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Il no di Ciampi

Il Presidente della Repubblica Ciampi non ha firmato il provvedimento sul riassetto del sistema televisivo, la legge Gasparri torna così alle camere. Per i lettori de lavoce.info proponiamo il messaggio del Presidente e i contribuiti di Michele Polo (Una legge Gattopardo per la riforma delle televisioni) Marco Gambaro (La chimera del digitale terrestre ) e Antonio Sassano (Il digitale italiano, una rivoluzione a metà) che discutono alcuni dei punti cruciali messi in luce nel messaggio del Presidente Ciampi

Il messaggio del Presidente Ciampi

«In data 5 dicembre 2003, mi è stata inviata per la promulgazione la legge “Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della Rai-Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per l’emanazione del testo unico della radiotelevisione”, approvata dalla Camera dei Deputati il 2 ottobre 2003 e approvata in via definitiva dal Senato il 2 dicembre 2003.

Il relativo disegno di legge era stato presentato dal Governo alla Camera dei Deputati il 25 settembre 2002. Successivamente, il 20 novembre 2002, era sopraggiunta la sentenza della Corte Costituzionale n.446, che dichiarava “la illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 7, della legge 31 luglio 1997, n.249 (Istituzione della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni radiotelevisivo), nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine finale certo, e non prorogabile, che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003, entro il quale i programmi irradiati dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso articolo 3, devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo.

La data del 31 dicembre era già stata indicata, come termine per la cessazione del regime transitorio di cui all’articolo 3, settimo comma, della legge 249 del 1997, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (deliberazione numero 346 del 7 agosto 2001). Detto articolo 3 rinvia ai limiti fissati dal sesto comma dell’articolo 2 della stessa legge n.249, la dove si stabilisce che ad uno stesso soggetto o a soggetti controllati o collegati “non possono essere rilasciate concessioni né autorizzazioni che consentano di irradiare più del 20% rispettivamente delle reti televisivi o radiofoniche analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base del piano delle frequenze”.

Tutto ciò detto in relazione alla compatibilità delle succitate disposizioni della legge in esame con la sentenza 466 del 20 novembre 2002, non posso esimermi dal richiamare l’attenzione del Parlamento su altre parti della legge che – per quanto attiene al rispetto del pluralismo dell’informazione – appaiono non in linea con la giurisprudenza della Corte Costituzionale.

Si consideri, a tale proposito, che la sentenza della Corte Costituzionale n.826 del 1988 poneva come un imperativo la necessità di garantire “il massimo di pluralismo esterno, onde soddisfare, attraverso una pluralità di voci concorrenti, il diritto del cittadino all’informazione”. E ancora, nella sentenza 420 del 1994, la stessa Corte sottolineava l’indispensabilità di “un’idonea disciplina che prevenga la formazione di posizioni domninanti”.

Nell’ambito dei principi fissati dalla richiamata giurisprudenza della Corte Costituzionale, si è mosso il messaggio da me inviato alle Camere il 23 luglio 2002″. “Per quanto riguarda la concentrazione dei mezzi finanziari, il sistema integrato delle comunicazioni (Sic) – assunto dalla legge in esame come base di riferimento per il calcolo dei ricavi dei singoli operatori di comunicazione – potrebbe consentire, a causa della sua dimensione, a chi ne detenga il 20% (articolo 15, secondo comma, della legge) di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti”.

“Quanto al problema della raccolta pubblicitaria, si richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 1985 che, riprendendo i principi affermati in precedenti decisioni, richiede che sia evitato il pericolo ‘che la radiotelevisione, inaridendo una tradizionale fonte di finanziamento della libera stampa, rechi grave pregiudizio ad una libertà che la Costituzione fa oggetto di energica tutela’”. “Si rende infine indispensabile espungere dal testo della legge il comma 14 dell’articolo 23, che rende applicabili alla realizzazione di reti digitali terrestri le disposizioni del decreto legislativo 4 settembre 2002, numero 198, del quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale con la sentenza 303 del 25 settembre/1 ottobre 2003.

Per la stessa ragione, va soppresso il riferimento al predetto decreto legislativo dichiarato incostituzionale, contenuto nell’articolo 5, primo comma lettera L e nell’artico,o 24, terzo comma”. “Per i motivi innanzi illustrati – conclude Ciampi – chiedo alle Camere, a norma dell’articolo 74, primo comma, della Costituzione, una nuova deliberazione in ordine alla legge a me trasmessa il 5 dicembre 2003”.

“La sentenza della corte numero 466 del 20 novembre 2002 muove dalla considerazione della situazione di fatto allora esistente, che, a suo giudizio, non garantisce… l’attuazione del principio del pluralismo informativo esterno, che rappresenta uno degli imperativi ineludibili emergenti dalla giurisprudenza costituzionale in materia. Nell’ultima delle considerazioni in diritto, la Corte precisa che “la presente decisione, concernente le trasmissioni televisive in ambito nazionale su frequenze terrestri analogiche, non pregiudica il diverso futuro assetto che potrebbe derivare dallo sviluppo della tecnica di trasmissione digitale terrestre, con conseguente aumento delle risorse tecniche disponibili'”.

“Dalla sentenza – i cui contenuti essenziali sono stati richiamati dai presidenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dell’Autorità garante della concorrenze e del mercato, nelle audizioni rese alle commissioni riunite VII e IX della Camera dei Deputati il 10 settembre 2003 – discende, pertanto, che, per poter considerare maturate le condizioni del diverso futuro assetto derivante dall’espansione della tecnica di trasmissione digitale terrestre e, quindi, per poter giudicare separabile il limite temporale fissato nel dispositivo, deve necessariamente ricorrere la condizione che sia intervenuto un effettivo arricchimento del pluralismo derivante da tale espansione”.

“La legge a me inviata si fa carico di questo problema. Le norme che disciplinano l’assetto sopraconsiderato sono contenute nell’articolo 25, il cui primo comma stabilisce che, entro il 31 dicembre 2003, dovranno essere rese attive reti televisive digitali terrestri, ponendo in particolare, a carico della società concessionaria del servizio pubblico (secondo comma) l’obbligo di predisporre impianti (blocchi di diffusione) che consentano il raggiungimento del 50% della popolazione entro il primo gennaio 2004 e del 60% entro il primo gennaio 2005. L’articolo 25, terzo comma, stabilisce inoltre che ‘l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, entro i dodici mesi successivi al 31 dicembre 2003, svolge un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri allo scopo di accertare: a) la quota di popolazione raggiunta dalle nuove reti digitali terrestri; b) la presenza sul mercato di decoder a prezzi accessibili; c) l’effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche'”

“Ciò premesso, ritengo di dover formulare alcune osservazioni
in merito alla compatibilità di talune disposizioni della legge in esame con la sentenza 466/2002 della Corte Costituzionale. Una prima osservazioni riguarda il termine massimo assegnato all’Autorità per effettuare detto esame: ‘Entro i 12 mesi successivi al 31 dicembre 2003’ (articolo 25, terzo comma). Questo lasso di tempo – molto ampio rispetto alle presumibili occorrenze della verifica – si traduce, di fatto, in una proroga del termine finale indicato dalla Corte Costituzionale”.

“Una seconda osservazione concerne i poteri riconosciuti all’Autorità: questa, entro i 30 giorni successivi al completamento dell’accertamento, invia una relazione al governo e alle competenti Commissioni parlamentari, ‘nella quale verifica se sia intervenuto un effettivo ampliamento delle offerte disponibili e del pluralismo nel settore televisivo ed eventualmente formula proposte di interventi diretti a favorire l’ulteriore incremento dell’offerta di programmi televisivi digitali terrestri e dell’accesso ai medesimi’ (articolo 25, terzo comma).

Ne deriva che, se l’Autorità dovesse accertare,
entro il termine assegnatole, che le suesposte condizioni (raggiungimento della prestabilita quota di popolazione da parte delle nuove reti digitali terrestri; presenza sul mercato di decoder a prezzi accessibili; effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche) non si sono verificate, non si avrebbe alcuna conseguenza certa. La legge, infatti, non fornisce indicazioni in ordine al tipo e agli effetti dei provvedimenti che dovrebbero seguire all’eventuale esito negativo dell’accertamento”.

“Si consideri inoltre che il paragrafo 11, penultimo capoverso, delle considerazioni in diritto della sentenza numero 466, recita: ‘d’altro canto, la data del 31 dicembre 2003 offre margini temporali all’intervento del legislatore per determinare le modalità della definitiva cessazione del regime transitorio di cui al comma 7 dell’articolo 3 della legge 249 del 1997’. Ne consegue che il primo gennaio 2004 può essere considerato come il dies a quo non di un nuovo regime transitorio, ma dell’attuazione delle predette modalità di cessazione del regime medesimo, che devono essere determinate dal Parlamento entro il 31 dicembre 2003. Si rende inoltre necessario indicare il dies ad quam, e cioè il termine di tale fase di attuazione”.

Una legge Gattopardo per la riforma delle televisioni

Michele Polo
19 settembre 2003

Il Disegno di Legge del Ministro Gasparri sul riassetto del settore delle comunicazioni modifica significativamente i vincoli alla concentrazione nel settore dei media. Le nuove misure, tuttavia, non incidono laddove il problema del pluralismo si pone maggiormente, perché non limitano l’eccessiva concentrazione dei canali televisivi generalisti.

Il DdL del 6 settembre si presta a molti commenti, ma qui mi soffermerò sui modi con cui la concentrazione di mezzi in capo ad uno stesso operatore è stata trattata, tema cruciale per la garanzia del pluralismo. Le norme vigenti pongono un limite al numero di licenze nazionali in capo ad uno stesso operatore televisivo e severe restrizioni alla partecipazione contemporanea a più mercati dei media.

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I tetti antitrust nel Disegno di Legge Gasparri

Il disegno di legge si muove su due fronti.

1.Esso definisce (art.12) una soglia del 20% delle autorizzazioni per la diffusione di programmi televisivi, soglia da applicare nell’attuazione del piano di assegnazione delle frequenze televisive e radiofoniche in tecnica digitale. Il piano frequenze rispetto a cui applicare queste soglie è quindi quello che consentirà la trasmissione di alcune decine di canali, con il passaggio dalla tecnica analogica a quella digitale.

2. Il DdL Gasparri prevede inoltre (art.13) un ulteriore sbarramento del 20%, non più legato alla percentuale di autorizzazioni ma alla massima quota di mercato in termini di fatturato che un singolo operatore può raccogliere nel sistema integrato delle comunicazioni: un’aggregazione dei mercati televisivo, radiofonico, editoriale, di Internet, di produzione cinematografica e fonografica e della pubblicità che vuole richiamare le dinamiche di convergenza e integrazione che sempre più si manifesteranno tra questi segmenti.

I due termini che abbiamo evidenziato in corsivo, tecnica digitale e sistema integrato delle comunicazioni, rappresentano i termini chiave per capire se effettivamente i vincoli posti dal DdL Gasparri consentano di incidere sugli assetti strutturali molto concentrati del sistema italiano, riequilibrando le attuali distorsioni in tema di pluralismo richiamate anche dal Presidente Ciampi.

I vincoli sul numero di canali televisivi

Con la moltiplicazione del numero di canali consentito con il passaggio alla tecnica digitale, oltre ai tradizionali canali generalisti finanziati con pubblicità, vi sarà spazio anche per molti canali che, guardando all’esperienza degli altri paesi, si specializzeranno in determinati generi di programmi, quali sport, film, programmi per ragazzi, ecc. finanziandosi con gli abbonamenti. Le dinamiche concorrenziali dei grandi canali generalisti finanziati con pubblicità, caratterizzate da un forte investimento nel palinsesto e da una forte concentrazione dei ricavi pubblicitari tra i pochi canali vincenti di questa gara, sono tuttavia molto diverse da quelle che si osservano nei canali tematici, caratterizzate dalla specializzazione in piccole nicchie di mercato e dal finanziamento attraverso gli abbonamenti dei telespettatori. Ne deriva una struttura degli ascolti molto diversa, come già si osserva in molti paesi: pochi canali generalisti continueranno a raccogliere la maggioranza della audience, mentre i canali tematici si divideranno piccole quote di telespettatori.

È evidente che, dal punto di vista del pluralismo, quello che preoccupa è la concentrazione eccessiva nel segmento delle televisioni generaliste: detenere due o tre licenze in questo caso può consentire di raggiungere una quota del 30-40% dei telespettatori, mentre tre canali tematici potrebbero raggiungere una audience del 3-4%. Il DdL Gasparri, tuttavia, non fa distinzioni all’interno degli operatori televisivi, ad esempio tra canali finanziati con pubblicità o con abbonamento, e di conseguenza pone apparentemente dei vincoli che tuttavia non sono mai di fatto operativi: con un numero iniziale plausibile di 50 autorizzazioni di canali digitali, nessun operatore televisivo potrà detenere più di 10 autorizzazioni!

I vincoli sul fatturato

Passiamo alla nozione di sistema integrato delle comunicazioni, rispetto a cui sono definite le soglie in termini di fatturato. L’argomento apparentemente è sensato e “moderno”: siamo nell’era della convergenza tra comunicazione, telecomunicazioni e Internet, non possiamo continuare a pensare in termini separati a questi mercati e a porre paletti allo sviluppo di operatori integrati e multimediali, come nella legislazione corrente.

Anche in questo caso, tuttavia, vale la considerazione che abbiamo svolto più sopra: le caratteristiche della concorrenza, e il conseguente emergere di operatori dominanti, sono estremamente diverse per la televisione (generalista) rispetto alla radio e soprattutto alla stampa quotidiana: in questi ultimi due comparti il mercato appare più frammentato, l’importanza della dimensione locale permette a molti piccoli operatori di rimanere attivi frenando la crescita di operatori nazionali.

Per comprendere questo punto, basti un dato: i primi due operatori televisivi, Rai e Mediaset, hanno raccolto nel 2001 il 90,7% degli ascolti, mentre i primi due gruppi editoriali, Rcs-Corriere della Sera e L’Espresso-Repubblica hanno, sempre nel 2001, coperto il 31.5% dei lettori di quotidiani (Autorità di Garanzia delle Comunicazioni, Relazione Annuale 2002, p. 102 e 125).

Di conseguenza, se il pluralismo è seriamente posto in discussione dalla concentrazione nel settore televisivo mentre appare sostanzialmente preservato nella struttura frammentata della stampa quotidiana, vorremmo soglie mirate laddove il problema si pone, ad esempio ponendo una soglia di due licenze per le reti generaliste, e non un vincolo che si riferisca ad un insieme composito ed ampio di mercati, accomunati dalla prospettiva della convergenza multimediale ma assai diversi dal punto di vista delle tendenze alla concentrazione.

Definendo invece un aggregato così ampio, qualunque concentrazione, anche pericolosa, in un comparto si diluisce nell’aggregato e una quota del 20% del fatturato può risultare compatibile con il persistere di situazioni di forte concentrazione in alcuni segmenti cruciali del mercato.

In conclusione, le preoccupazioni per gli assetti concentrati del settore delle comunicazioni non sembrano trovare una risposta adeguata nel Disegno di Legge Gasparri: dietro un linguaggio moderno troviamo molti cancelli, ma tutti rigorosamente aperti.


La chimera del digitale terrestre

Marco Gambaro
3 luglio 2003

La legge Gasparri, in approvazione al Senato, affida un ruolo importante alla diffusione della televisione digitale, con l’idea di allargare il numero di operatori televisivi e ridurre quindi il grado di concentrazione di questo mercato.

Per realizzare in tempi brevi questo obiettivo, prevede un passaggio obbligatorio alla tv digitale nel 2006 (switch over) e ipotizza di sovvenzionare in parte i consumatori per l’acquisto dei set top box (i decodificatori necessari per ricevere il segnale digitale e i servizi interattivi). In questo modo, si vorrebbe favorire l’accesso ai servizi interattivi di quella quota di popolazione che non utilizza Internet.

Un traguardo difficile da raggiungere

Si tratta purtroppo di idee sbagliate e di un traguardo difficilmente realizzabile. Infatti, non è la scarsità delle frequenze la ragione di concentrazione del settore televisivo, che è invece dovuta essenzialmente alle economie di scala nelle spese per i programmi. Né sembrano esserci le condizioni economiche per creare molti nuovi canali televisivi, mentre i servizi interattivi possono appoggiarsi solo ai palinsesti già esistenti e quindi rafforzare ulteriormente la posizione degli operatori già esistenti.

Con pochi servizi aggiuntivi, la domanda dei consumatori per i set top box o i televisori digitali non sarà spumeggiante.

La televisione digitale terrestre costituisce un’innovazione di sistema importante per la filiera televisiva: con la codifica digitale è possibile infatti trasmettere più canali nelle stesse frequenze attribuite al servizio televisivo, aumentando il numero di canali rispetto al segnale analogico oggi utilizzato. Inoltre è possibile attivare nuovi servizi anche interattivi se il televisore è collegato a un canale telefonico di ritorno.

Per fare questo, tuttavia, è necessario utilizzare televisori digitali e decodificatori, con un investimento rilevante da parte del telespettatore. Gli operatori televisivi, a loro volta, devono rinnovare le tecnologie di trasmissione.

Consumatori da conquistare

Pur in presenza di vantaggi e di una qualità migliore del segnale, non è quindi scontato che i telespettatori scelgano di sostituire le proprie apparecchiature di ricezione entro pochi anni. Molto dipenderà dai nuovi programmi che verranno offerti nei canali digitali, la cui disponibilità è legata alle condizioni di concorrenza del settore televisivo. Ad esempio, un ampio bouquet di canali e servizi interattivi sono generalmente disponibili nei sistemi via cavo e via satellite. Per raggiungere una massa critica difficile da ottenere con le sole scelte dei consumatori, in molti Paesi è stato perciò imposto alle stazioni televisive un passaggio obbligatorio al nuovo standard. Ma dopo i vistosi insuccessi del digitale terrestre in Gran Bretagna e in Spagna, i tempi dello switch over sono stati opportunamente spostati in avanti, al 2010-2012, ipotizzando un periodo lungo di transizione.

In Italia vi sono 38 milioni di televisori, cui vanno aggiunti 20 milioni di videoregistratori. Ogni anno si vendono circa tre milioni di televisori, con un rinnovo naturale del parco che avviene in 12-13 anni. Ad oggi manca ancora un accordo definitivo sulle caratteristiche del set top box che, comunque, non sarà compatibile con quello della televisione digitale satellitare e quindi non fruirà di quelle esternalità. L’ipotesi di vendere in due anni almeno un set top box per famiglia partendo da zero, appare francamente ottimistica. Tanto per fare un confronto, il lettore dvd, uno dei prodotti di maggior successo degli ultimi tempi, ha impiegato sei anni per arrivare nel 2003 a vendite annue di 1,5 milioni di pezzi e a un tasso di penetrazione sulle famiglie del 15 per cento. Per raggiungere almeno una penetrazione totale sulle famiglie (ma non sui televisori) occorreranno 8-9 anni, nell’ipotesi più ottimista.

Transizione lunga, rischi elevati

Nonostante nei convegni pubblici si continui a considerare la data del 2006 come riferimento, gli operatori si stanno preparando a un lungo periodo di transizione. In queste condizioni, i nuovi operatori che volessero produrre palinsesti per la tv digitale affronterebbero rischi elevati e ricavi incerti.

L’ipotesi di vendere canali ai consumatori sul modello pay tv si scontra con l’ampia offerta della televisione via satellite e con l’impossibilità tecnica di offrire bouquet di 30-40 canali. Per contro, vendere canali tematici (con palinsesti cioè da 10-20 milioni di euro) in piccoli bundle (3-4 canali) appare molto difficile e sconta le forti diseconomie di scala nella fase commerciale di gestione delle relazioni con la clientela.

Se un operatore puntasse invece a fare una tv generalista sul digitale terrestre con un palinsesto attrattivo, si sconterebbe col fatto che, per anni, i suoi costi devono essere funzione del mercato complessivo, perché compete con le grandi televisioni generaliste analogiche, mentre i suoi ricavi sono relativi a quella porzione di mercato in grado di ricevere i suoi programmi in digitale. Ad esempio, ipotizzando che un palinsesto da 150 milioni di euro consenta di raggiungere una share di ascolto media del 6 per cento e che questo ascolto si traduca in una quota del 6 per cento degli investimenti pubblicitari in televisione (tutte ipotesi ottimistiche), il nuovo entrante arriverebbe al break even nel 2012, ma in quell’anno avrebbe accumulato perdite per 1,3 miliardi di euro.

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Anche l’ipotesi di coprire con la pubblicità i costi di un piccolo canale tematico appare improbabile. A oggi i quaranta maggiori canali tematici disponibili in Italia raccolgono mediamente 650 mila euro di pubblicità annua ciascuno e, a causa dei bassi ascolti, anche le tariffe unitarie (costi contatto) sono più basse di quelle della tv generalista. Anche presupponendo una capacità di raccolta ampiamente superiore, un operatore che puntasse su questo modello sarebbe in perdita per molti anni.

I servizi interattivi semplici – partecipazione a programmi o televoto tra diversi concorrenti – sono probabilmente l’area di cui è possibile intravedere uno sviluppo significativo, ma devono necessariamente appoggiarsi a palinsesti già finanziati dalla televisione analogica poiché altrimenti hanno attrattività irrilevante o costi insostenibili. Dunque sono realizzabili sostanzialmente dagli operatori già esistenti che cercano in questo modo di appropriarsi di un mercato attualmente in mano ai gestori della telefonia cellulare.

In conclusione, nel lungo periodo la televisione terrestre diventerà digitale, ma il percorso appare poco lineare e gli effetti sulla concorrenza nel mercato televisivo meno dirompenti di quanto sia dato per scontato in molti interventi politici, non solo del Governo.


Il digitale italiano, una rivoluzione a metà

Antonio Sassano
9 settembre 2003

Il principale obiettivo della Legge Gasparri per il riassetto del sistema radio-televisivo è rispondere alla fondamentale esigenza di pluralismo e di imparzialità dell’informazione. Come il ministro ricorda in ogni dibattito pubblico, la legge è saldamente fondata su una rivoluzione tecnologica: la transizione dalla tecnologia analogica a quella digitale nelle trasmissioni televisive terrestri.

I fatti

L’attuale uso dell’etere televisivo è caotico e squilibrato a favore dei duopolisti. Delle circa 23 mila frequenze utilizzate per le trasmissioni analogiche, Rai e Mediaset ne utilizzano circa 10 mila, con una media di 1.500 trasmettitori per rete. La 7, che è la più estesa delle altre reti nazionali, ne utilizza meno della metà (647).Tutte le altre reti “nazionali” meno di duecento ciascuna. L’alto numero di frequenze consente ai duopolisti di migliorare la qualità e l’estensione del servizio, di rendere le reti più “robuste” ai guasti e di rendere più difficile per i concorrenti il raggiungimento degli stessi standard di qualità.

Il piano analogico del 1998 garantisce che una rete nazionale può essere costituita da meno di 500 trasmettitori (frequenze) e, di conseguenza, certifica che le frequenze sono utilizzate in modo inefficiente e sono distribuite in modo fortemente asimmetrico e discriminatorio tra gli operatori. Il piano analogico consente la convivenza di diciassette reti a copertura nazionale, ma richiede una razionalizzazione delle reti analogiche e un conseguente ridimensionamento del numero delle frequenze a disposizione di Rai e Mediaset. Nel 1999 il Ministero delle Comunicazioni rilascia undici concessioni nazionali in base alle quali ogni concessionario ha diritto ad operare solo dai siti indicati dal Piano e solo con 476 frequenze per rete.

Nel 2001 si prende atto dell’inevitabilità del passaggio al digitale nonché delle difficoltà e dei costi di realizzare la razionalizzazione analogica e la transizione analogico-digitale. La Legge 66/2001 sostituisce al piano analogico il piano digitale e alla razionalizzazione analogica la transizione analogico-digitale.

Nel 2003 l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni mette a punto il piano digitale televisivo. Prevede la realizzazione di diciotto multiplex” in grado di servire più del 90 per cento della popolazione. Ciascuno di questi “multiplex” può trasportare fino a cinque programmi del tipo di quelli attualmente irradiati dalle reti analogiche e può essere realizzato utilizzando meno di trecento trasmettitori. Con meno di 6mila frequenze, si può raggiungere più del 90 per cento della popolazione con novanta programmi (sessanta nazionali e trenta regionali) di qualità paragonabile a quella delle trasmissioni satellitari.

La Legge Gasparri (articolo 15.1) prevede una convergenza al piano digitale e stabilisce che il limite anti-trust del 20 per cento sia riferito al numero di reti digitali e programmi previsti dal piano. Il ministro, quindi, fa riferimento alla situazione prevista dal piano, quando descrive la moltiplicazione delle risorse che il digitale promette. La transizione analogico-digitale e la convergenza al piano divengono l’indispensabile passaggio per la realizzazione degli obiettivi (pluralismo e innovazione) della Legge Gasparri. Per questo, contro tutti i pareri tecnici, la data del 2006 per il termine forzato delle trasmissioni analogiche indicata dalla Legge 66/2001 non è stata modificata dalla Legge Gasparri.

La rivoluzione a metà

Esiste però uno scenario molto diverso da quello descritto dal ministro Gasparri: la transizione a metà.

Il digitale terrestre non si sostituisce all’analogico nel breve medio periodo, ma si somma e convive con quest’ultimo, fino alla “morte naturale” dell’analogico.

In questo caso, le reti analogiche Rai e Mediaset restano al loro posto, e vengono “aggiunti” pochi “multiplex” digitali, diciamo due Rai e due Mediaset, con aree di servizio limitate alle grandi città, quindi, a bassa copertura territoriale e alta copertura di popolazione.

Le frequenze necessarie per realizzare i “multiplex” vengono da un “mix” intelligente di frequenze proprie ridondanti e di frequenze acquisite o messe a disposizione da piccole emittenti coinvolte in “joint venture”. Solo Rai e MediasetHYPERLINK “http://www.dis.uniroma1.it/~sassano/Interventi/La_transizione_AD.html” l “Rai_Mediaset”, infatti, hanno la possibilità di progettare i nuovi “multiplex” in modo tale che l’acquisizione delle frequenze avvenga in accordo a un ben congegnato programma di ottimizzazione della copertura e di minimizzazione dei costi. Il valore delle frequenze acquisite è, inevitabilmente, determinato dal contributo marginale che esse danno all’estensione dei “multiplex” di Rai e Mediaset. Ovviamente, l’acquisizione delle frequenze viene ampiamente pubblicizzata, mentre l’uso delle proprie frequenze ridondanti viene tenuto in “secondo piano”.

Risultato: le reti analogiche con il loro inefficiente uso delle frequenze restano al loro posto e resta intatto il patrimonio che rappresentano (per i duopolisti) in termini di occupazione dello spettro. Il digitale si avvia a “macchia di leopardo”, in aree di servizio non contigue, quindi, adatte alle trasmissioni di programmi (locali) diversi e alla sperimentazione dell’interattività.

Rai e Mediaset aumentano la loro occupazione dello spettro e avviano la sperimentazione digitale sui grandi mercati. I concessionari nazionali analogici senza frequenze restano tali. I piccoli e medi operatori regionali e locali restano nel limbo analogico in attesa che l’evoluzione della tecnologia e dei ricevitori provochi la progressiva scomparsa del loro pubblico. Nessuna rivoluzione tecnologica e nessun aumento del pluralismo.

Cosa dice la Legge Gasparri

La Rai è tenuta a realizzare due nuovi “multiplex” che coprano almeno il 50 per cento della popolazione per il 1 gennaio 2004 (Articolo 25 comma 1). Mediaset può realizzare due “multiplex” con le stesse caratteristiche (Articolo 23 comma 1). Rai e Mediaset ripetono su uno dei loro “multiplex” i programmi diffusi dalle reti analogiche (consentito dall’articolo 23 comma 1).

Tutti i programmi diffusi sui nuovi “multiplex” Rai e Mediaset sono considerati nazionali pur raggiungendo solo il 50 per cento della popolazione (Articolo 25 comma 7). I programmi nazionali passano da tredici (numero delle concessioni e autorizzazioni nazionali) ad almeno diciannove (Articolo 25 comma 7). Il 20 per cento di diciannove è maggiore di tre: Rai e Mediaset possono trasmettere tre programmi sulle reti analogiche e/o digitali. In effetti, il numero di programmi nazionali trasmessi da ciascun duopolista è sei (tre analogici e tre repliche sui “multiplex” digitali), ma le repliche non contano ai fini dei limiti antitrust (Articolo 25 comma 7).

Conclusione: dal 1 gennaio 2004, grazie all’aumento del numero di programmi trasmessi dai due duopolisti, il numero di programmi nazionali che ogni operatore può diffondere passa da due a tre e Rai e Mediaset rientrano, “ipso facto”, nei limiti anti-trust.

Si tratterà, forse contro le stesse intenzioni del ministro, del primo esempio di problema di concentrazione monopolistica risolto rafforzando la posizione dei monopolisti.

Ma la sopravvivenza di Rete 4 nell’etere terrestre non è il maggior problema di questo scenario di transizione-non-transizione. Il vero problema, per il pluralismo e per il mercato, è che l’asimmetria nella distribuzione delle frequenze favorirà gli operatori dominanti nella fase di avvio delle trasmissioni digitali e non verrà ridotta, neanche parzialmente, negli anni successivi. Le frequenze analogiche resteranno nella disponibilità dei duopolisti che non avranno alcun interesse a smantellare le proprie reti analogiche per consentire la convergenza al piano digitale. Ci troveremo in presenza del caso da manuale che motiva la gestione diretta delle frequenze da parte di un “broadcaster”: la possibilità di controllare lo sviluppo del mercato.

Così, la data del completo passaggio al digitale verrà decisa dai duopolisti, il piano digitale elaborato dall’Autorità non verrà mai applicato. I piccoli e medi “broadcaster” analogici verranno trattati come i naufraghi di un immenso naufragio e nel tempo “tirati a bordo” dai duopolisti in base all’utilità marginale delle frequenze a loro disposizione. Utilità marginale certamente decrescente al crescere della copertura digitale e certamente nulla nel momento in cui Rai e Mediaset giudicheranno profittevole trasformare una o due delle loro reti analogiche in molti, nuovi, “multiplex” digitali.

Per saperne di più

Antonio Sassano, “Pro Memoria Digitale“, 26 agosto 2003

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Dibattito sull’Iit

  1. Frank Le Corbusier

    “taillée sur mesure” , è la sintesi che si riscontra sull’articolo del francese Le Monde… opinione diffusa tra molti, per una legge che difetta in primis di legittimità costituzionale, ma soprattutto di una corretta percezione della libera concorrenza e della tutela del consumatore, capisaldi della moderna Unione Europea.
    La mancata tutela del consumatore è più che evidente, dato che questa legge ad hoc, permette ai detentori monopolisti della SIC di accrescere il loro potere contrattuale nel comparto della pubblicità, influenzando così direttamente le spese delle imprese che ricadranno ovviamente sui prezzi dei prodotti che il consumatore andrà ad acquistare. Ma questo è solo uno dei tanti vicoli ciechi e bui della “città delle civiltà delle leggi delle libertà”.
    Le colpe di questo atto di presunzione, strappo di forza, che costringerà le piccole emittenti ad affrontare degli immensi sacrifici, spesso capitali per le loro leggere finanze, che trasformerà anche l’emittente pubblica in una rete privata e che permetterà finalmente agli Italiani di trovarsi a casa loro ed allo stesso tempo di avere il mercatino delle telepromozioni, ormai senza cap massimo, durante tutta la programmazione, non è solo dell’attuale governo. “chi è causa del suo male, pianga se stesso…”. Almeno speriamo che la giornata di ieri venga ricordata come pietra “campale”, di una battaglia persa per errori pregressi, ma che servano di insegnamento, per quando finiremo finalmente, almeno spero, di scavare il fonde e riusciremo a rivedere leggermente la superficie.
    Sfortunatamente l’Italia è un paese che presenta il maggior Gap europeo nella penetrazione sociale dei Media, tra la televisione e gli altri mezzi di diffusione informativa. A voi, pensare alle conseguenze.
    Oggi, come non mai, dalla firma di uno strano contratto, non rescindibile in alcuno modo, che altri hanno firmato per me, mi sento “Cornuto e Mazziato”!

  2. Matteo G. Ferraris

    Cara redazione,
    non sono anti-berlusconiano: sono post-berlusconiano. Appartengo cioè, a quella (numerosa) schiera di persone che ritiene che questo bipolarismo fondato sull’esasperazione del conflitto (con amplificazione televisiva dello stesso) e sulla certezza dell’inesistenza di una, sia pur minima, fondata ragione nel pensiero altrui, non sia quello pensato e voluto con la stagione referendaria.

    Appartengo a quell’area culturale che, nel settembre scorso, si è trovata coagulata in Parlamento (intergruppo bipartisan per la sussidiarietà) intorno alla proposta di Alberto Quadrio Curzio che ha lanciato tre “S” (sussidiarietà, solidarietà e sviluppo) quale linea strategica per la crescita del nostro (europeo) modello sociale. Da quell’elenco di “S” ne mancava una: la scuola, necessaria perché solo investendo sul sistema dell’istruzione e della formazione potrà essere conseguito l’obiettivo di comporre una società fondata sul conflitto e dilaniata da scontri di cui, quello politico, è solo l’esempio più alto.

    Tanto premesso, mi permetto, però, senza volere apparire “anti” di richiamare che sulla recentissima legge Gasparri si sono levate “contro” voci del mondo dell’impresa, rendendo evidente il futuro freno al mercato pubblicitario che alimenta l’altro mercato, quello editoriale. Le voci “contro” criticano la presunta maggiore libertà a “senso economico unico”: l’editore del grande mercato pubblicitario (televisione) potrà espandersi verso il piccolo mercato (carta stampata).

    Sono troppo ironico se chiedo se la presenza di un giornale di provincia o del suo editore nell’etere sia da oggi maggiormente libera e, in quanto tale, possibile? Il problema è da molti evidenziato con la convinzione di chi vuole applicare un approccio liberale (non monopolistico e non oligopolistico) al mercato: la riduzione della barriere all’ingresso devono essere reali e non solo formalmente favorite. Abbiamo già assistito a una storia simile nell’epoca delle privatizzazioni (a dimostrazione del mio non essere anti-B., all’epoca l’orientamento politico del Governo era diverso), in cui i gioielli di Stato sono passati di mano senza che gli stessi abbiano permesso l’emersione di una nuova classe imprenditoriale (razza padana, a parte). Di più. L’apertura scomposta al mercato ha innovativamente favorito la calata degli stranieri (senza garanzie diu reciprocità) su un mercato che dovrebbe rimanere strategicamente italiano, quello delle utilities. Risultato: i “piccoli” non sono cresciuti.

    La preoccupazione di molti in queste ore verte in tema di libertà di mercato effettiva, posto che non ritengo che sia in pericolo la mia personale libertà di espressione, come dimopstra la vostra VOCE.
    La questione centrale della legge Gasparri è, infatti, il Sic (sistema integrato di comunicazione) che unificando i mercati televisivo ed editoriale della pubblicità, consente di rispettare le quote antitrust a chi è già in posizione dominante sul mercato.

    E’ questo il tema! E non è un aspetto politico ma economico generale: vogliamo davvero mettere un freno alla concorrenza tutelando chi in posizione dominante su un mercato, può sfruttare rendite di posizione? In un mondo che evolve velocemente e che fonda sugli scambi economici una tendenza all’integrazione globale che nessun terrorista è capace di frenare, pensiamo davvero che l’atteggiamento culturale migliore sia quello di non aprirsi al mercato facendo crescere le nostre imprese ma di limitarsi alla conservazione dell’esistente?

    Non io, umile pensatore di provincia, ma Perrone, editore del “Secolo XIX”, e la Fieg (associazione degli editori di giornali) di cui è vicepresidente hanno dichiarato che “sul medio-lungo periodo esistono forti preoccupazioni per i rischi di riduzione del pluralismo connessi alla legge Gasparri. Rischi riconducibili ai probabili effetti di quella legge sulla ulteriore spinta alla concentrazione nel settore dei media, sull’ulteriore drenaggio di risorse pubblicitarie da parte del mezzo televisivo che non ha nemmeno lontanamente uguali in Europa, sulla riduzione dei margini di competitività della carta stampata. Gli editori italiani hanno dimostrato durante la congiuntura negativa degli ultimi anni grande capacità di reazione e grande fantasia imprenditoriale. Mentre in altri Paesi – per esempio la Germania – si è proceduto ad un drastico ridimensionamento dell’occupazione giornalistica, in Italia i giornali nazionali, regionali e locali hanno lanciato numerose nuove iniziative per compensare i danni della flessione pubblicitaria. In futuro la stampa quotidiana italiana continuerà ad investire in impianti, in iniziative, in uomini per difendere ed accrescere il suo patrimonio di 20 milioni di lettori al giorno, malgrado le delusioni ed i pericoli derivanti da scelte politiche poco preoccupate di salvaguardare il pluralismo informativo rappresentato e difeso soprattutto dai giornali.”

    Cos’altro dovrei aggiungere io?

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