L’impegno preso a Lisbona di fare dell’Europa la più competitiva economia del mondo basata sulla conoscenza richiede un profondo ripensamento del sistema universitario. Da fondare su tre punti chiave. Una maggiore competitività tra università basata sulla reputazione, un autogoverno degli atenei in linea con gli obiettivi della società e una struttura di incentivi che sappia premiare l’impegno dei docenti. In tutto ciò resta decisivo il ruolo del settore pubblico

La riforma necessaria

Tutti concordano sul fatto che l’università in Europa sia a un punto di svolta, e che una profonda riforma sia necessaria. Due iniziative avviate al più alto livello politico in Europa spingono in questa direzione: il processo di Bologna e la dichiarazione di Lisbona del 2000, quando il Consiglio europeo espresse la volontà di fare dell’Europa la più competitiva economia del mondo basata sulla conoscenza (obiettivo da raggiungere entro il 2010 si disse allora. Il che lo rende molto improbabile, mi accontenterei del 2015). La seconda iniziativa pone un’enfasi decisamente maggiore sulla ricerca, un elemento che mancava nella prima e che solo recentemente, con la formazione dei dottorandi, è divenuto una parte importante del processo.

L’impegno dell’Europa

La dichiarazione di Lisbona implica che l’Europa si impegni a rendere la sua formazione più avanzata dello stesso livello o addirittura di livello superiore a quello degli Stati Uniti. È un impegno considerevole, perché questa è molto buona ed è ovvio che c’è molto da imparare dagli Usa. Ciononostante, la vera sfida è come diventare bravi come gli Stati Uniti e come riproporre molte esperienze americane positive senza ipotizzare una realtà impossibile, ovvero che l’Europa divenga socialmente, economicamente, culturalmente, linguisticamente, come gli Stati Uniti. Per molti decenni ancora, infatti, l’Europa resterà molto più frammentata degli Stati Uniti.
Passando dal generale al particolare, sono tre i punti chiave per una riforma.
(i) la struttura di relazioni tra università (il “mercato”) deve promuovere efficienza.
(ii) gli obiettivi e le finalità stabilite (dal management) delle singole università devono essere in linea con gli interessi della società e l’obiettivo dell’efficienza.
(iii) I singoli accademici devono essere ben motivati e impegnati nel processo. Gli incentivi sono perciò estremamente importanti.
Vorrei soffermarmi su ciascuno di questi aspetti.

La competizione

Ammetto di credere che una maggiore competizione tra università europee possa essere solo salutare. Ma trasformare l’educazione superiore in un mercato qualsiasi (con i servizi all’educazione considerati come beni di consumo) sarebbe andare troppo in là, neanche gli Stati Uniti prendono seriamente in considerazione questa opzione.
Ma generare una competizione basata sugli effetti di reputazione mi sembra la strada giusta. Detto per inciso, è molto probabile che un vero spazio europeo, interconnesso e competitivo di educazione superiore, si sviluppi in primo luogo a livello postgraduate. E non vedo niente di male in questo. A livello undergraduate, la segmentazione tra paesi resterà ancora per qualche tempo il fenomeno dominante.

L’autogoverno

Le università tendono a essere istituzioni che si autogovernano: ci sono motivi storici e di buon senso perché sia così e l’autogoverno deve essere preservato. Tuttavia, questo non significa che tutte le forme di autogoverno siano equivalenti o che le decisioni di università autogovernate siano automaticamente in linea con gli obiettivi della società. Si verificano distorsioni e se anche una autorità pubblica cercasse di aggirarle attraverso contratti e meccanismi di finanziamento, molto probabilmente fallirebbe. È troppo stretto infatti il margine discrezionale a disposizione di un’agenzia pubblica che voglia seguire imporre un’efficace politica del “bastone e della carota”. Quando è in ballo l’educazione dei giovani, minacce che implichino punizioni pesanti, mancano di credibilità.
Così, anche considerando le capacità di condizionamento che il settore pubblico potrebbe esercitare, la capacità di autogoverno dell’università resterà notevole. Le sue decisioni (o non decisioni) sono prese con la partecipazione (spesso con potere di veto) di un ampio ventaglio di gruppi di interesse interni e le conseguenze di tutto ciò sono state ben riassunte da Burton Clark quando ha detto che “le tradizionali università europee hanno esibito a lungo la loro incapacità riorganizzarsi”. Qui, infatti, il contrasto con le università americane è stridente.

Gli incentivi

Il terzo punto sono gli incentivi. Quando è coinvolto personale così qualificato, con un così grande capitale umano, il grado di impegno è essenziale e perciò lo sono gli schemi degli incentivi per gli accademici.
Tipicamente, i professori producono servizi di insegnamento e di ricerca.

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Una critica spesso ripetuta è che in Europa si tende a offrire più incentivi alla ricerca che all’insegnamento. Mentre non ho nessuna obiezione sugli incentivi alla ricerca (i buoni ricercatori hanno molte possibilità esterne), potrei essere d’accordo con una politica di incentivi all’insegnamento solo a una condizione: che gli insegnanti siano scelti sulla base della loro capacità di fare ricerca, già affermata o potenziale.
Con una semplificazione forse eccessiva, si potrebbe dire che il buon insegnamento, almeno per molte persone, è una questione di impegno più che di talento, mentre per la ricerca è vero il contrario.

Per inciso, una particolare forma di incentivo è la “tenure” (un posto permanente offerto ai docenti). La possibilità della tenure è una caratteristica positiva delle istituzioni universitarie (esiste persino negli Stati Uniti) e molto probabilmente sarà conservata anche in un sistema basato sulla competizione. Ma dobbiamo chiederci se la tenure legata a un impiego pubblico (una situazione comune in Europa) sia la soluzione migliore.
Concludo con una domanda più politica.
Nelle materie che concernono l’università europea chi sono gli attori del cambiamento? Oserei direi, pur con qualche trepidazione, che questo ruolo, specialmente nella fase iniziale, non sarà giocato dalle università.
E che dire del settore privato o comunque non statale? Può avere un’influenza positiva, con lo sviluppo di iniziative esemplari, promosse da privati, ma che potrebbero poi essere imitate. Questa influenza è però necessariamente limitata perché il settore privato europeo non ha una tradizione nell’offrire fondi per l’educazione superiore comparabile con il modello americano.
E allora? Resta il settore pubblico. E mi sembra che, tutto considerato, il ruolo della policy pubblica nel perseguire una profonda riforma dell’università non possa che essere decisivo.

 

* Questo articolo trae spunto dalla Quinta Lezione Angelo Costa, tenuta alla Luiss da Andreu Mas-Colell il 15 gennaio 2004. Il testo integrale dal titolo “The European Space of higher Education: Incentives and Governance Issues” sarà pubblicato nel numero di novembre-dicembre 2003 della Rivista di Politica Economica  e scaricabile dal sito della rivista.

The necessary reform of the European university: market, governance and incentives issues

There is general agreement that the European university is at a crossroad and that reform is necessary.

There are, at least, two major European-level policy initiatives pushing in that direction: the Bologna process and the Lisbon 2000 declaration of the Executive Council of the EU expressing the will of Europe to become the most competitive knowledge based economy in the world (by the year 2010, which is most unlikely. I would happily settle for 2015). The second initiative has a strong emphasis on research, which the fist initially lacked. It has only recently been added, with doctoral education, as an important ingredient of the process.

The Lisbon commitment implies that the European space of higher education recognizes itself in the ambition to became as good, or even better, than the American one. It is a tall order: the latter is very good. It is obvious therefore that there is much to be learned from the USA.

Yet the real challenge is how to become as good as the USA and how to adapt many positive experiences from the USA without postulating an impossible reality: that Europe becomes (socially, economically, culturally, linguistically) like the USA.

For many decades Europe will remain much more segmented than the USA.
From general to particular one could specify three key domains for reform measures:
(i) The structure of the inter-relationship among universities (“the market”) has to be efficiency promoting.
(ii) The objectives and aims of the management structure of individual universities have to be aligned with the social interest and the goal of efficiency.
(iii) Individual academics has to be well motivated and engaged. Incentives are therefore very important.

I comment in turn for each of these aspects.
I will admit to the prejudice of thinking that a higher level of competition among European universities would be healthy. Transforming the field of higher education into a conventional market (with educational services as commodities) would go too far. Not even in the USA is this seriously entertained as a general option. But generating competition for students based (this is important) on reputation effects seems the right way to go. Incidentally, it is very likely – and there is nothing wrong in that – that a true European, interconnected and competitive field of higher education develops first at the postgraduate level. Presumably the European segmentation phenomenon will be dominant at the undergraduate level for quite sometime.

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Universities tend to be self-governing institutions. There are both sound and historical reasons for that. Self-government is a characteristic that has to be preserved. Yet, this does not mean neither that all forms of self-government are equivalent nor that a self-governing university will have its decisions automatically aligned with the social objectives. There are distortions and although a funding public authority could try to get around those by means of contracts, most likely it will fail at this because the discretionary margin available to a public agency for the imposition of an effective stick- and-carrots policy is, most likely, too narrow. With the education of the young at stake threats involving large punishments will lack credibility. Thus, even taking into account the conditioning of the funding agencies, the extent of self-government by universities is considerable. Its decisions (or non-decisions) are made with the participation (often with the blocking power) of a large portfolio of internal interest groups. The consequence of all this was well put by Burton Clark: “Traditional European Universities have long exhibited a notoriously weak capacity to steer themselves”. The contrast with American universities is here striking.

The third issue I have referred to are incentives. With very qualified personnel, embodying much human capital, effort is of the essence and therefore so are the incentive schemes for the academic personnel. Professors typically produce teaching and research services. One often heard criticism in Europe is that we tend to give more incentives for research than for teaching. I have no quarrel with the research incentives (good researchers have many outside options) but I would agree with a policy of increasing incentives for teaching under one condition. To wit: that personnel be initially chosen by research talent, or promise. Simplifying beyond reason one could say that good teaching is fundamentally, and for most people, a matter more of effort than of talent. The contrary is the case for research. Incidentally, a particular type of incentive measure is tenure. The possibility of tenure is a positive characteristic of university institutions (it exists even in the USA) and one that, in all likelihood, competition will preserve. Yet one can question if the form of tenure represented by a civil service position – a situation common in Europe – is the best one.

I conclude with a more political question: in European university matters, who are the more likely agents of change?. With some trepidation I dare to say that it is not likely that this role will be played, especially in the earlier steps, by the universities themselves. What about the private and non-government sector? It may have a positive influence as there may be exemplary, privately promoted, developments that are then widely imitated. But the influence is necessarily limited as the European private sector does not have a history of providing funds for higher education comparable to the USA model. What then? It remains the public sector, and indeed once everything said and done, it seems to me that the role of public policy in pursuing the aim of in-depth university reform will need to be paramount.

 

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