Ho letto con interesse l’argomentazione del prof. Giavazzi sulle posizioni di Bersani su scuola e università. Vorrei replicare su un punto preciso: il PD non tace sulle rette universitarie.
In Europa, si confrontano due modelli: quello continentale (tasse basse o inesistenti) e quello anglosassone, modificato due anni fa da Cameron con la possibilità di innalzare le tasse universitarie a 9.000 sterline, colta al balzo da tutti gli atenei (non solo i migliori). Gli effetti negativi sono già evidenti: iscrizioni in calo e rientro del debito a rischio a causa della recessione.

IL PARADOSSO ITALIANO

L’Italia oggi coniuga il peggio di entrambi i sistemi: le tasse più elevate nell’ambito del sistema “continentale” e il peggior sistema di diritto allo studio. Solo il 7 per cento degli studenti ha una borsa di studio (258 milioni di euro di fondi pubblici), ma siamo al terzo posto per la tassazione in Europa (1289 dollari all’anno, nel 2009), dopo Uk e Paesi Bassi (rispettivamente a 4700 dollari, prima della “riforma Cameron”, e 1860$), in cui però il costo per studente è, rispettivamente, di 16.338 e 17.854 dollari, contro i nostri 9.562.
Giavazzi e altri sostengono il modello anglosassone anche da noi partendo dal presupposto che le tasse universitarie sarebbero troppo basse rispetto al costo di ciascuno studente e che l’università, pagata da tutti, è frequentata dai ceti medio-alti. Dunque “i poveri pagano l’università ai ricchi”. Ciò è falso per il primo punto (le tasse in Italia sono già alte) e discutibile per il secondo. A parte il fatto che i “ricchi”, al netto dell’evasione fiscale, sono anche quelli che pagano più tasse, è una visione statica del quadro attuale: per esempio, con tasse inferiori e più borse di studio potremmo avere più studenti da famiglie meno abbienti. Sempre a causa della mancanza di una visione dinamica, dire che l’università è regressiva non tiene conto delle esternalità che un laureato avrà sulla società intera.

L’IMPORTANZA DELL’ISTRUZIONE

La vera sfida è aprire l’università a fasce più ampie, chiedendo di più (maggiore progressività) a chi se lo può permettere, a maggior ragione se in ritardo con gli studi, come abbiamo proposto al governo Monti. La tassazione media non solo non deve essere aumentata, ma diminuita: non certo perché lo sostiene l’Andu, ma per riportarla nella media Ue. Come è noto, i nostri investimenti in istruzione terziaria (1 per cento del Pil nel 2009) ci vedono penultimi a livello Ocse (1.6 per cento del Pil) ed Ue (1.4 per cento). Inoltre, come spiega il rapporto Giarda, nel silenzio generale l’Italia negli ultimi 20 anni ha ridotto enormemente (-5,6 per cento della spesa pubblica) gli investimenti in istruzione. Così la qualità diffusa evapora, e i veri benestanti (chi se lo può permettere) andranno nelle private o all’estero. Con tanti saluti alla retorica su merito, mobilità, circolazione dei cervelli.Il prof. Giavazzi ci insegna che l’istruzione è uno dei fattori chiave di crescita strutturale con ricadute che vanno ben oltre i beneficiari (le esternalità di cui sopra). Si tratta, dunque, di un investimento che, come avviene in Germania e in tutta l’Europa continentale, non può essere lasciato solo al mercato.
“Siamo sicuri che questo paese davvero abbia bisogno di più laureati?”, si chiede Giavazzi. Parlano i dati: siamo uno dei paesi UE con la più bassa percentuale di laureati (circa il 21 per cento tra i 25/34enni, media Ue 32,5 per cento). Come ha notato Bersani, i nostri giovani si iscrivono sempre meno all’università (-10 per cento nell’ultimo anno). Il crepuscolo del diritto allo studio ha un’altra inevitabile conseguenza: solo il 9 per cento di figli di genitori non diplomati completa l’università (media Ocse 20 per cento, i principali paesi europei sono tra il 30 e il 40 per cento).
Allora, il nostro primo obiettivo è fermare la “fuga dall’università” che facilita la trasmissione ereditaria delle professioni, che rappresenta una delle principali cause della perdita di speranza nel futuro di alcune generazioni di giovani. È sorprendente che il prof. Giavazzi si affianchi alle campagne di disinformazione di quanti, negli ultimi dieci anni, hanno affermato – anche in documenti ufficiali del governo – che il problema italiano è “evitare che i diplomati si riversino nell’università”. Né voglio pensare che egli condivida la visione berlusconiana dei processi di innovazione nel settore manifatturiero: “per fare delle scarpe non occorre mica la laurea”.

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IL MODELLO EUROPEO DI BERSANI

Tutti gli argomenti legati a un migliore orientamento, a un potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (la cui istituzione si deve ai governi dell’Ulivo di cui anche Bersani faceva parte) e alla necessità di rendere più efficiente il nostro sistema universitario, dopo il chiaro fallimento della riforma Gelmini, potranno fondarsi solo sull’innalzamento del livello complessivo di istruzione, recuperando il nostro ritardo su tassi di dispersione scolastica e laureati.
Per questo motivo il PD guidato da Bersani sostiene un moderno modello europeo continentale (le proposte si trovano qui), radicalmente diverso dalla brutta copia di quello anglosassone.

* Marco Meloni è Responsabile Università e Ricerca Partito Democratico

Per saperne di più

Il documento completo con i dati si trova qui.

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