavoratori prossimi alla pensione di anzianità, mentre per quelli più giovani spetterebbe alla contrattazione aziendale il compito di aggiustare il profilo salariale in base ai nuovi vincoli pensionistici.
Indubbiamente, uno sgravio fiscale per le imprese diventa un ulteriore sussidio al sistema imprenditoriale, un soggetto economico che forse assorbe già troppe risorse pubbliche. È vero, ma il meccanismo degli incentivi retributivi all’interno delle aziende è molto delicato, e quando si agisce unilateralmente su una sua parte, si deve anche tenere conto degli effetti dell’intervento sul resto degli ingranaggi.
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Giovanni
Caro Pietro,
il punto che sottolinei e’ interessante. Perche’ pero’ invece non concentrare gli incentivi su una buona riforma del training dei lavoratori (e forse, piu’ in generale, su delle misure che rendano piu’ flessibile il salario dei lavoratori anziani, aumentino la produttivita’, ecc)? Mi sembra sia meglio avere dei lavoratori piu’ produttivi invece che dei lavoratori poco produttivi sovvenzionati da soldi pubblici…
Piu in generale, mi sembra che l’invecchiamento della popolazione richiede una trasformazione profonda della societa’, e non mi sembra possa essere risolta con aggiustmanenti al margine dell’esistente. Le politiche inglesi tipo “anti age discrimination” per i lavoratori anziani mi sembrano interessanti (anche se ancora forse allo stadio di “marketing” politico).
Per quanto riguarda i problemi di domanda di lavoro, sono d’accordo, anche se capisco che il dibattito si concentri sull’offerta, visto che il problema pensionistico non e’ solo un problema di finanza pubblica, ma soprattutto un problema di diminuzione attesa della fascia dei 20-59 anni, ovvero del numero di lavoratori ceteris paribus.
Saluti e complimenti per l’eccellente sito,
Giovanni
La redazione
Giovanni:
grazie dei complimenti. L’idea di riqualificare i lavoratori più anziani è giusto, il problema è che senza cambiamenti questi anziani se ne vanno in pensione. Il provvidimento mira invece a diminuire tale incentivo. Sull’ anti’age discrimination sono daccordo con te, per ora forse si tratta solo di propaganda.
Vito Piepoli
Ma l’aumento del salario per chi decide di rimanere chi lo paga? Se è l’azienda, non potrebbe destinarsi parte degli oneri previdenziali per la creazione di un fond di “solidarietà sociale” atto a garantire un salario minimo sociale ai giovani disoccupati in attesa di trovare lavoro, e con obbligo di accettare l’impiego per il quale si sono formati, pena la perdita del salario sociale?
Ovviamente il controllo sull’uso del fondo dovrà essere di competenza di un organo europeo(visto l’uso politico che in Italia se ne farebbe!)
Ipotesi utopistica?
La redazione
L’aumento del salario lo paga lo stato che invece di incassare i contributi (a carico di azienda e lavoratore) li darà tutti al lavoratore. Contributi per lo stato non ce ne saranno proprio.
Quella di un fondo è forse una buona idea, ma dovrà essere finanziata con altri proventi.
PG
Lucia Fimiani
Condivido pienamente la sua analisi, ma il disegno di legge delega n. 2145, attualmente in duscussione al Senato, stabiliva l’esenzione totale dal versamento dei contributi e che tali contributi venissero destinati al lavoratore in misura non inferiore al 50% mentre la parte rimanente sarebbe stata destinata alla riduzione del costo del lavoro.
Mi chiedo perchè in questi giorni non se ne parla più?
La redazione
E’ quello che mi chiedevo anche io. Grazie del suggerimento, se effetivamente nel decreto originale in senato è come lei dice (non era solo per i nuovi assunti?) c’è stato un grosso cambiamento di rotta.
Pietro Garibaldi
zorro
Quello di cui nessuno si preoccupa in questa riforma è che l’aumento della vita lavorativa non è una variabile indipendente. Da esperienze dirette ed indirette aziendali, ho vissuto le due crisi sistemiche del 1992 e del 2001 (quest’ultima tuttora in essere), dove le aziende private (piccole, medie e grandi) sono ricorse massicciamente all’espulsione di ultra cinquantenni (e non solo), attingendo a piene mani all’interinale ed all’outsourcing, in un crescendo clima di precarizzazione.
In questa situazione, al di là dei “garantiti” del pubblico e del para-stato, chi ci “garantisce” a noi 40 anni di contributi ? Non c’è molto ipocrisia da parte di tutti (Sindacati compresi) che si preoccupano della “gradualità” della riforma, dimenticandosi completamente della nostra generazione (che è poi quella del baby-boom degli anni ’60) a cui perlomeno la riforma Dini lasciava un qualche spiraglio di scelta? Perchè ad esempio non si è optato per l’estensione del contributivo a tutti ?
La redazione
Sono daccordo con lei, e ho scritto quell’articolo proprio in quella prospettiva. In realtà se uno è assunto in una azienda con più di 15 dipendente è protetto dall’art. 18 e quindi 40 anni di contributi sono quasi garantiti. E’ vero che per le piccole imprese il problema è serio, è vi è abbastanza ipocrisia in materia.
Cordiali saluti, PG