Uno studio condotto dal gruppo di monitoraggio del ministero del welfare conferma che il Superbonus è una “ciofeca” (nel linguaggio dei sindacalisti presenti al confronto sulla riforma previdenziale). La voce.info aveva già documentato tutto questo due mesi fa in un contributo di Sandro Gronchi che riproponiamo ai lettori.

Il Superbonus è vantaggioso?

Ringrazio i lettori de lavoce.info che hanno dimostrato interesse per l’esercizio attuariale sottoposto alla loro attenzione.
Un primo gruppo di domande e osservazioni pervenutemi riguarda l’esatta natura dei numeri (perlopiù negativi) indicati nella tabella acclusa all’articolo. È possibile che qualche difficoltà sia causata dal fatto che tali numeri esprimono differenze fra valori attuali, ed è ben noto ai professori di economia che la nozione di valore attuale risulta generalmente più ostica di quella di montante.
Un secondo gruppo di lettori è interessato a capire come cambiano i calcoli di convenienza rimuovendo l’ipotesi (assunta dall’esercizio) che la cosiddetta “aliquota di rendimento” sia uguale al 2 per cento indipendentemente dall’aliquota marginale Irpef (certamente correlata con la retribuzione pensionabile) con cui sono tassate le “perdite” annue di pensione.
Un terzo gruppo è interessato a comprendere gli ulteriori cambiamenti che si hanno tenendo conto della no-tax-area. Ai tre gruppi di domande e osservazioni vorrei rispondere o replicare con altrettanti commenti.

Primo commento (sulla natura dei numeri indicati nella tabella)

Si considerino due soggetti che proseguono l’attività lavorativa: il primo, indicato con A, sceglie la ‘nuova’ modalità (chiede la restituzione dei contributi rinunciando alla maturazione di ulteriori diritti pensionistici); il secondo, indicato con B, sceglie la ‘vecchia’ (versa i contributi maturando ulteriori diritti). Se A impiegasse (a un tasso reale netto dell’1,5 per cento) il “bonus contributivo” per finanziare una pensione integrativa “fatta in casa”, cioè per comprare obbligazioni da smobilizzare poi gradualmente, tale integrazione risulterebbe inferiore al “supplemento di pensione” (al netto dell’Irpef) che il lavoratore B ottiene dall’Inps. I numeri negativi che compaiono nella tabella possono essere letti come la misura (in valore attuale) di questa inferiorità. Ad esempio, nel caso in cui il pensionamento sia rinviato di 4 anni e l’aliquota marginale sia del 23 per cento, la rendita integrativa home-made è inferiore alla rendita pubblica supplementare per un importo pari al 37,8 per cento della retribuzione goduta nel 57.esimo anno di vita (al termine del quale il lavoratore è chiamato a scegliere). Questa reinterpretazione della tabella suggerisce che i lavoratori prima intenzionati ad andare in pensione (noncuranti del supplemento di pensione pubblica perduto) possono razionalmente cambiare idea solo nel caso che un “uovo oggi”, rappresentato dal bonus, consenta loro di soddisfare bisogni urgenti rispetto ai quali la “gallina domani”, rappresentata dal supplemento di pensione pubblica, arriverebbe troppo tardi. Con un linguaggio inutilmente più complicato, gli economisti direbbero che il bonus farà cambiare idea ai lavoratori le cui preferenze temporali sono governate da un tasso di sconto “soggettivo” superiore al tasso “di mercato” (ipotizzato dall’esercizio nella misura dell’1,5% in termini reali).

Secondo Commento (sulla convenienza dei lavoratori che superano il tetto)

Il supplemento di pensione pubblica è più piccolo nel caso di lavoratori (quadri e dirigenti) la cui retribuzione pensionabile superi il tetto. Infatti, le quote eccedenti generano pensione in misura inferiore al 2 per cento per anno di anzianità contributiva. Questo aspetto (di cui i calcoli potrebbero tener conto solo ipotizzando un preciso legame fra la retribuzione pensionabile e le aliquote marginali da pensionato) accresce la segnalata regressività del bonus il quale diventa ancor più conveniente all’aliquota marginale massima.

Terzo Commento (sugli effetti della no-tax-area)

La no-tax-area lascia di fatto invariate le aliquote marginali più alte mentre produce la lievitazione di quelle più basse. Ne segue che, in corrispondenza di queste ultime, il supplemento netto di pensione pubblica è più piccolo. Ciò nonostante, esso resta superiore al bonus contributivo, cosicché la capacità persuasiva di quest’ultimo dovrebbe restare generalmente inibita (ad eccezione dei “casi di urgenza” sopra menzionati).

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Perdere con gli incentivi*

16 ottobre 2003

La riforma delle pensioni proposta dal Governo prevede che il requisito contributivo minimo sia innalzato a 40 anni solo dal 2008. Prima di allora, i lavoratori sono incentivati a restare mediante l’offerta di un “esonero contributivo”. A chi accetta di proseguire l’attività lavorativa è offerta la “restituzione” dei contributi previdenziali a suo carico e a carico del datore di lavoro, in totale 32,7 euro per ogni 100 di retribuzione lorda.
Nelle intenzioni del Governo, i contributi restituiti non costituiscono base imponibile dell’Irpef, delle contribuzioni sociali diverse da quella previdenziale, degli accantonamenti per il Tfr e della eventuale contribuzione al secondo pilastro (in realtà, questi aspetti dovrebbero essere approfonditi, soprattutto l’esenzione fiscale). In assenza di contribuzione, il progetto dispone che il lavoratore non possa maturare alcuna pensione aggiuntiva: quando cesserà l’attività lavorativa, avrà diritto alla pensione, indicizzata ai prezzi secondo le regole generali, maturata nel momento in cui ha optato per l’esonero contributo.

Un incentivo inefficace

La capacità persuasiva del provvedimento potrà essere verificata sul campo. Tuttavia, l’analisi finanziario-attuariale ne dimostrerebbe a priori l’inefficacia.
A un lavoratore razionale già intenzionato a proseguire l’attività lavorativa, conviene farlo con la “vecchia” modalità (prevista dalle norme in vigore) anziché con la “nuova” offerta dal disegno di legge. Il rovescio della medaglia è che un’offerta peggiorativa non può far cambiare idea ai lavoratori già intenzionati ad andare in pensione. Proprio in questo starebbe l’inefficacia del provvedimento.
La tabella indica il reddito netto che la nuova modalità fa guadagnare (rispetto alla vecchia) per 100 euro di retribuzione annua lorda goduta nel momento in cui l’esonero contributivo dovrebbe essere scelto. I calcoli riguardano un lavoratore maschio con 57 anni d’età e 35 di anzianità contributiva. Sono considerati da 1 a 5 anni di rinvio del pensionamento e aliquote marginali, che il lavoratore pagherà da pensionato, dal 23 per cento al 45 per cento.
Il “guadagno” è generalmente negativo potendo diventare positivo solo all’aliquota massima del 45 per cento. Lo diventa anche con quella del 39 per cento, ma solo nel caso che la pensione sia rinviata di cinque anni. Questi aspetti rivelano un certo grado di regressività del provvedimento. (1)

Retribuzioni e pensioni

Per comprendere la tabella, conviene iniziare il ragionamento dall’incrocio della prima riga con la prima colonna: vi è indicato che la nuova modalità sottrae al lavoratore che la scelga in luogo della vecchia 13,7 euro per ogni 100 di retribuzione lorda percepita nel cinquantasettesimo anno di vita.
Con qualche semplificazione espositiva, il dato è costruito così: dal cinquantanovesimo anno di vita, il disegno di legge prevede una pensione annua costantemente uguale, in potere d’acquisto, a quella che sarebbe virtualmente spettata nel cinquantottesimo se il pensionamento non fosse stato rinviato. Fatta uguale a 100 euro la retribuzione percepita nel cinquantasettesimo anno di vita, e assumendo che con essa coincida la retribuzione pensionabile utile per il calcolo della pensione virtuale (2), quest’ultima è uguale a 70 euro (il 2 per cento della retribuzione pensionabile per ognuno dei 35 anni di attività lavorativa svolta).
Nell’ipotesi, ragionevole, che la retribuzione annua (per effetto congiunto dei rinnovi contrattuali, della crescente anzianità e delle promozioni) cresca all’1 per cento oltre l’inflazione, chi sceglie di continuare a lavorare con la vecchia modalità ha invece diritto a una pensione di 72,72 euro, ugualmente costante in potere d’acquisto, pari al 72 per cento di una retribuzione pensionabile (deflazionata) di 101 euro.
Tenendo conto che la speranza di vita di un maschio cinquantasettenne è di 23 anni, chi sceglie la nuova modalità deve aspettarsi che la rendita differenziale di 72,72-70=2,72 euro sia perduta ventidue volte. Scontando a 57 anni le ventidue perdite in base a un tasso d’interesse dell’1,5 per cento in termini reali, si ottiene una perdita attualizzata di 51,21 euro. A questa occorre aggiungere l’ulteriore perdita per complessivi 8,86 euro successivamente subita dal coniuge superstite, mediamente più giovane di tre anni e perciò destinato a sopravvivere per altri undici. (3)
La perdita pensionistica totale (del lavoratore e del suo superstite) ammonta quindi a 60,07 euro. Nel caso, com’è il nostro, di lavoratori con aliquota marginale del 23 per cento, tale perdita lorda si riduce a una netta di 46,25 euro.
A fronte il disegno di legge concede un esonero contributivo, esente da imposta, di 33,027 euro, pari al 32,7 per cento della retribuzione lorda di 101 euro attesa nell’anno di ulteriore attività lavorativa. Scontando a 57 anni quest’esonero, si ottiene un beneficio attuale di 32,54 euro che è inferiore di 13,71 euro alla perdita pensionistica netta.
In modo analogo sono costruiti gli altri dati della tavola.

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Ipotizzando una dinamica salariale dimezzata (0,5 per cento anziché 1 per cento), si ottengono risultati un po’ diversi, che tuttavia confermano lo svantaggio per le aliquote marginali più diffuse. D’altra parte, riducendo il tasso di sconto a valori più in linea con quelli offerti dal mercato, si ottengono svantaggi sensibilmente maggiori perché la perdita pensionistica ha un baricentro temporale lontano nel tempo, mentre gli esoneri contributi ne hanno uno vicino.

Per saperne di più

Sandro Gronchi, “Modelli NDC e riforme italiane: sarà mai  possibile un sistema contributivo in Italia?”

* Per la preziosa assistenza informatica, l’Autore desidera ringraziare Raimondo Manca, ordinario di Matematica per l’Economia nell’Università di Roma “La Sapienza”

(1) Risultati analoghi si ottengono per un lavoratore di sesso femminile. È tuttavia noto che le donne accedono raramente alla pensione di anzianità perché le loro carriere lavorative sono più brevi e frammentate.

(2) Per i lavoratori con almeno 15 anni di anzianità contributiva a fine 1992, il calcolo ‘pro-rata’ disposto dalla riforma Amato prevede, in realtà, due retribuzioni pensionabili anziché una. Più precisamente, la pensione risulta dalla somma di due addendi di cui il primo riflette i diritti acquisiti entro il 1992, mentre il secondo riflette quelli maturati successivamente.

(3) I calcoli attuariali tengono conto della probabilità che il superstite esista. Perciò esprimono una perdita intermedia fra quella nulla, subita in caso di inesistenza, e quella subita nel caso di esistenza. Inoltre il regime di cumulo introdotto dalla riforma del 1995 prevede che la pensione al superstite (pari al 60 per cento di quella del dante causa) sia decurtata in base al reddito autonomamente posseduto dal superstite medesimo. Come per il calcolo dei coefficienti di conversione si è assunta una decurtazione media del 10 per cento.

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