Il capitalismo famigliare e capitale sociale all’italiana rende ancora più necessario avere premi per chi denuncia illeciti contabili o falsificazioni di bilanci delle imprese, specie se quotate in Borsa. Ma chi dovrebbe accollarsi il costo dei premi? E non sarebbe forse più opportuno far leva sull’antagonismo fra l’interesse della proprietà di un’azienda e quello dei finanziatori e dei lavoratori? Vincenzo Ferrante e Vincenzo Perrone intervengono sulla proposta di Luigi Zingales di offrire compensi ai cosiddetti whistleblowers.

L’interesse dell’impresa

Vincenzo Ferrante

Luigi Zingales in un suo articolo su lavoce.info prospettava un premio a vantaggio dei lavoratori delle imprese, i cui bilanci fossero stati falsificati per iniziativa degli azionisti, che avessero denunziato le malversazioni contabili. Sotto traccia poteva leggersi l’idea dell’inadeguatezza delle regole concorrenziali e di corporate governance a garantire l’efficienza del sistema, altre volte prospettata da Zingales.

Il premio e le norme italiane

E tuttavia mancava un dettaglio (per nulla secondario): chi dovrebbe sopportare l’onere per questa “ricompensa”?
È certamente vero che la trasparenza del mercato è un bene comune; ma anche la sicurezza pubblica o la lotta all’evasione fiscale lo sono. Eppure nessuno propone ricompense per chi denunzia un evasore o una banda di criminali.
Del resto, come la recente iniziativa dei banchieri italiani dimostra, non può dirsi che tutti i risparmiatori fossero ignari di correre un rischio: perché costoro dovrebbero avvantaggiarsi di un aiuto finanziario dello Stato, che venga loro incontro a fronte di una natura comunque speculativa dell’investimento ?
Si potrebbe forse ipotizzare, allora, una premio privato, derivante, per esempio, da una sorta di mutua assicuratrice, istituita dalle imprese quotate.
Tuttavia, se veramente sussistesse un interesse del genere, verrebbe meno il presupposto su cui Zingales formula la sua proposta, e cioè che nessuna impresa abbia interesse ad assumere uno “spione”.
Se l’interesse alla trasparenza non è condiviso dalle imprese ammesse alla quotazione, perché queste dovrebbero poi darsi carico di premiare chi di questa trasparenza si fa portatore ?
Vero è comunque, come afferma Zingales, che a differenza di quanto accade in Italia, in altri paesi il whistle-blowing è fenomeno da tempo diffuso, anche in assenza di ricompense, e ritenuto legittimo ove sussista un interesse pubblico alla conoscenza della notizia rivelata. Si pensi ad esempio al settore ospedaliero, dove, per un verso, sono gli stessi operatori, medici o infermieri, a rischiare in prima persona anche sul piano penale, e, per un altro, sussiste spesso un pericolo per i pazienti in caso di adozione di prassi pericolose o proibite.
Una considerazione più attenta degli interessi coinvolti in ipotesi analoghe a quelle verificatesi nel caso “Parmalat”, potrebbe condurre a una revisione della disciplina di legge, che attualmente è poco coordinata.

Si prevede, infatti, (i) un obbligo di segretezza in capo al lavoratore (articolo 2105 c.c.), interpretato dai giudici in senso molto ampio; (ii) un divieto penale relativo, secondo la migliore interpretazione, solo a coloro che hanno accesso a determinate notizie in conseguenza della posizione che occupano nell’organigramma societario (articolo 622 c.p.: segreto professionale) e, infine, (iii) un divieto specifico, dettato da una legislazione di settore, diretto a impedire la rivelazione di una ampia serie di notizie al pubblico per evitare turbative del mercato, (legge n. 157 del 1991, sul cosiddetto insider trading).
Non si può seriamente pensare, però, a forme di tutela risarcitoria nei confronti di chi fa “la soffiata”, dal momento che il comportamento delle altre imprese che si rifiutassero di assumere un lavoratore per trascorsi di questo tipo sarebbe illegittima (è la pratica del cosiddetto blacklisting, vietata da oltre un secolo in tutti i paesi anglosassoni).
E allora?

Un antagonismo fra interessi

L’osservazione di Zingales coglie nel giusto quando rileva che sussiste un antagonismo fra l’interesse del management (o della proprietà) a utilizzare della società come di una cosa propria e quello, non solo dei dipendenti ma di tutta la comunità, a mantenere l’integrità dell’impresa, quale motore di arricchimento e di benessere per il territorio.
Questa osservazione, che pure potrebbe apparire scontata, è in verità uno dei punti più discussi dalla dottrina giuridica, poiché si imputa a quanti sostengono l’esistenza di una simile dissociazione, di voler separare l’impresa dalle persone, di volerla per così dire “ipostatizzare” e, dunque, di volerla assoggettare a controlli di tipo pubblicistico.
L’idea della impresa come un bene di cui il proprietario può “usare e abusare”, insomma, sarebbe un’idea liberale, mentre quella di un interesse dell’impresa, separato da quello degli azionisti, sarebbe l’anticamera del corporativismo.

L’idea dell’interesse dell’impresa, rifiutata da noi, è però ben accolta in Germania, dove, proprio in forza di questa concezione, si è prevista una struttura duale di governo societario: accanto all’organo di amministrazione, espressione della proprietà, si colloca un organo “di sorveglianza” dove siedono i finanziatori dell’impresa (in genere le banche) e i lavoratori, con il compito (e i poteri necessari) di controllare da vicino l’andamento dei conti e, in certa misura, anche le strategie dell’impresa.

Allora la domanda è: sarebbe successo il caso Parmalat (o Cirio) se le banche (e i lavoratori) avessero avuto modo di controllare i dati contabili?
Questo sistema, che la Germania ha saldamente difeso in sede comunitaria, è sempre stato considerato un freno agli investimenti, per i vincoli che pone nella gestione (e non è certo esente da difetti, come dimostra il caso recentissimo Vodafone-Mannesmann). L’Italia, dopo lunghi dibattiti, ha con la recente riforma del diritto societario permesso alle imprese che lo volessero di strutturarsi secondo il sistema dualistico (articolo 2380 c.c.), ma su questa strada non sembra che nessuno voglia seriamente incamminarsi.
Una direttiva europea del 2001 (n.86), che attende di essere trasposta entro l’ottobre del 2004 da tutti gli stati membri dell’Unione, offre però al nostro paese la possibilità di ripensare seriamente l’argomento.
La direttiva, infatti, istituisce finalmente la società europea (Se) e cioè un tipo societario unico per tutta l’Europa, destinato alle imprese multinazionali che vogliano risparmiare sui costi di gestione.
La direttiva, redatta tenendo conto del desiderio della Repubblica federale tedesca (e dell’Olanda), fa di tutto per non annacquare il potere di “cogestione” dei sindacati tedeschi e, così facendo, consente a quel paese di meglio difendere gli impianti localizzati sul suo territorio. Al contrario l’Italia sembra orientata a non prevedere alcuna forma di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione d’impresa della futura società europea, nella speranza di poter per questa via attrarre capitali stranieri.
Eppure, già da oggi le banche potrebbero condizionare i loro finanziamenti alla presenza di alcuni loro rappresentanti nell’organo di sorveglianza. E certamente, ove si volesse ripensare il sistema dei controlli, la legislazione potrebbe incoraggiare la diffusione dello schema dualistico come mezzo di controllo della governance societaria.
Nell’attuale dibattito, non sarebbe il caso di considerare anche questo punto, che si fonda sull’antagonismo degli interessi dei soggetti coinvolti, piuttosto che proporre la moltiplicazione delle autorità di garanzia?

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Il lato oscuro della forza

Vincenzo Perrone

La storia di Parmalat sembra essere la conferma definitiva del noto proverbio: chi trova un amico trova un tesoro. Almeno fino a quando non arriva la Guardia di finanza. A Parma gli amici venivano tutti dallo stesso istituto di ragioneria, si conoscevano da anni, cambiavano società di revisione, ma mantenevano lo stesso cliente. Al centro di tutto vi era il nocciolo duro della famiglia: figli, zii, forse nipoti.

Dal capitale sociale…

Le relazioni economiche sono immerse in una rete di relazioni sociali. Legami di sangue, di amicizia, di fiducia e lealtà, di clan e dialetto, di comunanza culturale, religiosa o ideologica, aiutano a scegliere le parti con le quali preferibilmente scambiare, ci spingono a rischiare di più in queste relazioni economiche e ci consentono di farle durare nel tempo.
Queste relazioni hanno un tale valore per l’azione economica che negli studi organizzativi da qualche tempo si è cominciato a parlare di capitale sociale per intendere proprio le maggiori possibilità di azione e di successo economico di cui gode l’attore che ha una dotazione elevata di relazioni sociali positive e con attori potenti, competenti, ricchi e affidabili, quanto e più di lui. Si è scoperto che quanto più elevato è il capitale sociale di un individuo, tanto più facile sarà per lui trovare un nuovo lavoro, o un’azienda partner per un accordo di joint-venture, o un banchiere disposto a prestargli soldi.
Il capitale sociale è una forza che riduce anche la complessità delle forme organizzative di governo degli scambi: se possiamo fidarci delle persone che abbiamo nella nostra rete di relazione, avremo meno bisogno di strumenti di controllo organizzativo costosi, come le regole formali o la gerarchia.

Il capitale sociale sostiene la produzione e la riproduzione del capitale economico: lo sapeva bene Georges Duroy l’arrivista assoluto detto “Bel-Amì” e con lui tutti i frequentatori di salotti e terrazze importanti. Lo sanno quanti operano in un distretto industriale e si occupano di alleanze tra imprese, o coloro che affidano alla società di consulenza dove hanno iniziato una brillante carriera la ricca commessa che ora possono firmare come amministratore delegato di un’impresa.

…Al familismo amorale

Del capitale sociale si parla quindi bene. Forse troppo. Nella vicenda Parmalat, relazioni personali di parentela e di amicizia, reti chiuse e cementate dalla fiducia e dalla conoscenza personale hanno svolto un ruolo tale da consentire il protrarsi di una truffa di quelle dimensioni per ben quindici anni.
Esaminata da questa prospettiva la storia dell’azienda, del suo fondatore e della rete di relazioni che ha saputo sviluppare nel tempo ci ricorda che il capitale sociale è neutro rispetto alle finalità dell’azione che sostiene: può aiutare a raggiungere i propri scopi Gino Strada come Totò Riina.
E può produrre esiti negativi di entità preoccupante.
Può fare assomigliare Parma a Montegrano, il nome fittizio scelto negli anni Cinquanta dal sociologo statunitense Edward C. Banfield per il paese della Basilicata emblema del nostro “familismo amorale”. Ovvero la tendenza a restringere la validità e l’obbligo di rispetto delle norme morali alla sola ristretta cerchia delle proprie relazioni familiari, sviluppando una contrapposizione netta tra famiglia (e famigli), per il bene dei quali tutto si giustifica, e società in generale.
Può trasformare la rete di relazioni amicali e di fiducia in una trappola nella quale si fa forza sui “debiti” e “crediti” sociali per ottenere acquiescenza, se non proprio connivenza, rispetto a comportamenti scorretti. O più semplicemente può stendere un velo opaco di benevola presunzione pro-reo che riduce l’incisività dei controlli, ritarda i dubbi e le verifiche, lascia prosperare il male.

Un sostituto del capitale finanziario

Verrebbe da pensare che in quella fondamentale componente del capitalismo italiano rappresentata dalle aziende a proprietà familiare, il capitale sociale sia stato usato al posto di quello finanziario per sostenere la crescita senza perdere il controllo.
Rivolgersi all’amico banchiere o farsi consigliare fantasiose e ardite operazioni societarie da qualche esperto, non meno vicino e disponibile, forse costa e preoccupa meno di aprirsi al mercato dei capitali, di fortificare le proprie strutture organizzative con immissione di manager capaci e relativamente indipendenti e di distinguere in modo più netto e trasparente il patrimonio aziendale da quello familiare.
L’era moderna comincia quando le relazioni tra estranei sono rese possibili e vantaggiose da un sistema di regole definito e fatto rispettare da una autorità legittimata, da diritti e doveri, individuali e collettivi, impersonali e universali, dall’autodisciplina determinata dalla necessità di competere in modo ordinato nel processo di allocazione di risorse scarse. Senza questi ingredienti essenziali il capitale sociale, da solo, rischia di essere il pericoloso pretesto per un salto all’indietro in un mondo nel quale la fedeltà conta più della fiducia.
Dobbiamo allora imparare a osservare meglio anche il lato oscuro del capitale sociale. E darci gli strumenti che possano servire a spezzare questa utile, ma a volte pericolosa rete di legami.

Whistle-blower e spie

Negli Stati Uniti nel gennaio del 2002 è stata varata una nuova legge, nota come “Sarbanes-Oxley Act”, che ha come finalità dichiarata quella di proteggere gli investitori migliorando l’accuratezza e l’affidabilità delle informazioni offerte dalle aziende e più in generale della loro gestione contabile e finanziaria. Nata come reazione decisa ai noti scandali, resta da vedere quanto sarà efficace.
Questa legge, oltre a prevedere fino a venticinque anni di galera per chi si rendesse colpevole di frodi al mercato azionario, parla della protezione del “whistle-blower”, letteralmente del soffiatore di fischietto. La spia, diremmo forse malignamente noi, visto che il colpo di fischietto serve per richiamare l’attenzione di chi sta fuori dall’azienda su cose non troppo pulite che vengono fatte e occultate all’interno.
La copiosa letteratura organizzativa che esiste sul fenomeno del whistle-blower, lo definisce infatti come colui o colei che fornisce informazioni a terzi relativamente ad azioni compiute dalla propria azienda, che potrebbero danneggiare altri o l’interesse pubblico, perché illegali o socialmente dannose. Corruzione, falso in bilancio, inquinamento, reati contro il diritto del lavoro, tanto per fare qualche esempio tra i casi più studiati.
Ci si è chiesti cosa motiva questo delatore a fin di bene. Valori morali a parte, la risposta sta nel calcolo dei benefici che si possono ottenere impedendo all’azienda di continuare nel proprio comportamento criminale in rapporto ai costi della denuncia. Costi in primo luogo determinati dalle ritorsioni che è lecito aspettarsi da parte dei manager responsabili dei comportamenti illeciti.

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La mano pubblica può intervenire per rendere più conveniente questo calcolo e incentivare quindi le denunce dall’interno. Il Sarbanes-Oxley Act prevede espressamente per il whistle-blower la totale compensazione di qualsiasi danno dovesse subire a causa delle ritorsioni aziendali.
Ma si potrebbe essere ancora più proattivi, come proposto da Luigi Zingales proprio su lavoce.info, prevedendo premi proporzionali al danno evitato alla collettività o agli investitori con la denuncia.
Molti scandali italiani, a cominciare da tangentopoli, sono caratterizzati da una compatta omertà aziendale che curiosamente non ha attratto finora l’attenzione che forse meriterebbe.

Questo anche se la solitudine del politico che intasca la mazzetta richiede spesso una organizzazione criminale meno articolata e sofisticata di quella che l’azienda che gliela vuole dare deve mettere in piedi. E per tenere in vita una truffa enorme per quindici anni su scala globale occorre probabilmente coinvolgere un numero cospicuo di persone. Tutte pronte a parlare. Dopo. E tutte pronte a dire la stessa cosa: che eseguivano ordini irrifiutabili provenienti dall’alto.
Se l’onestà non paga, bisogna cambiare gli incentivi che la rendono la scelta migliore.
E magari cominciare a insegnare ai nostri figli una tiritera diversa da “chi fa la spia non è figlio di Maria…”

 

Se l’onestà non paga

Luigi Zingales
30 Dicembre 2003

Il crac della Parmalat ha lasciato tutti sbigottiti. Non solo per l’entità, ma per il tipo di impresa coinvolta. Di fronte agli scandali Enron e WorldCom era fin troppo facile scaricare la colpa sulle stock options, l’avidità dei manager americani, la complessità delle operazioni finanziarie su cui queste società vivevano. Ma come è potuto accadere nella nostra Parma, simbolo della laboriosità e dell’efficienza padana, a un industriale come Calisto Tanzi, famoso per il suo attaccamento ai fondamentali valori cattolici? Come è potuta, questa mega truffa finanziaria, continuare per quindici anni, come sembra trasparire dalle prime indagini?

Un fenomeno globale

Spiegazioni contingenti sono inadeguate. Questo è un fenomeno globale, che non ha colpito solo l’America e l’Italia, ma anche l’Olanda (con Ahold) e, in passato, l’Inghilterra (con Maxwell). La moralità degli operatori non basta più.
Bernard Ebbers, l’amministratore delegato di WorldCom, è un buon cristiano, adorato dai suoi concittadini, ai cui bambini insegnava religione tutte le domeniche. Ma questo non gli ha impedito di alterare i bilanci. Occorrono quindi nuove regole, ma quali?
Prima ancora di conoscere le cause del crac Parmalat, il presidente della Consob, Lamberto Cardia, si è affrettato a chiedere più poteri per la Consob, mentre il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha colto l’occasione per spingere il suo disegno di un’unica autorità per il risparmio.
Entrambe sono iniziative meritevoli, ma dubito che possano eliminare questi scandali. In America, la Sec ha molti più poteri della Consob, ma non è riuscita a prevenire scandali ancora peggiori.
Neppure le riforme di corporate governance, introdotte negli Stati Uniti dopo i casi Enron e WorldCom, sembrano essere molto efficaci.
Prima del crollo, Enron seguiva tutte le migliori pratiche di corporate governance. Aveva nel suo consiglio di amministrazione personaggi indipendenti, stimati, e molto qualificati, a cominciare dall’ex rettore della Stanford Business School, luminare in contabilità. Se la frode gli è passata sotto il naso, come possiamo sperare che altri siano in grado di identificarle?

La verità è che il mondo della finanza si basa sulla fiducia e quindi si presta ad abusi da parte di chi, per disperazione o mancanza di scrupoli, è disposto a falsificare documenti, mentire, ingannare.
Qualsiasi controllo esterno fa fatica a individuare un problema, quando esiste la connivenza dei dipendenti chiave. Per eliminare questi scandali, quindi, è necessario spezzare il muro di omertà interna. Ma come?
Perché i dipendenti Parmalat non hanno parlato prima?

Premiare l’onestà

Non è solo un malinteso senso di lealtà. Il vero problema è che l’onestà non paga abbastanza.
A fronte degli enormi danni sociali causati da queste frodi, non esiste un adeguato compenso per le persone che contribuiscono a portarle alla luce. Non solo chi fa la soffiata spesso si attira (ingiustamente) l’odio delle vittime, ma in aggiunta vede la propria carriera compromessa. Chi vuole assumere uno “spione”? Considerate il caso del direttore degli uffici informatici Parmalat, Ugo Bianchi, che si è semplicemente rifiutato di distruggere gli archivi elettronici, come gli era stato ordinato. Ha compiuto un atto socialmente encomiabile, ma non riceverà mai una ricompensa (al di là dell’elogio sul Corriere della Sera). Anzi. Questo suo gesto lo renderà meno appetibile per futuri datori di lavoro, che preferiranno un dipendente leale a uno onesto. Lo stesso vale per i dipendenti Enron e WorldCom che hanno messo in luce gli scandali. Molti elogi sui giornali (perfino la copertina di Time), ma molte difficoltà sul lavoro.
Se il problema è che l’onestà non paga abbastanza, la soluzione è di aumentarne il rendimento per legge. Basta stabilire una ricompensa per chiunque permetta di far emergere una frode finanziaria, con un compenso proporzionato alla sua entità. Pensate forse che la truffa di Parmalat sarebbe durata quindici anni se ci fosse stata una ricompensa, diciamo del 10 per cento della dimensione della truffa, per chi avesse fornito informazioni utili alla sua identificazione? Sono pronto a scommettere di no.
Abbiamo accettato di lasciare liberi assassini (come quelli di Walter Tobagi), pur di stroncare il fenomeno delle Brigate Rosse. Perché non spendere qualche euro per premiare gli onesti e stroncare la criminalità economica?

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