Il teorema Modigliani-Miller rappresenta il cuore della moderna teoria della finanza, non solo per i suoi contenuti, ma anche per l’approccio metodologico. Utilizzando in questo contesto per la prima volta il ragionamento rigoroso della economia, dimostra come in presenza di mercati dei capitali perfetti il valore di un’impresa sia indipendente dalla sua politica di finanziamento, con azioni o con debito. E quando così non è, il risultato ci costringe a riflettere su quale ipotesi del teorema sia violata nella realtà.

Sei anni fa, Franco Modigliani acconsentì a svolgere una lezione di economia finanziaria agli studenti del master in Economia e finanza dell’Università di Napoli Federico II. Quando gli chiesi quale argomento avrebbe spiegato, mi rispose sorridendo: “Il teorema di Modigliani-Miller, naturalmente”. Il 3 giugno del 1997, una ventina di studenti attenti ed emozionati ebbero la singolare occasione di ascoltare l’esposizione del teorema dalla viva voce di uno dei suoi autori.

Il teorema

La scelta di Modigliani in quell’occasione non fu certo casuale. Il teorema di Modigliani-Miller non è solo il suo contributo più importante alla teoria della finanza, ma è uno dei risultati più importanti nell’ultimo mezzo secolo di evoluzione dell’economia finanziaria, che fra l’altro non è stato certo povero di contributi importanti.

Il teorema di Modigliani-Miller riguarda le scelte di finanziamento delle imprese, e in particolare la scelta tra debito e azioni. Individua le condizioni sotto cui la scelta di emettere debito oppure azioni per finanziare un dato livello di investimenti non influisce sul valore delle imprese, e quindi in cui non esiste un livello ottimo di indebitamento rispetto ai mezzi propri delle imprese. Perciò, appartiene a una classe di sorprendenti teoremi di “neutralità” o “indifferenza” che esistono in economia: si tratta di teoremi che mostrano l’irrilevanza di una scelta che a prima vista sembrerebbe molto importante, come quella sul grado di indebitamento delle imprese.

La virtù di questo tipo di risultati non sta ovviamente nel mostrare che la scelta in questione sia davvero irrilevante, ma nel costringerci a riflettere sulle ipotesi che è necessario fare perché lo sia. In altri termini, si tratta di risultati che forniscono una “pietra di paragone”, con la quale siamo chiamati a confrontarci tutte le volte che ci interroghiamo sul tema in questione. Se solo pronunciamo le parole “grado ottimale di indebitamento”, dobbiamo chiederci subito: “perché in questo caso il teorema di Modigliani-Miller non vale?” e individuare l’ipotesi o le ipotesi che ci hanno allontanato dalla “pietra di paragone”. Il che impone un notevole grado di disciplina intellettuale e di chiarezza analitica. Non a caso, il teorema di Modigliani-Miller è uno dei risultati più citati di tutta la teoria della finanza.

Nasce la teoria della finanza

Quando fu formulato per la prima volta, il teorema destò scalpore anche per ragioni metodologiche, infatti ci furono studiosi che lo accolsero con scetticismo. Fino alla metà degli anni Cinquanta, lo studio della finanza si era limitato per lo più a descrivere metodi e istituzioni del sistema finanziario. Il ragionamento deduttivo e formalizzato tipico della teoria economica era raro. Fece il suo ingresso nello studio della finanza proprio con il teorema di Franco Modigliani e Merton Miller, presentato nel 1958, e con la teoria della scelta di portafoglio delle imprese sviluppata negli stessi anni da James Tobin, Harry Markowitz, e William Sharpe (non a caso tutti vincitori di premi Nobel). Fu con questi contributi che cominciò a prendere corpo una teoria coerente delle relazioni tra le caratteristiche dei mercati finanziari e il finanziamento degli investimenti da un lato e le scelte finanziarie delle famiglie dall’altro, un teoria basata sui presupposti del comportamento razionale degli investitori e dell’equilibrio dei mercati. Una volta che questi elementi di base furono al loro posto, la teoria della finanza si sviluppò rapidamente.

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Anche se in pratica si fa sempre riferimento al teorema di Modigliani-Miller, in realtà i risultati che i due studiosi dimostrarono sono due. Il primo teorema di Modigliani-Miller è quello più famoso: risponde alla domanda se il valore di mercato delle imprese sia influenzato dal loro grado di indebitamento in rapporto ai mezzi propri e dalla struttura di tale indebitamento, dato il loro livello di investimenti. La proposizione centrale del teorema fornisce una riposta chiara a questa domanda: né il volume né la struttura dei debiti aziendali influiscono sul valore di un’impresa se 1) i mercati finanziari sono perfetti (cioè concorrenziali, privi di costi di transazione ed esenti da asimmetrie informative), 2) non ci sono imposte, e 3) l’eventuale fallimento dell’impresa non comporta costi di liquidazione del suo attivo patrimoniale né costi di reputazione per i suoi dirigenti.

Modigliani e Miller definiscono il valore di un’impresa come la somma del valore di mercato delle sue azioni e del valore di mercato dei suoi debiti. Il loro teorema stabilisce che tale valore è pari al valore attuale del flusso dei rendimenti attesi dell’impresa, al lordo degli interessi, purché il tasso di sconto usato per attualizzare tali rendimenti sia il tasso di rendimento su azioni di imprese della stessa classe di rischio dell’impresa considerata. Ciò implica che il valore dell’impresa è completamente determinato da tale tasso di sconto e dal rendimento delle attività reali dell’impresa, ed è del tutto indipendente dalla composizione delle passività usate per finanziare quelle attività patrimoniali.

Un ragionamento a contrario aiuta a capire la logica di questo risultato: immaginiamo che non sia valido, e che sotto le condizioni prima elencate (mercati perfetti, ecc.) il valore dell’impresa sia maggiore se l’impresa sceglie un certo rapporto di indebitamento rispetto ai mezzi propri, per esempio il 50 per cento, piuttosto che un altro, per esempio 0. Consideriamo allora due imprese identiche tranne che per la loro politica finanziaria. L’impresa A sceglie il rapporto di indebitamento che si suppone “migliore”, mentre l’impresa B cocciutamente sceglie di non avere debito, e di finanziarsi solo con azioni. Secondo le ipotesi, l’impresa A dovrebbe valere di più dell’impresa B. Tuttavia, se così fosse, le famiglie potrebbero vendere le azioni dell’impresa A, comprare quelle dell’impresa B (che costano meno) e indebitarsi esse stesse in pari misura, così replicando la composizione per ipotesi ottima delle passività dell’impresa A. (Si noti che le famiglie possono indebitarsi agli stessi termini dell’impresa, essendo i mercati finanziari perfetti per ipotesi.) Le famiglie avrebbero così riprodotto la composizione delle passività dell’impresa A a minor costo rispetto al loro valore di mercato, e quindi avrebbero ottenuto un profitto da arbitraggio. Poiché questa possibilità resta aperta finché il valore dell’impresa A è maggiore del valore dell’impresa B, le famiglie avrebbero a disposizione una fantastica macchina per fare soldi all’infinito, il che ovviamente non è compatibile con una situazione di equilibrio. Perché i mercati delle azioni e del debito siano in equilibrio, quindi, l’impresa A e l’impresa B devono avere lo stesso valore di mercato, indipendentemente dalla loro struttura finanziaria. Questo ragionamento è stata una delle prime applicazioni di un ragionamento basato sull’arbitraggio nella valutazione delle attività finanziarie (il cosiddetto “pricing by arbitrage”, che oggi è diffuso nella teoria della finanza).

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Il teorema ha un’ulteriore implicazione: che il costo medio del capitale delle imprese è indipendente dal volume e dalla struttura del debito ed è pari al rendimento atteso sull’investimento fornito dalle azioni di imprese della stessa classe di rischio. Quindi, sotto le condizioni del teorema, le imprese più indebitate non dovrebbero pagare un costo medio del capitale più elevato rispetto a quelle meno indebitate, posto che i loro investimenti reali siano della stessa rischiosità.

Il secondo risultato

In un lavoro del 1961, Franco Modigliani e Merton Miller formularono un secondo teorema (che Franco amava chiamare il “teorema di Miller-Modigliani” in onore del suo coautore) che afferma che, a parità di scelte di investimenti (e quindi di utili), il valore di un’impresa è indipendente anche dalla sua politica dei dividendi. Anche questo teorema richiede le ipotesi che i mercati finanziari siano perfetti e che non vi siano imposte personali sul reddito. Sotto queste ipotesi, un aumento dei dividendi, per esempio, certamente accresce il reddito degli azionisti, ma il suo effetto è completamente neutralizzato da una corrispondente riduzione del valore dell’impresa.

Sebbene le loro ipotesi appaiano restrittive, i due teoremi di Modigliani e Miller sono abbastanza generali: valgono a prescindere da differenze individuali nelle preferenze dei risparmiatori riguardo al rischio, nella scadenza dei debiti dell’impresa, nelle loro caratteristiche, ecc. La loro logica infatti si basa sull’ipotesi che, sfruttando mercati finanziari perfetti, le famiglie possano sempre “disfare” senza costi le scelte finanziarie “fatte” dalle imprese, e ottenere la composizione desiderata del reddito riguardo a rischio, grado di indebitamento, ecc. Se per esempio l’impresa accresce la rischiosità del suo attivo, gli azionisti possono neutralizzare questa scelta riducendo la rischiosità del proprio portafoglio variando le quote dei titoli detenuti.

Le conseguenze di questi teoremi per la teoria delle decisioni di investimento sono almeno tre, e tutte molto importanti. Primo, le decisioni reali di investimento possono essere separate dalle corrispondenti decisioni di finanziamento. Secondo, il criterio per effettuare scelte razionali di investimento è rendere massimo il valore di mercato dell’impresa. Terzo, il costo del capitale rilevante per fare scelte razionali di investimento fa riferimento al costo totale, e va misurato come il tasso di rendimento atteso sulle azioni di imprese della stessa classe di rischio.

In conclusione, i teoremi di Modigliani e Miller sono una pietra miliare nello studio della finanza, come sa ogni studente dopo il suo primo corso di finanza aziendale. Il loro duplice contributo sta nel fornire non solo una serie di risultati centrali per lo sviluppo successivo di questa disciplina, ma anche un esempio illuminante di un “metodo di lavoro”, di un modo di ragionare che guida tuttora chi studia e utilizza questa disciplina.

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