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Dibattito sull’Iit

Continua sul nostro sito il dibattito sull’ Iit. Riproponiamo per i nostri lettori i contributi di Aberto Alesina e Francesco Giavazzi, Luigi Spaventa, Giovanni Peri, Massimiliano Tani,Tullio Jappelli e Marco Pagano, Renato Bozio e Guglielmo Weber e Daniele Checchi assieme ai numerosi commenti pervenuti.

La riforma impossibile

16 dicembre 2003
Alesina Alberto e Francesco Giavazzi
Ha ragione
Roberto Perotti: il sistema universitario e della ricerca in Italia non sono riformabili. Serve un cambiamento radicale perché riversare più fondi in questo sistema è come buttarli al vento. A riformarlo ha provato il centro-sinistra, ma ha partorito una riforma dei concorsi che è riuscita a peggiorare il meccanismo preesistente. Un risultato non da poco, vista l’assurdità di quel sistema.
Il ministro Letizia Moratti, per un istante, è stata coraggiosa e ha commissariato il Cnr, che ha 6.300 dipendenti, di cui mille addetti a mansioni amministrative, e uno su tre impiegato nel Lazio. Ma il suo coraggio è durato lo spazio di un mattino: anziché chiudere l’ente, riassumere i ricercatori bravi in una nuova struttura e liquidare quelli scadenti insieme a quasi tutti gli amministrativi, ha dato mandato ad Adriano De Maio di riformarlo. Non cambierà nulla e già De Maio chiede fondi per “rafforzare il Cnr”.

Il modello catalano

È ovvio cosa va fatto: basta guardare a Barcellona e imparare da Andreu Mas-Colell. Messo a capo di università e ricerca dal governo della Catalogna, ha puntato tutto su istituzioni nuove: Pompeu Fabra, un’università creata nel 1990, e una serie di istituti di ricerca che fanno dell’ex zona olimpica di Barcellona uno dei “parchi” scientifici più promettenti d’Europa. Nel nostro piccolo, è stato così anche con l‘Igier: se dodici anni fa avessimo ceduto alle pressioni di chi, nell’università Bocconi, non voleva che nascesse come istituto indipendente, oggi l’Igier sarebbe morto da tempo. E invece è l’unico istituto italiano di economia sulla mappa internazionale.
Anziché imparare da Mas-Colell, ci si ostina a rincorrere l’illusione che sia possibile migliorare l’esistente.
Si dovrebbero “premiare con risorse aggiuntive i centri di eccellenza già esistenti”, suggeriscono
Marco Pagano e Tullio Jappelli. E propongono che i fondi assegnati dalla Legge finanziaria all’Istituto italiano di tecnologia, siano invece destinati alle università per assumere nuovi professori “sotto il controllo di un comitato scientifico internazionale e con decisioni basate rigorosamente sul merito e sulla qualità del programma di ricerca presentato”.
Pensiamo però a che cosa è accaduto con i “centri di eccellenza” già istituiti. Nonostante referee internazionali e decisioni ovviamente basate “esclusivamente sul merito”, in tre anni abbiamo creato cinquantasei centri di eccellenza, di cui sette nel campo della biotecnologia e quattro in quello delle tecnologie dei materiali sottili (materiali e superfici nanostrutturati). Il risultato è che il finanziamento medio per ogni centro è di 2,2 milioni di euro per un triennio: con queste somme non si creano laboratori eccellenti. La soluzione ovvia, finanziare solo i dieci centri migliori con dieci milioni ciascuno, evidentemente non era politicamente praticabile .

Lo stesso è accaduto quando si è trattato di scegliere le università che avrebbero offerto, oltre ai trienni, anche una “graduate school”. La legge riserva al ministro il potere di autorizzare le graduate school: era un’occasione unica per differenziare le novantatre (sic) università italiane in teaching colleges e research universities, così come è avvenuto in Gran Bretagna. Invece, il ministro Moratti ha concesso a tutte l’autorizzazione per corsi di laurea specialistica, con il bel risultato che avremo novantatre graduate schools, tutte pagate a piè di lista dal contribuente, novanta delle quali produrranno solo mediocrità.

Riformatori “alleati” dei conservatori

Illudendosi che sia possibile migliorare l’esistente in realtà si fa il gioco dei conservatori, cioè di coloro che sono responsabili del disastro in cui ci troviamo. Nelle istituzioni esistenti, i consigli di facoltà, i comitati del Cnr, il Cun, la conferenza dei rettori, i conservatori hanno sempre la meglio perché dispongono di maggioranze sufficienti a garantire i loro privilegi. E così i riformatori diventano, malgrado le migliori intenzioni, conniventi con i conservatori.

Facciamo fatica a capire perché colleghi intelligenti come Marco Pagano e Tullio Jappelli, che tanto hanno dato alla ricerca, parlino di rigore, controlli e incentivi senza rendersi conto che l’unico modo per garantirli è di muoversi all’esterno dell’università italiana di oggi. Vittorio Grilli ci sta provando con l’Iit: è per questo che cerchiamo di aiutarlo mentre tutti i conservatori lo criticano. Proprio come accadde dieci anni fa a Barcellona, quando Andreu Mas-Colell portò una ventata di aria nuova.

Commenti alla notizia

Istituto italiano di tecnologia
di Stefano Micossi
Come persona estranea all’università ho forse poco titolo per parlare. Ma più leggo le radicali tesi a sostegno dell’IIT, meno sono convinto. Cito due obiezioni.
Primo, da esterno all’università mi interrogo: ma come può riuscire un’operazione che si pone esplicitamente e radicalmente in contrasto con tutto l’establishment accademico italiano, eppure sorge in Italia, con denaro pubblico italiano, nel quadro normativo italiano, nell’ambiente economico e sociale italiano? Se nulla si può fare per migliorare il sistema attuale di selezione del personale insegnante e dei progetti di ricerca in Italia, se il eprsonale è tutto da buttare, perché mai questo istituto dovrebbe riuscire, laddove null’altro funziona? La ricerca fiorisce nell’ambiente circostante, non nel deserto. Come mai potrà fiorire questo progetto, contro tutto l’establishment accademico e di ricerca italiano? Appoggiandosi agli amici americani? Scelti come? L’idea che la garanzia possa derivare semplicemente dalla qualità dei promotori a me non sembra convincente, pur con tutta la stima che ho per questi promotori.
In secondo luogo, a me pare che un tale progetto avrebbe dovuto essere sottoposto a rigorosi test di valutazione da parte di terzi indipendenti. Se manca la selezione dei pari accademici, almeno si sarebbe dovuto ottenere quella del mercato, imponendo la presenza di “matching funds” privati, come si fa alla Commissione europea. Se i soldi sono elargiti dal principe italiano, notoriamente non molto bravo a valutare l’impiego dei suoi fondi, senza una vera concorrenza con progetti alternativi, senza una selezione dei pari accademici, senza lo scrutinio di investitori privati, mi sembra che manchino gli elementi minimi per decidere un’erogazione così importante di denaro.

Iit, un commento al volo
di Luca Deidda
Seguo con interesse il dibattito sul sistema universitario nazionale. Ho trovato estremamente lucida l’analisi di Perotti. Non riesco a capire invece le motivazioni economiche alla base della proposta Iit. Se si ridisegnasse il sistema creando gli incentivi seri ed il rigore di cui parlano Perotti, Pagano e Jappelli, sarebbe il mercato a decretare i vincitori: solo i centri d’eccellenza veri resterebbero sul mercato (già, pur tra mille difficoltà, emergono, vedi Igier, Salerno, Crenos, etc). Non colgo invece, per quale motivo creare dal niente un nuovo unico istituto di eccellenza dovrebbe curare i mali italiani in assenza di un sistema di incentivi che si applichi in generale. Chi ci assicura che in 15-20 anni non sarà un altro baraccone?
Mi pare che più che di istituzioni create ad hoc, virtuose per definizione, ci sia bisogno di un chiaro sistema di regole sane. Gli It poi verrebbero da se, li produrrebbe spontaneamente il talento presente sul mercato (talento che ovviamente c’è, basta leggere gli scritti degli economisti che scrivono su quest’ottimo giornale).

Università
di Luigi Pisano
Sto seguendo con interesse il dibattito sull’università che va avanti su queste “pagine” ormai da mesi. Sicuramente una riforma radicale e decisa è auspicabile e necessaria. Da studente, però, sarei molto interessato a leggere interventi più articolati riguardanti gli stravolgimenti in corso sul versante didattica. Un giornale così intimamente legato al mondo accademico può essere il luogo adatto per analizzare la situazione in modo non banale e ipotizzare i futuri sviluppi.

Metropolitana
di Davide Cantoni
Il fatto che grandissimi economisti del calibro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi partecipino al dibattito intorno all’Iit mi fa tornare in mente un vecchio aneddoto.
Pare che negli anni 40, nauseato da un certo sottile antisemitismo, Paul Samuelson sia uscito da Harvard, salito sulla metropolitana locale (la “T”) nella stazione “Harvard” e sceso due fermate più avanti, a “Kendall” (oggi “Kendall-MIT”) per convincere il rettore dell’MIT a fondare una facoltà di economia.
Spero che l’Iit venga fondato in una città con una linea metropolitana…

Una domanda
di Paolo Bertoletti
Come ha già scritto Luigi Spaventa, si può largamente condividere la diagnosi di Roberto Perotti sullo stato dell’Università italiana senza doverne logicamente dedurre che il progetto dell’Iit è buono. Il punto discriminante mi sembra quello relativo alle garanzie circa il buon uso di risorse pubbliche (come, immagino, sono quelle della Pompeu Fabra e dell’IGIER). Sono certo che Alberto Alesina e Francesco Giavazzi chiariranno in privato con Tullio Jappelli e Marco Pagano le rispettive posizioni su questo argomento. Anche per noi lettori sarebbe però utile conoscere come Alesina e Giavazzi rispondono alla seguente osservazione (di Jappelli e Pagano):
“Un progetto così vago è una delega in bianco al ministro del Tesoro e a quello della Ricerca.
Il nuovo ente, sostenuto con fondi pubblici, avrebbe meritato ben altra istruttoria: un comitato scientifico internazionale, un progetto di fattibilità, una stima dei costi, l’annuncio di obiettivi credibili, un gruppo di scienziati disposti a sostenerlo. Poi una gara tra le città interessate a ospitarlo. La trasparenza degli obiettivi, delle procedure e dei criteri non è solo un dovere del processo democratico di formazione delle leggi. In casi come questo, contribuisce a dare il tono della serietà e della credibilità della proposta e della sua stessa probabilità di successo nella comunità scientifica internazionale.”


Nepotismo universitario
di Giuseppe Lo Verso
Leggo con estremo interesse la polemica seguita alla creazione dell’Iit, piuttosto che assegnare nuovi fondi alle Università o al Cnr. Il problema della scarsa qualità della maggior parte delle università italiane sta nella scarsa qualità dei docenti che, in grande numero, sono diventati tali non per meriti scientifici ma piuttosto a seguito di un processo di cooptazione da parte del barone di turno, il più delle volte genitore, zio o parente stretto del candidato ricercatore o professore.
Non è un caso che, come ha segnalato giustamente Tullio Japelli nel suo articolo “l’immobilità dei docenti universitari” in alcune università quasi il 100% dei concorsi, di ogni fascia, viene vinto da laureati, dottorandi, ricercatori o docenti già facenti parte della medesima università.
Sarebbe interessante fare una statistica del numero di parenti di docenti in servizio che risultano vincitori di concorsi nella stessa università in cui insegna il padre, la madre, lo zio o il fratello.
La conseguenza immediata di questo fenomeno è che il livello dei docenti in alcune Università italiane per lo più del sud Italia si sta abbassando graduatamente verso una mediocrità assoluta.a
Faccio un esempio significativo noto a molti: alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Palermo vi è un ricercatore semianalfabeta, vincitore di concorso, di cui è stato l’unico candidato, nell’istituto presieduto dal padre.
Questa è una vergogna assoluta.Questo assurdo sistema impedisce ai nostri migliori laureati di dedicarsi alla ricerca o li costringe a lavorare all’estero dove vengono apprezzati nelle Università americane, inglesi e tedesche dove contano le capacità individuali e non conta il cognome che si porta.
Occorre mettere un freno a questa vergogna!!!
Occorrerebbe un serio sistema di controllo dei concorsi universitari che impedisca ai parenti di ogni ordine e grado di un docente della stessa università a partecipare ad un qualunque concorso, nella stessa Università di dottorato, di ricercatore o di professore. La speranza è che in questo modo si eliminino delle situazioni di vantaggio che impediscono la reale selezione dei migliori.
Occorrerebbe inoltre un efficace e trasparente sistema di valutazione dei docenti sulla base della “capacità di insegnare” piuttosto che sul numero di pubblicazioni effettuate.
A Bologna nel 1200 i docenti che non avevano seguito di discenti nelle loro lezioni venivano mandati a casa. Più o meno quello che accade nelle università americane dove tutti i docenti sono a contratto a tempo determinato.
Non è accettabile che i docenti scadenti in Italia siano inamovibili.
Ben venga, pertanto la riforma Moratti a condizione che metta in luce tutti questi fenomeni e che non sia l’ennesimo tentativo di proteggere una lobby di ricercatori piuttosto che un’altra.



 


 

Che fare dell’università

16 dicembre 2003
Luigi Spaventa
“Illudendosi che sia possibile migliorare l’esistente in realtà si fa il gioco dei conservatori”. Espressioni familiari: le udirono Bissolati e Bonomi dai massimalisti del partito socialista; le pensò Togliatti, quando nel dopoguerra bloccò il Piano del lavoro della Cgil redatto da Giorgio Fuà e Sergio Steve; degenerarono in toni cupi negli anni Settanta (“lo Stato non si cambia, si abbatte”).
Le rivolgono ora
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi a Tullio Jappelli e Marco Pagano, accusandoli di essere oggettivamente “conniventi” (l’avverbio manca, ma traduce in sinistrese ciò che si intende) con i “responsabili del disastro in cui ci troviamo”.

I legittimi dubbi sull’Iit

Jappelli e Pagano, in un ragionato articolo su lavoce.info, si erano permessi di esprimere alcuni dubbi sull’Istituto italiano di tecnologia (Iit), istituito con un decreto legge (veicolo per i casi di necessità e urgenza) approvato con votazione di fiducia.
Eccepivano alla vaghezza della legge, che non dà indicazioni sui settori d’intervento e sulla struttura dell’Istituto e contiene di fatto “una delega in bianco” a due ministri. Si chiedevano quali garanzie di gestione vengano offerte, posto che lo statuto sarà deciso in sede politica. Dubitavano che il progetto offra al sistema della ricerca un beneficio netto e si chiedevano se i fondi stanziati, pur generosi in apparenza, bastino a garantire una scala sufficiente.
Sono dubbi ragionevoli e pacatamente espressi, condivisibili e condivisi (si vedano anche gli articoli di
Bozio e Weber e Checchi), a cui, per convincere, e come condizione necessaria per un dibattito proficuo, si dovrebbero dare risposte pacate. Forse Alesina e Giavazzi vorranno farlo, civilmente, in un prossimo contributo. Per ora, non proprio civilmente e negando diritto di dubbio, hanno solo sparato con carico da undici sull’alternativa proposta da Jappelli e Pagano di istituire cattedre di eccellenza.

Abbandonare l’università al suo destino?

Non entro nel merito, anche per mancanza di elementi. Prendo nota piuttosto del leit motiv di Alesina e Giavazzi: l’università italiana è irredimibile e deve essere abbandonata al suo destino di squallore; qualsiasi intervento all’interno di essa sarebbe un vano spreco (e da un terrazzo dell’istituendo, e costruendo, Iit i 5-600 ricercatori che vi troveranno posto, potranno contemplarne le rovine).
Per motivare questa sentenza, Alesina e Giavazzi citano una lucida analisi di
Roberto Perotti.

È, mi pare, una forzatura. Perotti avanza proposte radicali, e sensate, che io sottoscrivo una per una, a cominciare dall’abolizione del valore legale del titolo di studio (da cui discende libertà di organizzazione e concorrenza delle università). Mette in luce le resistenze dell’establishment e dei suoi organismi. Ma conclude: “non per questo bisogna demordere”.
Salire a cavallo dell’Iit (forse ottima cosa, quando si saprà di che si tratta) per archiviare la questione universitaria e non più curarsene significa, appunto, demordere.

Gli studi italiani dei “cervelli fuggiti”

Ma non solo demordere. Significa anche svalutare, e in definitiva avvilire e scoraggiare, l’opera di formazione degli studenti (obiettivo indicato da Perotti) che tanti, pur in condizioni difficili e in ambiente ostile, continuano a svolgere con passione e dedizione che si vorrebbero maggiormente condivise: come Jappelli e Pagano, che hanno scelto di lavorare, e bene, in terre di missione. È un lavoro di semina feconda, anche se i frutti vengono raccolti altrove.

Per restare alle discipline economiche, ben prima e ben più numerosi che altrove in Europa continentale, tanti ottimi nostri laureati hanno potuto continuare i loro studi all’estero: senza veti baronali, esercitati almeno sino a ieri in Francia e in Germania; anzi, nella dichiarata consapevolezza dei nostri limiti e dell’opportunità di mettere il naso fuori di casa; con disponibilità notevole di mezzi. Quegli ottimi laureati, che tanto si sono poi distinti nella ricerca, qualcosa devono pure averla imparata in Italia: almeno quel po’ che bastava per qualificarli; certamente, tanta curiosità intellettuale e voglia di studio.

Che vogliamo fare ora? En attendant Godot, appendere un cartello con su scritto “chiuso per liquidazione”?

Commenti alla notizia

Spaventa- Perotti vs Alesina Giavazzi
di Paolo Manasse
Sono davvero in contrasto le proposte Spaventa-PerottiPagano-Jappelli (SPPJ) e quelle Alesina-Giavazzi (AG) circa la reformabilità dell’Università italiana? No e si.
No, perchè, apparentemente, si pongono obiettivi diversi: il miglioramento del sistema universitario (SPPJ) o la creazione di centri di eccellenza (AG). Si, a motivo del buon vecchio vincolo di bilancio: le risorse per la sono limitate e bisogna decidere a cosa destinarle. E’ pur vero che le auspicabili riforme radicali del sistema universitario (SPPJ) hanno risibili probabilità di essere attuate: come precondizione, richiederebbero l’azzeramento della cariche accademiche. D’altro canto, i centri di eccellenza (AG) non sembrano esercitare di per se’, in Italia, effetti significativi sulla qualità sistema universitario, come la pur gloriosa vicenda dell’IGIER-Bocconi sta a dimostrare.

Brevi note
di Roberto Tasca
Giavazzi ed Alesina si occupano di centri d’eccellenza. Probabilmente fuori dalle Università è un modo corretto per sottrarli all’invadenza. Spaventa pone però un problema serio: come riformiamo le università? Perchè certamente non possiamo innalzare il livello culturale del paese con pochi centri di eccellenza. Allora, perchè tra le varie proposte sulle riforme non si inizia a discutere della necessità di rompere gli atenei multifacoltà, creare criteri di raccolta e di allocazione delle risorse che siano trasparenti, non inficiate dalle valenze dell’elettorato passivo e soggette a meccanismi di controllo sociale? La razionalizzazione delle istituzioni esistenti e dei meccanismi economico-finanziari non sono certo tabù e, forse, possono rappresentare temi nuovi, rispetto a quelli più usuali dei “concorsi” per proporre temi di riforma “da sinistra” senza fare il gioco dei conservatori.



Iit, un buon primo passo

16 dicembre 2003
Giovanni Peri
La proposta di istituire l’Istituto italiano di tecnologia (Iit), con una dotazione di cinquanta milioni di euro per il primo anno e di cento milioni per i dieci successivi, gestito da scienziati come un istituto di ricerca autonomo, ha suscitato un acceso dibattito tra accademici e ricercatori. Larga parte dei ricercatori che svolgono la loro attività in Italia si sono schierati per migliorare, riformare, ma soprattutto valorizzare l’esistente (università e Cnr). Altri, tra cui vari ricercatori italiani all’estero, ritengono che sia più efficace proporre una “rottura” e uno schema nuovo come l’Iit.
Proprio per permettere di giudicare con maggiore cognizione di causa le due alternative, la mia riflessione cerca di definire meglio il contesto nel quale si svolge oggi la ricerca in Italia e quali cambiamenti potrebbero derivare dall’istituzione dell’Iit.

I punti chiave

Primo, per la sua importanza economica e ricchezza, l’Italia ha un ritardo abissale nella ricerca scientifico-tecnologica, misurabile con una varietà di indicatori. Tale ritardo, già allarmante in precedenza, è peggiorato in modo sostanziale negli anni Novanta. Il problema, dunque, non è che l’Italia è economicamente inefficiente o poco avanzata, ma che il suo sistema di ricerca non genera i giusti incentivi, non stimola investimenti e non mobilita risorse. Università e Cnr che hanno gestito la grandissima parte della ricerca pubblica in Italia, non possono non esserne responsabili. Profondi cambiamenti sono dunque necessari.

Secondo, l’Iit è una soluzione? Molte critiche al nuovo istituto derivano dal paragone con il Mit (Massachusetts Institute of Technology), istituzione avanzatissima rispetto alla ricerca italiana, che fa sembrare il progetto velleitario, altisonante e irrealistico.
Qui vorrei invece analizzare le esperienze di altri “Institutes of Technology”: sono storie di successo, realizzate lontano da Boston e in condizioni economiche e “sociali” talvolta più problematiche. Concordo con quanto sostiene
Daniele Checchi: l’Iit non può essere la sola soluzione ai problemi della ricerca italiana. Tuttavia, ritengo che, se realizzato con le caratteristiche di un vero “Institute of Technology”, possa essere un deciso passo nella giusta direzione: un modello riproducibile poi con fondi pubblici e privati, che propone una diversa gestione della ricerca.

Anomalia italiana nella ricerca

La Tavola 1 riporta alcuni indicatori di sviluppo economico e scientifico-tecnologico dell’Italia confrontati con quelli di altre tre economie: due paesi (Regno Unito e Francia) e uno stato (California), in un periodo a cavallo dell’anno 2000.

Fonti:
European Commission: Third European Report on Science and Technology Indicators, 2003, http://www.cordis.lu/indicators/third_report.htm
OECD National Account Statistics, http://www.oecd.org/home
NSF data on scientist and engineer http://www.nsf.gov/home
Premi Nobel:
http://www.nobel.se

Come si vede dalle prime due colonne, per dimensione economica (Pil totale) e ricchezza (Pil pro capite), l’Italia è assolutamente paragonabile a queste economie. Viceversa, in tutti gli indicatori scientifico-tecnologici, l’Italia è da due a dieci volte meno sviluppata delle altre tre. L’Italia spende in ricerca un quarto delle risorse spese dalla California, occupa nella sua economia poco più di un terzo dei ricercatori occupati dalla Francia, ha meno di un quarto dei dottori di ricerca del Regno Unito. Ancora, l’Italia attrae un ottavo dei ricercatori stranieri rispetto al Regno Unito, brevetta meno della metà rispetto a Francia e Regno Unito, ha avuto un solo premio Nobel in medicina, fisica o chimica in venti anni contro gli otto del Regno Unito e i venticinque della California.

Altri dati, riportati nella relazione su scienza e tecnica della Commissione europea (1), sono altrettanto allarmanti.
L’Italia è l’unico paese Ue ad avere avuto una crescita negativa del numero di ricercatori tra il 1991 e il 1999. Nello stesso periodo la percentuale di laureati che ogni anno emigra all’estero è cresciuta dall’1 al 4 per cento e il numero di brevetti ottenuti in Usa è diminuito del 2,4 per cento ogni anno. In nessuno dei dati disponibili, né nei livelli né nelle tendenze, si vedono dunque risultati positivi nella gestione della ricerca.
Continuare a finanziare con soldi pubblici, mantenendo immutati schemi e meccanismi, un settore che non genera i giusti incentivi e che è addirittura peggiorato, non sembra la soluzione al problema della ricerca in Italia. Certamente la possibilità di una riforma radicale dell’università come propone
Roberto Perotti sarebbe desiderabile, ma probabilmente molto difficile. La proposta sul tavolo è quella di istituire l’Iit e mi pare che sia una opportunità da non sprecare.

Non solo Mit

Mentre ancora sono da definire statuto e gestione, mi pare che sia indispensabile indicare alcune caratteristiche cruciali che l’Iit dovrebbe avere per essere un “buon primo passo”.

Primo, come gli altri “Institutes of Technology” di cui parlerò (Mit, CalTech, GeorgiaTech), deve essere gestito in modo indipendente da un managing director, che sia uno scienziato di gran prestigio e abbia doti gestionali. Secondo, la dotazione di fondi pubblici deve essere solo una piccola parte del bilancio dell’Istituto (per Mit, GeorgiaTech e CalTech è intorno al 20 per cento dell’intero budget). La parte più cospicua deve essere coperta con donazioni private, di imprese e fondazioni (detraibili dalle tasse) e soprattutto con collaborazioni e progetti di ricerca con privati.
Il Mit, per la sua fama internazionale, è stato finora il modello cui ispirarsi. È assolutamente velleitario aspettarsi che l’Iit diventi in dieci o venti anni come il Mit, che può rappresentare un modello per formula e gestione, ma non per i risultati nel medio periodo.

Leggi anche:  Come uscire dalla trappola dello sviluppo

Esistono però vari altri Institutes of Technology, più recenti, che possono essere presi ad esempio. A partire da CalTech (California Institute of Technology) fondato nel 1921 in quella che era allora un’amena località di villeggiatura, Pasadena. Sempre gestito da famosi scienziati, CalTech è rimasto più piccolo per numero di studenti e budget rispetto al Mit; ancora oggi è focalizzato solo su fisica-ingegneria e chimica. Tuttavia, già nel 1934 un suo fisico ha scoperto l’antimateria e, sempre negli anni Trenta, vi è nata la biologia molecolare. Caltech è stato ed è un incredibile motore di ricerca e innovazione per la California.

Ancor più rilevante è l’esperienza di GeorgiaTech, fondata nel 1948 ad Atlanta, in una parte degli Stati Uniti, il Sud, ancora poco sviluppata e con seri problemi di accesso all’istruzione per i cittadini di colore. Georgiatech è nata con una dotazione pubblica ed è stata gestita da scienziati. Attualmente, Georgiatech ha una scuola di ingegneria tra le top ten in Usa e ha aiutato e promosso il boom tecnologico ed economico di Atlanta, ora una delle città più ricche degli Usa.
Sia in Georgia che in California, grazie a una salutare competizione, la presenza di questi istituti ha promosso la nascita di altri centri di ricerca eccellenti, privati e pubblici. In fondo, anche le attuali sedi eccellenti dell’università italiana (Milano, Torino, ma anche altre) potrebbero beneficiare dalla competizione con l’Iit.

(1) Invito i lettori a leggere quel testo, disponibile al website http://www.cordis.lu/indicators/third_report.htm


Cervelli in transito

16 dicembre 2003
Massimiliano Tani
Numerosi studi concordano nell’affermare che lo stock di capitale umano di un paese, per esempio il numero di scienziati e di ricercatori che vi operano, sia direttamente legato alla sua crescita economica. (1)
È ovvio quindi che una “fuga di cervelli”, cioè l’emigrazione di scienziati e ricercatori verso altri paesi, sia vista come problematica, soprattutto quando il numero degli emigrati che non fanno più ritorno è elevato (e il numero degli stranieri che immigrano è basso), come nel caso italiano. In genere l’attenzione di chi guarda al fenomeno si concentra sulle cause e sulle misure, istituzionali e non, per cercare di invertirlo o ridurlo.

Come calcolare la “fuga”

Nel caso dei “cervelli”, analogamente a quanto avviene nel calcolo del numero di immigrati, la “fuga”‘ viene misurata facendo il saldo tra le persone partite e quelle arrivate. Ne deriva che quanto più grande è la differenza tra cervelli entrati e usciti, tanto più problematica è la fuga. Tuttavia questo approccio è riduttivo, poiché misura solo fughe di lungo periodo (o almeno quelle che richiedono un cambio di residenza) e presuppone che lo scienziato e il ricercatore, una volta partiti, producano idee e innovazione solo nel paese di destinazione.
Ma in un mondo globalizzato, in cui la comunicazione e il trasporto da un Paese all’altro sono facili e relativamente poco costosi, le idee si muovono di continuo (per esempio via email) e la mobilità internazionale delle persone ad alto contenuto di capitale umano è spesso di natura temporanea. Quindi è invisibile per le statistiche demografiche perché non comporta un cambiamento anagrafico di residenza. Oggigiorno è possibile lavorare in un paese anche se si vive per la maggior parte del tempo in un altro, avviene comunemente tra le persone ad alto contenuto di capitale umano. Per esempio, tra gli scienziati e i ricercatori riuniti al convegno organizzato a Roma nel marzo di quest’anno dal ministro per gli Italiani nel mondo, Mirko Tremaglia, erano molti i ricercatori che pur vivendo all’estero continuano a lavorare su progetti italiani.

La mobilità delle idee

Ha quindi senso studiare il flusso dei cervelli che partono in maniera definitiva senza studiare quello dei cervelli partiti solo temporaneamente? Ed è giustificabile ritenere che una volta partito, il “cervello” non possa generare idee utili al proprio paese di origine?
La risposta a entrambe le domande sembra essere “no”, anche se è difficile provarlo empiricamente in quanto non vi sono molti dati sui viaggi di lavoro all’estero degli scienziati e dei ricercatori italiani, né sul numero di telefonate fatte a colleghi, né sugli scambi di idee via internet.
I dati disponibili suggeriscono che varrebbe la pena analizzare anche gli spostamenti temporanei internazionali per motivi di lavoro perché sono quasi totalmente effettuati da persone ad alto contenuto di capitale umano (
Tavola 1), hanno volumi significativi (Tavola 2), e sembrano avere lo scambio di idee come motivazione principale (Tavola 3), piuttosto che la facilitazione del commercio internazionale.

Questi risultati sono interessanti poiché suggeriscono di guardare alla “fuga di cervelli” nel contesto più generale dell’interscambio di capitale umano tra un paese e l’altro. Non rendersi conto dell’effetto che i miglioramenti tecnologici hanno avuto sulla mobilità internazionale dei “cervelli” può voler dire avere una visione solo parziale del problema e mettere in atto strumenti inadeguati per risolverlo.
Se, il capitale umano è davvero un input fondamentale per la crescita economica grazie alle idee che produce, occorre anche tenere conto della quantità e della qualità delle idee che sono accessibili al paese di origine. Avere il patrimonio di cervelli più grande del mondo non basta per creare conoscenza e innovazione: occorre sapere usare queste risorse. Il fatto che i “cervelli” siano mobili e che le idee prodotte rimbalzino costantemente da una parte all’altra del pianeta, suggerisce che un paese ha strade alternative alla migrazione permanente per beneficiare delle conoscenze e delle innovazioni generate a livello internazionale. Per esempio, potrebbe cercare di aumentare la qualità del proprio stock di capitale umano favorendo i contatti e le visite di studio e lavoro dei propri ricercatori, scienziati, manager con quelli residenti in altri Paesi.
La politica sull’immigrazione dell’Italia, dunque, potrebbe favorire maggiormente il “passaggio” di cervelli sul proprio territorio e non solo preoccuparsi di fermare l’esodo dei propri scienziati e ricercatori. Diventare un paese dei cervelli “in transito” potrebbe essere un rimedio al problema dei cervelli “in fuga”.

Per saperne di più

Morano-Foadi, S. e Foadi, J. (2003). “Italian Scientific Migration: From Brain Exchange to Brain Drain”, Research Report no. 8, University of Leeds: Centre for the Study of Law and Policy in Europe.

Tani, M. (2003). “Brain drain or brain gain? An analysis of international business travel to/from Australia”, mimeo, School of Business, UNSW@ADFA, settembre

Wolff, Edward N. (2000). “Human Capital Investment and Economic Growth: Exploring the Macro-Links”. Structural Change and Economic Dynamics, 11(4), 433-472.

(1) Malgrado ci sia unanimità sul forte legame tra il livello di istruzione di base e la crescita economica, va precisato che esiste dissenso sull’importanza dell’istruzione superiore e universitaria per tutti quale elemento necessario per mantenere la prosperità economica di un Paese (Wolff, 2000). Non è chiaro infatti, sulla base delle stime esistenti, per quale motivo il possesso della laurea debba aumentare la produttività di un lavoratore alla catena di montaggio. Questa osservazione sembra aver finora trovato poco interesse sul piano politico, e l’idea di una società super-istruita quale modello per risolvere i problemi di bassa produttività, disoccupazione o capacità innovativa sembra essere accettata senza (troppe) riserve.

Una proposta per l’Iit

20 Novembre 2003
Tullio Jappelli e Marco Pagano
La proposta di creare anche in Italia un istituto di ricerca di eccellenza, l’Istituto italiano di tecnologia (Iit), ha suscitato finora soprattutto polemiche. Salvo poche eccezioni, la comunità scientifica nazionale ha ritenuto l’iniziativa inutile e velleitaria, oltre che una sottrazione di risorse agli istituti di ricerca già esistenti e alle università.
Il premio Nobel Carlo Rubbia, presidente dell’Enea, intervistato dal Corriere della Sera, ha detto: “Nei discorsi che si ascoltano negli ultimi tempi ci si dimentica degli uomini e delle donne che fanno ricerca. Inseguiamo modelli stranieri ma intanto da tre anni sono bloccate le assunzioni e oggi l’età media di chi lavora è intorno ai cinquanta anni, quindi fuori gioco. Nel frattempo ci sfuggono le nuove generazioni dalle quali nascono i risultati”. Piero Tosi, presidente della Conferenza dei rettori, ha dichiarato che l’Iit è un oltraggio all’università. Adriano De Maio, commissario del Cnr, ha accusato Tremonti di non avere stima e considerazione per il sistema di ricerca pubblico. E Giorgio Squinzi, vicepresidente della Confindustria con delega a innovazione e ricerca, ritiene semplicemente che sarà un altro carrozzone.

Molti avevano sperato che l’Iit sarebbe caduto nel corso della discussione sull’approvazione della Finanziaria e che i fondi previsti sarebbero stati dirottati altrove. Così non è stato: sembra che l’Iit si farà. Cerchiamo dunque di formulare alcune proposte, visto che le caratteristiche del nuovo istituto non sono affatto definite. Lo sblocco delle assunzioni dei ricercatori e l’aumento degli stanziamenti per l’università consentono di parlarne in modo più pacato.

Promuovere l’eccellenza nella ricerca

Il decreto indica come obiettivo della nuova istituzione: “lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico del paese e l’alta formazione tecnologica, favorendo così lo sviluppo del sistema produttivo nazionale. A tal fine la fondazione instaura rapporti con organismi omologhi in Italia e assicura l’apporto di ricercatori italiani e stranieri operanti presso istituti esteri di eccellenza”. Allo scopo vengono destinati cinquanta milioni di euro nel 2004, e cento per ciascuno dei dieci anni successivi, cioè una dotazione complessiva di oltre un miliardo di euro.

Non si può non condividere l’obiettivo di “promuovere lo sviluppo tecnologico del paese e l’alta formazione tecnologica”. Ed è chiaro che, per raggiungerlo, occorre destinare risorse specifiche per promuovere l’eccellenza e l’internazionalizzazione, evitando la dispersione dei fondi, l’elefantiasi burocratica e la drammatica chiusura nei confronti dei ricercatori esterni. È inevitabile, oltre che auspicabile, che premiando in modo significativo i migliori scienziati, emergerà un sistema a due velocità. I centri di ricerca e i dipartimenti di eccellenza avranno più risorse. A essi si affiancheranno sedi universitarie in cui non verrà prodotta ricerca di frontiera e che avranno quindi pochi fondi. Non vediamo in ciò nulla di scandaloso. Premiare il merito e la capacità di produrre risultati scientifici di rilievo è l’unico modo per uniformarsi a quanto già avviene in altri paesi, superare i ritardi e competere internazionalmente.
L’Iit deve essere valutato rispetto a questi obiettivi. La vera domanda da porsi è se sarà in grado di perseguirli.

Un progetto nebuloso

Il decreto non indica i settori di intervento, i dipartimenti da creare, i laboratori da attivare. Non vi sono esplicite adesioni di scienziati di fama disposti a lavorarvi. Non è definito se l’Iit ospiterà nuovi laboratori e strutture di ricerca, se sarà una rete di istituti e laboratori di eccellenza, o se invece finanzierà centri già esistenti. Il testo è talmente vago che ogni ipotesi è legittima. Non è nemmeno stabilita la sede del nuovo istituto. E infatti è già iniziata la gara per ospitarlo: Pisa, Genova e altre città se lo contendono. Se non sono chiari gli indirizzi del nuovo istituto, come è possibile scegliere o persino proporre una sede?

Un progetto così vago è una delega in bianco al ministro del Tesoro e a quello della Ricerca.
Il nuovo ente, sostenuto con fondi pubblici, avrebbe meritato ben altra istruttoria: un comitato scientifico internazionale, un progetto di fattibilità, una stima dei costi, l’annuncio di obiettivi credibili, un gruppo di scienziati disposti a sostenerlo. Poi una gara tra le città interessate a ospitarlo. La trasparenza degli obiettivi, delle procedure e dei criteri non è solo un dovere del processo democratico di formazione delle leggi. In casi come questo, contribuisce a dare il tono della serietà e della credibilità della proposta e della sua stessa probabilità di successo nella comunità scientifica internazionale.

Quali garanzie per la gestione?

Considerate le propensioni di molti politici italiani, la domanda se l’Iit sarà l’ennesimo carrozzone è legittima.
L’Iit è di fatto sottoposto ai politici che nomineranno il commissario unico e il comitato di indirizzo. Gli stessi politici poi stenderanno lo statuto. A disegnare la struttura e le modalità di funzionamento dell’Iit, dunque, non sono stati chiamati gli scienziati che pure dovrebbero assicurarne il successo. Né è un bene che l’Iit sia percepito come iniziativa di una sola parte politica, perché in futuro potrebbe essere a rischio la sua stessa sostenibilità finanziaria. Ed è un cattivo segnale per il futuro il fatto che non sia stata prevista alcuna modalità per misurare il successo dell’iniziativa e condizionare l’ulteriore erogazione di fondi al raggiungimento dei risultati. Ad esempio, si sarebbe potuto stabilire che, se nel giro di alcuni anni l’Iit non sarà fra i primi dieci istituti al mondo in almeno due o tre settori di ricerca, esso verrà chiuso. Solo un obiettivo ambizioso è in grado di creare buone regole di gestione e comportamenti virtuosi.

L’Iit si aggiunge o sostituisce il sistema pubblico di ricerca?

È probabile che se dovesse funzionare come un centro di ricerca autonomo, l’Iit assorbirebbe inizialmente alcuni ricercatori che già lavorano in Italia, oltre che scienziati provenienti dall’estero. Questi ricercatori saranno sottratti all’università italiana, che risulterà impoverita di alcuni dei suoi elementi migliori e più dinamici. Per il sistema della ricerca in Italia, non si tratterà quindi di un beneficio netto.

Sarà un nuovo Mit?

Inutile suscitare troppe emozioni o aspettative. Nel 2002-03 il budget del Mit è stato di oltre due miliardi di dollari, cioè di oltre venti volte superiore a quello del nuovo Iit. Dati gli attuali bilanci delle università italiane, cento milioni di euro all’anno sembrano molti, ma in confronto ai centri di eccellenza mondiali la scala dell’iniziativa è modesta. Difficile con questi mezzi attirare ricercatori di fama internazionale e costituire un polo di eccellenza. Progetti significativi e agglomerazioni di risorse nel settore della ricerca sarebbero possibili su scala europea ma, inspiegabilmente, questa strada non è stata percorsa.

Una proposta

Ma lo stesso decreto, proprio perché così vago, consentirebbe di strutturare il nuovo istituto in modo completamente diverso.
Invece di creare un nuovo polo di ricerca, l’Iit potrebbe premiare i nostri migliori centri di ricerca, stimolando la concorrenza tra loro.
Il modello potrebbe essere quello del
Canada Research Chairs Program Il programma, dal costo di 900 milioni di dollari, istituisce presso le università canadesi duemila cattedre di eccellenza (di cui 926 già assegnate). Le cattedre possono essere attribuite a scienziati di qualsiasi nazionalità, già presenti in Canada o provenienti dall’estero. Le proposte delle università vengono vagliate da un comitato scientifico internazionale, e l’assegnazione è basata rigorosamente sul merito e sulla qualità del programma di ricerca presentato. Gli stipendi variano dai 100mila dollari per i giovani ricercatori (per cinque anni, con una sola possibilità di un rinnovo) ai 200mila per scienziati già affermati sul piano internazionale (per sette anni, con più possibilità di rinnovo). Fondi aggiuntivi sono previsti per la ricerca e i laboratori.

Se i fondi dell’Iit fossero spesi con queste modalità, pienamente compatibili con gli obiettivi del decreto, si riuscirebbe allo stesso tempo a valorizzare il patrimonio di talenti già presenti nelle nostre università e attrarre dall’estero altri scienziati (italiani o stranieri). Inoltre, non si dovrebbero sostenere i costi fissi di un nuovo centro di ricerca: invece si premierebbero con risorse aggiuntive i centri di eccellenza già esistenti. Infine, si aprirebbe finalmente una salutare concorrenza nel nostro sistema di ricerca, cosa di cui oggi si sente l’assoluta mancanza. Siamo certi che una proposta di questo tipo susciterebbe intorno all’Iit un più ampio consenso di quello registrato finora.


L’Iit, opportunità o pericolo?

20 novembre 2003
Renato Bozio e Guglielmo Weber

La proposta di lanciare un Mit italiano, l’Istituto italiano di tecnologia, contenuta nella Legge finanziaria, ha ricevuto reazioni contrastanti, in parte anche per la scarsa definizione del progetto.

Per quanto è dato capire, un gruppo di scienziati non necessariamente italiani e che operano in strutture universitarie e di ricerca di elevato prestigio internazionale, avranno l’occasione di lanciare una fondazione o centro di ricerca che si collochi all’eccellenza sul piano scientifico, e che generi nel medio periodo ricadute tecnologiche importanti per le aziende. A tal fine potranno beneficiare di fondi pubblici relativamente generosi per i primi dieci anni (50 milioni il primo anno, 100 milioni nei successivi).

Perché l’Itt

La ratio di questa iniziativa è duplice. Da un lato, la constatazione diffusa che il mondo produttivo italiano deve puntare sempre più a prodotti ad alto contenuto innovativo, il che comporta necessariamente un notevole incremento degli investimenti pubblici e privati nella ricerca, di base e applicata. Dall’altro lato, la percezione che è opportuno costruire una struttura nuova e snella, che non sia appesantita da personale amministrativo e di ricerca scelto in un remoto passato e dalle regole a volte asfissianti a cui è soggetto il settore pubblico nel nostro paese.

Con questa iniziativa il Governo spera di mandare un segnale forte di interesse al rientro dei molti cervelli fuggiti dall’Italia. Più in generale, di attrarre competenze dalla comunità scientifica internazionale.
La speranza ulteriore è che la nascita di un centro di ricerca di alta qualità stimoli gli altri poli di eccellenza presenti in Italia (che esistono, ma fanno spesso fatica a raggiungere una dimensione critica accettabile) a crescere e a diventare ancora più competitivi in campo internazionale.

Le reazioni alla proposta sono state prevalentemente di due tipi. Da un lato, scienziati italiani all’estero, in particolare negli Stati Uniti, hanno sottolineato l’importanza di offrire una simile opportunità al paese e alla sua comunità scientifica. Dall’altro, scienziati italiani in Italia hanno segnalato il rischio che questa iniziativa dreni le poche risorse attualmente destinate alla ricerca, e danneggi quei centri di eccellenza presenti ora nel nostro paese, che fanno grande fatica a competere in campo internazionale anche a causa di risorse inadeguate.

Le condizioni del successo

Piuttosto che discutere sui meriti dell’una e dell’altra parte (ce ne sono) ci sembra preferibile individuare alcune condizioni indispensabili al fine del successo dell’iniziativa.

In particolare, l’Iit svolgerà un ruolo positivo per la ricerca in Italia se:

1) troverà finanziamenti esterni in misura rilevante, assicurandosi così un futuro ed evitando l’autoreferenzialità che spesso deriva dal non porsi in competizione con altri soggetti per fondi esterni (siano essi di aziende, dell’ Parola del GLOSSARIO:
L’Unione Europea (UE) è attualmente composta da 15 membri. Con l’ingresso il 1 maggio 2004 di 10 nuovi paesi, il numero dei membri salirà a 25. Candidati all’ingresso nella Unione europea, della National Science Foundation americana, etc.)

2) interagirà positivamente con i (pochi) centri di eccellenza esistenti, in modo da offrire una opportunità di crescita a chi già oggi è presente nel quadro internazionale, senza però essere parte di un sistema (quale quello universitario italiano) che è poco flessibile e pochissimo sensibile alla qualità della ricerca (basti pensare che i fondi alle università sono quasi interamente assegnati sulla base della didattica svolta)

3) avrà sede in un luogo in cui esistono competenze scientifiche rilevanti e il sistema imprese è sufficientemente recettivo da finanziare prima e introdurre nel processo produttivo poi le innovazioni generate. Per la ricerca di base è infatti utile poter operare vicino a sedi universitarie di alta qualità, sia per le interazioni con gli scienziati già presenti, sia per poter attrarre più facilmente bravi laureati e dottori di ricerca da inserire nei gruppi di ricerca che formeranno. Per la ricerca applicata è invece indispensabile raccogliere gli stimoli che provengono dalle imprese, e soprattutto da quelle piccole e medie che non sono in grado di fare ricerca in proprio, ma che hanno spesso interessi comuni e interazioni importanti fra loro (si pensi ai distretti industriali, tipici del Nord-Est ma anche di altre Regioni italiane, fra cui Toscana e Marche).

In questo quadro, ci sembra molto importante sia la scelta della sede, sia il carattere organizzativo scelto.

È difficile capire perché sia stata proposta inizialmente Genova (che offre spazi fisici importanti e interazioni potenziali con ricercatori informatici di alto livello, ma poco altro), piuttosto che Pisa (come indicato da Francesco Giavazzi sul Corriere). Ma si potrebbe pensare anche a Bologna o Padova, che sono due università importanti del Nord-Est, con rilevanti competenze scientifiche in diverse aree.
È difficile capire perché non si parli ancora della struttura organizzativa, che dovrebbe a nostro giudizio essere snella, e in grado di offrire stipendi attraenti a livello internazionale, ma non garantiti a vita (si potrebbe pensare a uno stipendio solo in parte coperto dall’istituzione, e in parte invece pagato con i fondi di ricerca trovati esternamente).

Ma, almeno per noi, è particolarmente difficile capire perché si debba fin d’ora schierarsi a favore o contro questa iniziativa, di cui ancora non si conoscono i contenuti scientifici, il comitato promotore e il modo di operare.

Perché anche l’Iit non cambierà nulla

20 novembre 2003
Daniele Checchi
La recente istituzione dell’Istituto italiano di tecnologia ha sollevato numerose reazioni, per lo più negative, all’interno del mondo universitario, preoccupato della potenziale sottrazione di fondi a un sistema già logorato da una unilaterale interpretazione del concetto di autonomia finanziaria da parte del Governo centrale, che ha visto arrivare la Conferenza dei rettori alle dimissioni generalizzate come forma di protesta. Si vogliono qui fornire ulteriori elementi per valutare la portata di tale progetto.

La spesa in ricerca e sviluppo

Cominceremo con l’affermare che il progetto dell’Iit non colma il divario con la media degli altri paesi avanzati in termini di spesa in ricerca e sviluppo. Anche limitando il confronto alla spesa in ricerca e sviluppo che avviene in ambito universitario, i dati di fonte Ocse indicano che nel 2000 (ultimo anno disponibile) l’Italia destinava un ammontare di risorse equivalente allo 0,04 per cento del prodotto interno lordo, contro una media del 0,33 per cento. Nello stesso anno gli Stati Uniti dedicavano alla ricerca e sviluppo all’interno del sistema universitario lo 0,29 per cento, la Gran Bretagna e la Germania lo 0,40 per cento, e infine la Francia lo 0,23 per cento (Oecd 2003, “Education at a glance”, sezione B6). Se si volesse colmare il divario con la media degli altri paesi sviluppati, occorrerebbe destinare alla ricerca in ambito universitario 3.300 milioni di euro aggiuntivi, contro i 100 milioni di euro annui che vengono riservati al progetto Iit a regime dopo il primo anno.

In realtà un confronto più realistico dovrebbe tenere conto che il processo di produzione della ricerca deve includere anche la produzione di nuovi ricercatori. Sul fronte della formazione dottorale post-universitaria, l’Italia accumula ulteriore ritardo. In Italia nel 2001 solo lo 0,5 per cento della popolazione di riferimento all’età di laurea corrispondente risulta inserita in formazione postuniversitaria, contro una media dello 1,1 per cento (i valori di Francia e Germania sono rispettivamente 1,4 per cento e 2,0 per cento). Questo implica che se volessimo colmare il divario con la media degli altri paesi Ocse, occorrerebbero in Italia almeno tremila dottorandi in più per anno (ottenuta come prodotto di 0,6 per cento (divario del numero di studenti) per 500mila (dimensione di una corte teorica di un anno della popolazione italiana). Tradurre questa popolazione in risorse equivalenti è impossibile perché non disponiamo purtroppo di dati sulla spesa universitaria disaggregati per livello di formazione. Se tuttavia prendiamo a titolo indicativo la spesa per borse di studio erogate (che esclude i costi delle attrezzature e della docenza, tipicamente su base volontaria nel nostro paese), otterremmo una ulteriore spesa di 108 milioni di euro.

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Per riportare l’Italia in linea con gli altri paesi sviluppati in termini di spesa per ricerca e sviluppo, e limitando il confronto al settore universitario, occorrerebbero almeno 3.400 milioni di euro annui. Lo stanziamento accantonato per l’Iit rappresenta meno del 3 per cento di questa cifra. Non è quindi oggettivamente in grado di incidere sulla performance del paese sul terreno della ricerca, e potrebbe essere piuttosto pensato come un fiore all’occhiello per nascondere l’incapacità o l’impossibilità di adottare riforme più strutturali.

I sostenitori del progetto avrebbero tuttavia buon gioco nel sostenere che in presenza di risorse utilizzate in modo inefficiente, un confronto tra livelli di risorse investite non è rappresentativo della effettiva produttività delle risorse investite, e che quindi il 3 per cento delle risorse carenti può arrivare a incidere per un peso maggiore. Inoltre è altresì vero che il peso esercitabile sul mondo della ricerca non è sempre strettamente proporzionale all’ammontare delle risorse investite. È quindi possibile immaginare che l’Iit possa rappresentare col tempo una sorta di benchmark di riferimento, fornendo esempi di best practices all’intero sistema universitario nazionale

L’Iit nella realtà italiana

L’Iit rappresenta quindi una sfida non tanto per le risorse che gli vengono assegnate, ma per la possibilità di costruire soluzioni alternative ai mali cronici che affliggono il sistema della ricerca nazionale (assenza di meritocrazia, trasparenza dei processi di selezione del personale). Tuttavia anche su questo versante l’impressione di chi scrive è che le chances di successo siano scarse.

Il processo di formazione della ricerca non si colloca nel vacuum di una astratta comunità scientifica internazionale, ma trae i propri input dalla formazione postuniversitaria. Da questo punto di vista il progetto Iit viene calato dall’alto, senza reali connessioni con la (purtroppo poca) formazione avanzata già esistente, e ha come unica possibilità di incidere sulle realtà locali solo l’effetto di attrazione. Un ricercatore può sentirsi indotto a migliorare la propria produzione scientifica se ha qualche possibilità che questa gli venga riconosciuta non tanto dall’ateneo dove lavora (o dove magari ancora aspetta di prendere servizio), ma da un istituto che recluti sul mercato sulla base dei meriti scientifici. Tuttavia, affinché tale effetto abbia possibilità di incidere deve associarsi a una probabilità positiva di essere preso in considerazione. Con le risorse fornite in dotazione all’Iit questa probabilità associata è molto bassa.

Ipotizzando che l’Iit paghi una retribuzione competitiva sul mercato accademico internazionale, dobbiamo immaginare un costo del lavoro medio di almeno 150.000 mila euro annui; includendo i costi di funzionamento appare plausibile immaginare che a regime l’Iit sia in grado di reclutare 600 ricercatori. Il potenziale di ricerca della sola università italiana (includendo ordinari, associati e ricercatori) delle aree disciplinari potenzialmente interessate dal progetto (matematici, fisici, chimici, biologi, ingegneri e informatici) è pari a 18.255 (al 31/12/2001), a cui andrebbe sommato il personale che fa ricerca all’interno degli altri istituti di ricerca (Cnr, Enea, ecc.). Immaginando ragionevolmente che almeno la metà dei posti dell’Iit sia riservato a reclutamenti sul mercato intellettuale internazionale, ogni ricercatore appartenente alle scienze esatte ha una probabilità pari all’1.6 per cento di accedere al riconoscimento meritocratico del proprio lavoro. Troppo bassa per costituire un reale effetto di incentivo in grado di attivare maggior concorrenza all’interno di questi settori di ricerca.

L’esempio dell’Istituto universitario europeo

Un esempio indiretto di come un’entità estranea calata in un tessuto sociale possa non riuscire ad attivare un circolo virtuoso della ricerca ci viene fornito dall’esperienza dell’Istituto universitario europeo di Firenze, che presenta alcune analogie con il progetto Iit: assenza dall’attività didattica universitaria di base (undergraduate); capacità di attrazione di docenti prestigiosi grazie alla possibilità di più elevate remunerazioni; retribuzioni differenziate sulla base del prestigio e della produttività scientifica individuale; maggior dotazione di fondi di ricerca. Sembrerebbero quindi darsi molte delle condizioni che permettono a un pool selezionato di ricercatori di dedicarsi alla produzione scientifica, generando un intreccio virtuoso tra formazione avanzata e ricerca. Ma neppure in questo caso l’affermazione dell’eccellenza è così automatica. In riferimento all’area degli studi economici, una ricerca recente (M. Lubrano, L. Bauwens, A. Kirman, C. Protopopescu, “Ranking economics departments in Europe: a statistical approach”, Core Discussion paper n.50/2003) costruisce una graduatoria dei dipartimenti di economia nelle diverse sedi europee basata sulla quantità e qualità della ricerca ivi condotta e pubblicata. Tale studio assegna il primo dipartimento italiano al cinquantatreesimo posto e il dipartimento di economia dell’Istituto universitario europeo alla cinquantaquattresima posizione.

Possiamo quindi concludere che il progetto dell’Iit nasce zoppo. Troppe poche le risorse inizialmente assegnate per incidere fattivamente, troppa la distanza dal sistema di ricerca preesistente, da cui si dovrebbe comunque trarre almeno una parte dei ricercatori da inserire nei progetti di ricerca. Una strategia più graduale di attivazione di meccanismi concorrenziali avrebbe forse avuto maggiori probabilità di successo.

Tutti i commenti ai contributi.

Istituto italiano di tecnologia
di Stefano Micossi
Come persona estranea all’università ho forse poco titolo per parlare. Ma più leggo le radicali tesi a sostegno dell’IIT, meno sono convinto. Cito due obiezioni.
Primo, da esterno all’università mi interrogo: ma come può riuscire un’operazione che si pone esplicitamente e radicalmente in contrasto con tutto l’establishment accademico italiano, eppure sorge in Italia, con denaro pubblico italiano, nel quadro normativo italiano, nell’ambiente economico e sociale italiano? Se nulla si può fare per migliorare il sistema attuale di selezione del personale insegnante e dei progetti di ricerca in Italia, se il eprsonale è tutto da buttare, perché mai questo istituto dovrebbe riuscire, laddove null’altro funziona? La ricerca fiorisce nell’ambiente circostante, non nel deserto. Come mai potrà fiorire questo progetto, contro tutto l’establishment accademico e di ricerca italiano? Appoggiandosi agli amici americani? Scelti come? L’idea che la garanzia possa derivare semplicemente dalla qualità dei promotori a me non sembra convincente, pur con tutta la stima che ho per questi promotori.
In secondo luogo, a me pare che un tale progetto avrebbe dovuto essere sottoposto a rigorosi test di valutazione da parte di terzi indipendenti. Se manca la selezione dei pari accademici, almeno si sarebbe dovuto ottenere quella del mercato, imponendo la presenza di “matching funds” privati, come si fa alla Commissione europea. Se i soldi sono elargiti dal principe italiano, notoriamente non molto bravo a valutare l’impiego dei suoi fondi, senza una vera concorrenza con progetti alternativi, senza una selezione dei pari accademici, senza lo scrutinio di investitori privati, mi sembra che manchino gli elementi minimi per decidere un’erogazione così importante di denaro.

Iit, un commento al volo
di Luca Deidda
Seguo con interesse il dibattito sul sistema universitario nazionale. Ho trovato estremamente lucida l’analisi di
Perotti. Non riesco a capire invece le motivazioni economiche alla base della proposta Iit. Se si ridisegnasse il sistema creando gli incentivi seri ed il rigore di cui parlano Perotti, Pagano e Jappelli, sarebbe il mercato a decretare i vincitori: solo i centri d’eccellenza veri resterebbero sul mercato (già, pur tra mille difficoltà, emergono, vedi Igier, Salerno, Crenos, etc). Non colgo invece, per quale motivo creare dal niente un nuovo unico istituto di eccellenza dovrebbe curare i mali italiani in assenza di un sistema di incentivi che si applichi in generale. Chi ci assicura che in 15-20 anni non sarà un altro baraccone?
Mi pare che più che di istituzioni create ad hoc, virtuose per definizione, ci sia bisogno di un chiaro sistema di regole sane. Gli It poi verrebbero da se, li produrrebbe spontaneamente il talento presente sul mercato (talento che ovviamente c’è, basta leggere gli scritti degli economisti che scrivono su quest’ottimo giornale).Università
di Luigi Pisano
Sto seguendo con interesse il dibattito sull’università che va avanti su queste “pagine” ormai da mesi. Sicuramente una riforma radicale e decisa è auspicabile e necessaria. Da studente, però, sarei molto interessato a leggere interventi più articolati riguardanti gli stravolgimenti in corso sul versante didattica. Un giornale così intimamente legato al mondo accademico può essere il luogo adatto per analizzare la situazione in modo non banale e ipotizzare i futuri sviluppi.

Metropolitana
di Davide Cantoni
Il fatto che grandissimi economisti del calibro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi partecipino al dibattito intorno all’Iit mi fa tornare in mente un vecchio aneddoto.
Pare che negli anni 40, nauseato da un certo sottile antisemitismo, Paul Samuelson sia uscito da Harvard, salito sulla metropolitana locale (la “T”) nella stazione “Harvard” e sceso due fermate più avanti, a “Kendall” (oggi “Kendall-MIT”) per convincere il rettore dell’MIT a fondare una facoltà di economia.
Spero che l’Iit venga fondato in una città con una linea metropolitana…
Una domanda
di Paolo Bertoletti
Come ha già scritto
Luigi Spaventa, si può largamente condividere la diagnosi di Roberto Perotti sullo stato dell’Università italiana senza doverne logicamente dedurre che il progetto dell’Iit è buono. Il punto discriminante mi sembra quello relativo alle garanzie circa il buon uso di risorse pubbliche (come, immagino, sono quelle della Pompeu Fabra e dell’IGIER). Sono certo che Alberto Alesina e Francesco Giavazzi chiariranno in privato con Tullio Jappelli e Marco Pagano le rispettive posizioni su questo argomento. Anche per noi lettori sarebbe però utile conoscere come Alesina e Giavazzi rispondono alla seguente osservazione (di Jappelli e Pagano):
“Un progetto così vago è una delega in bianco al ministro del Tesoro e a quello della Ricerca.
Il nuovo ente, sostenuto con fondi pubblici, avrebbe meritato ben altra istruttoria: un comitato scientifico internazionale, un progetto di fattibilità, una stima dei costi, l’annuncio di obiettivi credibili, un gruppo di scienziati disposti a sostenerlo. Poi una gara tra le città interessate a ospitarlo. La trasparenza degli obiettivi, delle procedure e dei criteri non è solo un dovere del processo democratico di formazione delle leggi. In casi come questo, contribuisce a dare il tono della serietà e della credibilità della proposta e della sua stessa probabilità di successo nella comunità scientifica internazionale.”


Nepotismo universitario
di Giuseppe Lo Verso
Leggo con estremo interesse la polemica seguita alla creazione dell’Iit, piuttosto che assegnare nuovi fondi alle Università o al Cnr. Il problema della scarsa qualità della maggior parte delle università italiane sta nella scarsa qualità dei docenti che, in grande numero, sono diventati tali non per meriti scientifici ma piuttosto a seguito di un processo di cooptazione da parte del barone di turno, il più delle volte genitore, zio o parente stretto del candidato ricercatore o professore.
Non è un caso che, come ha segnalato giustamente
Tullio Japelli nel suo articolo “l’immobilità dei docenti universitari” in alcune università quasi il 100% dei concorsi, di ogni fascia, viene vinto da laureati, dottorandi, ricercatori o docenti già facenti parte della medesima università.
Sarebbe interessante fare una statistica del numero di parenti di docenti in servizio che risultano vincitori di concorsi nella stessa università in cui insegna il padre, la madre, lo zio o il fratello.
La conseguenza immediata di questo fenomeno è che il livello dei docenti in alcune Università italiane per lo più del sud Italia si sta abbassando graduatamente verso una mediocrità assoluta.a
Faccio un esempio significativo noto a molti: alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Palermo vi è un ricercatore semianalfabeta, vincitore di concorso, di cui è stato l’unico candidato, nell’istituto presieduto dal padre.
Questa è una vergogna assoluta.Questo assurdo sistema impedisce ai nostri migliori laureati di dedicarsi alla ricerca o li costringe a lavorare all’estero dove vengono apprezzati nelle Università americane, inglesi e tedesche dove contano le capacità individuali e non conta il cognome che si porta.
Occorre mettere un freno a questa vergogna!!!
Occorrerebbe un serio sistema di controllo dei concorsi universitari che impedisca ai parenti di ogni ordine e grado di un docente della stessa università a partecipare ad un qualunque concorso, nella stessa Università di dottorato, di ricercatore o di professore. La speranza è che in questo modo si eliminino delle situazioni di vantaggio che impediscono la reale selezione dei migliori.
Occorrerebbe inoltre un efficace e trasparente sistema di valutazione dei docenti sulla base della “capacità di insegnare” piuttosto che sul numero di pubblicazioni effettuate.
A Bologna nel 1200 i docenti che non avevano seguito di discenti nelle loro lezioni venivano mandati a casa. Più o meno quello che accade nelle università americane dove tutti i docenti sono a contratto a tempo determinato.
Non è accettabile che i docenti scadenti in Italia siano inamovibili.
Ben venga, pertanto la riforma Moratti a condizione che metta in luce tutti questi fenomeni e che non sia l’ennesimo tentativo di proteggere una lobby di ricercatori piuttosto che un’altra.

A proposito di Istituto Italiano di Tecnologia Messaggio
di Paolo Montanari
Una nuova moda : sparare sulla Ricerca e la Formazione superiore italiana.
Ma nessuno dei cecchini , come sarebbe più appropriato ,cerca di misurare la loro efficacia in termini di risultati rispetto i costi e le risorse che gli Enti deputati hanno a disposizione .
Così facendo si potrebbe verificare che la ricerca italiana (pubblica) è confrontabile con quella degli altri paesi avanzati (a volte superiore):
il rapporto brevetti europei per ricercatore in Italia è più basso (di poco) della media UE, ma supera Gran Bretagna, Spagna ed è pari a quello Francese. Il rapporto pubblicazioni ( citate più spesso ) per ricercatore è il più alto.
Nel 2002 ( così come negli anni precedenti la BPT italiana risulta infatti strutturalmente deficitaria ) il saldo globale della Bilancia dei Pagamenti Tecnologica è risultato negativo.
Invece : per le ‘imprese partecipate dallo Stato’, ( tra questi anche CNR e ENEA ? ) si conferma un saldo attivo di consistente entità (310 milioni di euro), che nel 2002 non deriva più soltanto dai servizi di ricerca e sviluppo ma anche dagli studi tecnici ed engineering: ma allora all’estero la ricerca italiana è apprezzata ?
Rispetto la media dell’Unione Europea ( che è l’1,42% ), le imprese italiane spendono in Ricerca e Sviluppo solo lo 0,60% del fatturato e , come mostrano le ricerche dell’ISTAT, quasi nulla in Ricerca di base .
Tutti sappiamo che in Italia , dopo l’affossamento della politica nazionale della ricerca negli anni 60 e lo smantellamento progressivo dei grandi gruppi industriali ( Elettronica , Chimica ,. Elettromeccanica, ecc. … Auto?? ) il sistema industriale è basato sulle PMI , prevalentemente a medio basso contenuto tecnologico, su innovazione di tipo incrementale e con poche risorse umane e finanziarie (anche di cultura imprenditoriale ?) adeguate per fare un salto di qualità .
Per questo credere di risolvere il problema inventandosi un nuovo ente può essere inutile (un altro carrozzone?) e per due ragioni:
1. non è vero che la ricerca italiana è da buttare
2. in Italia mancherebbe l’ interlocutore industriale portatore di bisogni di ricerca.

Più coraggio certamente nel riformare ( meno burocrazia e centralismo negli enti di ricerca , smantellare le baronie) ma anche una politica industriale .

Ancora sull’Iit: ma a chi verrà affidata la sua gestione?
di Andrea Ichino

Il tono dell’articolo di Alesina e Giavazzi e’ sicuramente acceso ed esplicito ma mi sembra di gran lunga preferibile questo “parlare diretto” piuttosto che le coltellate dietro la schiena e i veleni travestiti da confettini al miele che tipicamente caratterizzano i rapporti nell’accademia Italiana.
E’ anche questa un’importante ventata di aria pura nell’aria stantia e ipocrita che respiriamo tutti i giorni, e immagino che anche Jappelli e Pagano apprezzino un dibattito franco.
Detto questo, rimane il nocciolo del problema. Il “modello catalano” e’ senza dubbio un modello di successo non solo per quello che l’Universita’ Pompeu Fabra e’ riuscita a fare in questi anni, ma soprattutto perche’ ha generato un meccanismo di stimolo virtuoso anche nelle altre universita’ spagnole organizzate in modo tradizionale.

Ma quanto di questo successo e’ dovuto specificamente a chi ha governato il “modello catalano”, ossia Andreu Mas-Colell e i collaboratori che lui si e’ personalmente scelto?

Alesina e Giavazzi non possono non riconoscere che fino a quando non si sapranno i nomi di chi gestira’ l’Iit e’ difficile valutare la bonta’ di questa iniziativa. Gli stessi esempi da loro descritti suggeriscono l’esistenza di un forte rischio che l’Iit, se affidato alle persone sbagliate, possa diventare l’ennesimo baraccone “all’italiana” in grado di succhiare in un buco nero enormi risorse pubbliche. Ossia, contano relativamente poco i dettagli di come l’Iit sara’ organizzato. Cio’ che conta veramente sono le persone che lo gestiranno. Gli incentivi sono cosi’ distorti in ogni aspetto della societa’ Italiana che a questo purtroppo siamo ridotti: le istituzioni non sono buone o cattive per come sono disegnate, ma solo per virtu’ o difetto delle persone che le gestiscono. E infatti qualche raro esempio di successo non manca anche nella irriformabile Universita’ Italiana.

Quindi, a chi sta pensando Vittorio Grilli?

Ancora sull’Iit: qualcuno mi spiega che cos’è?
di Bruno Dente

Trovo assolutamente incomprensibile il dibattito sull’Iit.

Innanzitutto non so di che cosa si sta parlando. Non so, ed è il punto centrale, quale sia il programma dell’Istituto. Non so chi lo dirigerà e quali contributi abbia dato all’organizzazione di centri tecnologici di eccellenza. Non so nemmeno se si propone di intervenire sui punti di forza o quelli di debolezza della ricerca scientifica e tecnologica italiana. Siccome tutte queste cose le ignoro non posso esprimere un giudizio e una previsione sulla sua efficacia: chi afferma che è una buona idea dovrebbe avere l’onere della prova mostrando che può funzionare.

In secondo luogo trovo uno iato profondo tra la diagnosi e la terapia. Non si può dire che l’Italia è arretrata e dedurne la necessità dell’Iit. Che nesso c’è tra l’una e l’altra cosa? Certo se si investe 1 euro (o 100 milioni di euro) si otterrà qualcosa in più di quello che si ottiene adesso, ma se ciò sia sufficiente a invertire la tendenza chi lo sa? E comunque il problema è che non è affatto chiaro se la produttività sarebbe minore se si investisse nei centri già esistenti. Ma, obiettano Giavazzi e Alesina, il sistema italiano è corrotto e fa solo distribuzione a pioggia. E che garanzie ci sono che l’Iit, i cui organi sono di nomina politica, non riproduca i difetti del sistema italiano?

In terzo luogo, è proprio vero che l’Università italiana va così male? Anzi che va peggio di quanto andasse 20 o 30 anni fa, e che le riforme degli anni ’90, l’autonomia soprattutto, sono state inutili o dannose? I dati di Perotti, che si riferiscono all’economia, mostrano come i giovani candidati sono spesso “meglio” (più internazionali) dei loro commissari di concorso. Le ricerche dell’Osservatorio Alma Laurea mostrano che l’essere laureati facilita l’inserimento sul mercato del lavoro. La produttività del sistema complessivo sembra migliorare sia per quanto riguarda la regolarità degli studi sia per quanto riguarda uno dei punti certamente dolenti del sistema, vale a dire l’impegno dei docenti. Giavazzi ed Alesina hanno altri dati che mostrano il contrario? Quali? Il fatto che i vincitori di concorso sono spesso locali?

Ecco alcuni dati che si riferiscono all’Università che in questo momento conosco meglio, il Politecnico di Milano: a seguito della riforma si laureeranno in corso non meno del 60% degli immatricolati del 2000, con un tasso di abbandono che è calato al 15% e che, soprattutto, si è concentrato nel primo anno (a 19 anni è lecito sbagliare qualcosa). Le entrate per i contratti di ricerca e il “conto terzi” tra il 1995 al 2002 sono più che quadruplicate e raggiungono oggi tra il 15/20% di quello che dà lo stato. I brevetti depositati in Italia e all’estero sono passati da una media di 6/8 all’anno a più di 40. All’ultimo ciclo di dottorato sono arrivate 63 domande di laureati stranieri su 290 posti a bando (poche, se comparate alle quasi 700 italiane, ma in crescita negli ultimi anni). E stiamo parlando di una Università pubblica, che riceve meno risorse della media italiana, che non può fare selezione all’entrata e nella quale – udite, udite! – la maggior parte delle carriere sono interne. Se uno guarda istituzioni certamente di eccellenza come la SISSA o il Sant’Anna o istituzioni comparabili come il Politecnico di Torino trova risultati analoghi o migliori.

Devo per forza dire che tutto questo va male, per essere serio e anticonformista? E che l’unica soluzione è “uscire dal sistema”?

Conclusione metodologica: vogliamo comparare il Politecnico di Milano al MIT o a Caltech? Benissimo, si può fare e non credo che ne usciremmo così male, anche se sarebbe più assennato compararlo al Politecnico di Zurigo o all’Università Tecnica di Delft. Ne riceveremo stimoli importanti al miglioramento. Comparare l’intero sistema italiano all’intero sistema statunitense è operazione priva di senso (i Community Colleges dove li mettiamo? e il peso della grande impresa?). Trarne conclusioni “micro” (l’Iit è una buona cosa) è pura ideologia.

Un consiglio finale: i promotori dell’Iit, se davvero hanno un progetto scientifico valido, farebbero bene a dirlo e a prendere le distanze dai loro sostenitori acritici. Se non ce l’hanno, per favore, ne costruiscano uno al più presto, lo sottopongano alla critica della comunità scientifica internazionale e cerchino di giustificare con argomenti di merito e non generiche indicazioni di metodo una scelta di investimento di questo ammontare. La valutazione costi-benefici non è che si deve fare solo per il Ponte sullo Stretto.


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sommario 16 dicembre 2003

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Buon Natale Cavaliere

  1. Giuseppe Queirolo

    Ho letto i vari commenti sul progettato IIT, che dovrebbe sorgere a Genova, come “nuovo” ente di ricerca dedicato ai problemi di interesse tecnologico. Mi sembra che nessuno abbia mai citato ciò che già esiste con “sede” giuridico/amministrativa a Genova, ma in realtà distribuito sul territorio nazionale: lo INFM (Istituto Nazionale per la Fisica della Materia). Vorrei saper se lo IIT è destinato ad entrare in concorrenza con lo INFM od a sostituirlo. La mia esperienza lavorativa in ambito industriale mi ha portato ad interagire ed a collaborare, spesso proficuamente, con le persone facenti parte di INFM e di CNR. In particolare la mia azienda ha contribuito a far sorgere, entro le sue mura, due importanti laboratori di INFM e di CNR.
    Con le persone di questi Enti il discorso relativo a problemi che si erano evidenziati a livello di fabbricazione delle cose, ma con un fortissimo interesse di base, è stato portato avanti ed ha generato idee e programmi di ricerca anche a livello internazionale (Europeo e non solo). La ricaduta industriale di questi lavori é differenziata, e va dall’aiuto immediato per la comprensione di problemi contingenti alla impostazione di ricerche per ciò che sarà (forse) utilizzato molto nel futuro.
    Giuseppe Queirolo

  2. Elio Ziparo

    Mi schiero con il fronte Perotti/Spaventa. Il vero problema è creare nel nostro Paese le condizioni per una reale sana competizione tra le istituzioni di ricerca e di alta formazione. Competizione significa che qualcuno vince e qualcun altro perde, spingendo così tutti a fare del loro meglio per non soccombere. Attualmente la gran parte della ricerca si limita a vivacchiare. Non esiste altro esempio al mondo di strutture governate da un regime di assemblearismo assoluto, come i nostri atenei. Nessuna spinta all’efficienza, solo la ricerca del consenso interno al microsistema. Tutti votano per tutto e l’autorefererenzialità regna sovrana, rendendo irrilevante qualunque confronto con il mondo esterno.
    E’ ormai acquisito che la fornitura di servizi di pubblica utilità debba essere garantita, ma non necessariamente gestita dallo Stato. La ricerca e l’alta formazione richiedono una presenza pubblica di garanzia e di sostegno finanziario più diretta che non l’energia elettrica o i telefoni, ma è parimenti indubbio che necessitano un contesto normativo in grado di spingere il sistema verso modelli gestionali più efficienti ed efficaci di quelli attuali. Anche in Italia è possibile garantire un servizio pubblico efficiente e al contempo fare ricerca ad alto livello. Nel settore bio-medico esistono esempi di realtà virtuose: gli IRCCS (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico). Possono essere a proprietà pubblica o privata; debbono comunque offrire dei requisiti di qualità scientifica ed assistenziale a fronte dei quali accedono (su base competitiva) a fondi di ricerca pubblici dedicati e, da parte del Servizio Sanitario Nazionale, ad un rimborso delle prestazioni fornite ai pazienti maggiorato rispetto a quello garantito ai comuni ospedali. Occorre dire che, in linea di massima, i migliori IRCCS sono quelli a proprietà privata (Ist. Oncologico Europeo, etc.) anche se quelli a controllo pubblico sono mediamente su standard più che buoni (Ist. Tumori, etc.). Gli IRCCS privati possono però permettersi quello che è precluso a quelli pubblici. Infatti molti cervelli “fuggiti” sono tornati dall’estero (per lo più dagli USA) e vi lavorano egregiamente, dopo essere stati assunti a chiamata diretta, senza procedure concorsuali bizantine, contrattando ad personam il trattamento economico e le condizioni di lavoro (staff, spazi, attrezzature) ed anche molti giovani vi trovano una collocazione per loro gratificante, come post-doc ben pagati in un contesto produttivo. La produzione scientifica è a livelli di elevata competitività internazionale e i cittadini accorrono per farsi curare (gratis) in centri di eccellenza, producendo così introiti record per la proprietà. E alcuni IRCCS privati si associano ad università private, con reciproco vantaggio (S. Raffaele). Soldi pubblici ben spesi, si direbbe.
    Proposta: IRIzziamo la Ricerca. Gli Enti di ricerca e gli Atenei vengano affrancati da normative di tipo statale dando loro la possibilità di gestirsi privatisticamente, pur essendo sottoposti ad un controllo pubblico indiretto. L’accesso al sistema di finanziamento statale (come l’eventuale uscita dal sistema stesso) sarebbe ovviamente subordinato al possesso di standard qualitativi e quantitativi di produttività scientifica e didattica nonché alla conseguente capacità di reperimento autonomo di grants di ricerca da altre fonti pubbliche o private, nazionali o internazionali. La localizzazione geografica e le condizioni di accessibilità economica da parte degli studenti non potrebbero non essere altri parametri accessori di riferimento. Questo quadro è ovviamente inimmaginabile senza una deregulation totale. Il modello di governance degli Atenei non potrebbe che vedere i CdA composti dagli stock holders pubblici e privati, con una partecipazione di componenti accademiche non su base di rappresentanza diretta delle categorie, ma di funzione (Presidente della Commissione Scientifica di Ateneo, di quella Didattica, etc.). In questo quadro sarebbe inevitabile l’abolizione del valore legale del titolo di studio, la validazione formale del quale sarebbe possibile (ove necessario) ma solo ex post e a livello europeo (test di abilitazione UE).
    Non sono programmi realizzabili di colpo, magari con un decreto legge, ma è certamente possibile immaginare un itinerario legislativo che conduca progressivamente, nel giro di un quinquennio, a questo esito. Nel frattempo sarebbero accettabili anticipazioni (anche un Iit, magari) ma solo come laboratori di un futuro assetto generale e non come presunte isole felici in un presunto mare di inefficienza.

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