Non leuro in quanto tale, ma lincertezza e di conseguenza la maggiore attenzione prestata ai prezzi al dettaglio con lintroduzione della moneta unica. Sarebbe questa la spiegazione del fenomeno italiano di uninflazione percepita così distante da quella reale, ma anche del ristagno dei consumi nellintera Eurolandia. Perché uno studio recente suggerisce che più i consumatori sono attenti a quanto spendono, meno spendono. E i dati aggregati, gli unici finora disponibili, sono coerenti con questa lettura. Mai, nella storia dell’umanità, tanta attenzione è stata prestata al prezzo di un così modesto ortaggio: le zucchine. La verace casalinga di Voghera, l’attempato e stralunato accademico bolognese, l’implacabile segugio della carta stampata della Capitale si aggirano fra i banchi dei rispettivi mercati ortofrutticoli, pronti a gridare la propria indignazione se il prezzo delle zucchine sale oltre il tasso d’inflazione programmata. Prezzi degni di nota Finché la debole liretta riempiva le tasche dei consumatori italiani, il raccolto di zucchine poteva essere bruciato dalle peggiori gelate, divorato dalle più temibili locuste, e nessuno se ne curava, tranne ovviamente i produttori e quei rari gourmet che alla zucchine non potevano rinunciare a nessun costo. Oggi, con le tasche piene di monetine tintinnanti e di grande valore, i consumatori italiani sono facile preda di angoscia e turbamento quando il prezzo in euro delle zucchine sale. Dobbiamo rallegrarci di tanta attenzione ai prezzi al dettaglio? Dobbiamo lodare il ritorno alle antiche virtù del buon padre di famiglia, che facevano sì che il primo Presidente della Repubblica italiana annotasse minuziosamente tutte le spese del ménage familiare su appositi quadernetti? Dobbiamo biasimare quei distratti (magari anziani confusi, o giovani incoscienti) che si sono lasciati talvolta ingannare, e hanno pagato con un euro ciò che costava un tempo mille lire? La sorprendente risposta che la scienza economica ci fornisce è: no. Non tutta la scienza economica, naturalmente. Ma un interessante lavoro di tre economisti americani suggerisce un’inattesa relazione: tanto più i consumatori sono attenti a quanto spendono, tanto meno spendono.(1) E se non spendono, l’economia ristagna. Più attenzione, meno spese È chiaro quindi quel che potrebbe essere successo nell’intera Eurolandia se i nostri colleghi d’oltre oceano hanno visto giusto. Con l’arrivo della nuova moneta tutti, dalla massaia ellenica al coscienzioso maritino olandese, hanno prestato maggiore attenzione ai prezzi della merce offerta nei mercati, supermercati, negozi e shopping center. E questa maggiore attenzione ha prodotto l’effetto di un calo generalizzato negli acquisti. Non di eguale misura per tutti, però. Se la teoria è vera, il calo deve essere stato tanto più marcato quanto minore era l’abitudine a vedere prezzi espressi in valute diverse. Quindi, le classi colte abituate a viaggiare avranno quasi mantenuto le proprie abitudini di spesa, i clienti abituali dei mercati rionali, poco avvezzi a pensare in dollari, sterline e corone, avranno tagliato drasticamente le compere. In un linguaggio più tecnico Fin qui il tono dell’articolo è volutamente scherzoso, dato che sono stanco di pensare all’economia come alla “dismal science”, la scienza triste. Per chiarezza, esprimo rapidamente i concetti chiave in un linguaggio più consono all’argomento. 1) L’euro non ha generato inflazione (anzi: si veda su questo l’articolo di Ignazio Angeloni sul Sole 24 Ore del 5 febbraio 2004 dal titolo “L’Inflazione? L’euro non ha colpe”) 2) L’euro ha però generato incertezza sui prezzi (che ha dato luogo alla discrepanza fra inflazione effettiva e, in gergo politico-giornalistico, “inflazione percepita”) 3) A fronte dell’aumentata incertezza, i consumatori hanno ridotto la spesa 4) Le autorità di politica monetaria e fiscale non hanno considerato questo effetto del passaggio all’euro, e non lo hanno adeguatamente contrastato 5) Il modo migliore per far ripartire l’economia è di smetterla di parlare di prezzi e di euro (e pensare invece a spingere la domanda aggregata nei vari modi di cui si discute da tempo: investimenti in ricerca e infrastrutture, tassi d’interesse a breve più bassi, e così via). La rilevanza empirica dell’effetto della moneta unica sui consumi delle famiglie non è stata ancora studiata. In attesa di condurre un’analisi di questo tipo, è possibile utilizzare dati aggregati, confrontando consumi e redditi di Eurolandia e dell’intera Unione europea (che ha attualmente quindici paesi membri. Tre di questi, Danimarca, Svezia e Regno Unito, non hanno adottato l’euro. Negli altri l’euro è utilizzato come mezzo di pagamento dal 1 gennaio 2002.). Questo semplice esercizio non fornisce informazioni sulla precisione degli effetti stimati, e non consente di escludere che la diversa dinamica del consumo nelle due aree sia da attribuire ad altri fattori intervenuti nel periodo. Tuttavia, quanto trovato è coerente con la tesi esposta sopra. (1) “The absent-minded consumer” di John Ameriks, Andrew Caplin and John Lehay, Nber WP 10216, gennaio 2004 (http://www.nberg.org).
Se la domanda in Eurolandia ristagna, la colpa potrebbe essere davvero dell’euro, che ha trasformato tanti popoli di cicale (in marchi, franchi e lire) in un unico popolo di euroformiche. Inutile cercare la differenza fra inflazione effettiva e inflazione percepita scandagliando i prezzi delle singole merci o dei singoli dettaglianti: la percezione è dovuta soltanto alla maggiore attenzione oggi prestata a quello che tutti noi compriamo (quando compriamo!) nei negozi.
L’ideale sarebbe avere dati sull’incertezza percepita dalle famiglie in relazione all’introduzione dell’euro e sulla spese da queste effettivamente sostenute. Anche i dati dell’indagine Istat sui bilanci delle famiglie potrebbero essere usati, per controllare se i gruppi della popolazione che hanno maggiormente ridotto il consumo sono effettivamente quelli che hanno minor istruzione e abitudine ai viaggi.
Dati Ocse sui consumi delle famiglie europee (in termini reali) indicano che la crescita si è ridotta nel 2002, l’anno dell’introduzione dell’euro.
Questa riduzione è stata più marcata in Eurolandia. La crescita del consumo è stata inferiore dello 0,5per cento nel 2002 nei dodici paesi euro rispetto ai quindici dell’Unione europea. Negli anni precedenti la differenza oscillava fra lo 0,1 per cento e lo 0,2 per cento. Un aumento nella differenza si registra anche per il reddito aggregato reale, il Pil, ma molto meno marcata (circa lo 0,1 per cento).
Questo lavoro non si occupa direttamente dell’introduzione dell’euro, ma presenta un’analisi teorica ed empirica secondo la quale i consumatori che meglio conoscono quanto spendono finiscono con lo spendere meno.
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lo studente di voghera
Non credo sia un bene per il mondo accademico, soprattutto in questo momento, ridicolizzare le REALI difficolta’ delle famiglie italiane, parlando di “inflazione percepita”(siamo tutti visionari), di panieri ristretti, e adesso anche di zucchine.. Pare che il problema sia piuttosto quello dell’erosione costante del potere di acquisto delle famiglie, e dei salari (i piu’ bassi di europa, con il portogallo, come da inchiesta pubblicata su repubblica). Perche’ invece non si ammette che in Italia non ci sono dati sufficenti per fare ricerca empirica seria ? Io studio economia, ho una borsa di studio, e anche evitando le zucchine non me la passo troppo bene da un anno a questa parte.
La redazione
Il punto del mio contributo è esattamente che il disagio delle famiglie italiane (ed europee) è reale. Senza nulla togliere al calo del potere d’acquisto dei salari, che ovviamente deprime i consumi, c’è un fattore – legato all’introduzione dell’Euro – che può aver contribuito alla caduta della domanda da parte dei consumatori: la perdita della memoria storica dei prezzi, che costringe tutti noi ad una maggiore attenzione negli
acquisti. Da tempo gli economisti hanno individuato la rilevanza dell’incertezza su redditi e prezzi futuri per le decisioni di risparmio.
Quando questa incertezza investe anche i prezzi correnti, il consumo può risentirne in modo diretto.
Mi sembra che non ci sia niente di offensivo nell’interpretare il disagio dei consumatori anche in questo modo.
Quanto ai dati per la ricerca empirica, l’indagine sui redditi delle famiglie della Banca d’Italia (la cosidetta SHIW) è una miniera di informazioni utili, ma anche l’indagine sui bilanci delle famiglie dell’ Istat è interessante (con informazioni dettagliate ed attendibili sulle spese sostenute da un campione molto ampio di famiglie italiane). E mi sembra, ma posso sbagliarmi, che un po’ di analisi empirica seria usando
questi dati sia stata fatta in Italia negli ultimi anni.
Cordialmente
GW
Claudio Ambesi
Ma, se come si legge nell’articolo di Guglielmo Weber, i consumi sono calati in eurolandia, per la legge della domanda/offerta a fronte di un eccesso di offerta non dovrebbero calare anche i prezzi? A me sembra che ciò non sia proprio accaduto.
La redazione
In effetti, la tesi sostenuta nel mio articolo è che si parla troppo di euro-inflazione, troppo poco della contrazione dei consumi indotta (anche) dal cambio di valuta.
Il suo commento è tuttavia valido: se la domanda di beni di consumo da parte delle famiglie non fosse cresciuta così poco nel 2002 rispetto al 2001, la pressione inflazionistica in Eurolandia sarebbe stata più alta.
Cordialmente
studente disorientato cerca risposte
L’introduzione dell’euro ha causato una maggior attenzione sui prezzi. Una maggior attenzione causa una riduzione dei consumi. Siamo d’ accordo.
Ma perchè se diminuiscono i consumi e il Pil non cresce i prezzi aumentano quando dovrebbero diminuire? Proprio il suo ragionamento fa sorgere questa domanda. Lei che risposta si dà?
La redazione
La risposta che mi do è che se la domanda di beni di consumo da parte delle famiglie non fosse cresciuta così poco nel 2002 rispetto al 2001, la pressione inflazionistica in Eurolandia sarebbe stata più alta.
Resta da dire che:
1) l’aumento dei prezzi che abbiamo avuto nel 2002 è stato contenuto: l’inflazione in eurolandia era di circa il 2% (del 3% in Italia, ma ricordiamoci che ancora nel 1995 avevamo quasi il 6%!)
2) è probabile che l’aggiustamento dei prezzi (in mercati non perfettamente concorrenziali) sia asimmetrico – i prezzi fanno fatica a scendere più che a salire.
Grazie del suo commento e cordiali saluti
Riccardo Mariani
Questo articolo, come altri presenti nel sito, offre una valida difesa all euro. C è chi va oltre e sostiene che che la moneta unica, non solo non abbia colpe particolari ma stia adempiendo al meglio alla sua missione originaria. Si tratta paradossalmente di una pattuglia di ex euroscettici.
Costoro in pubblico e in nome dell ortodossia hanno condannato subito l euro: l assenza di una sana competizione monetaria riduce la sperimentazione e, quindi, l informazione. Per esempio che la politica della liretta non fosse il massimo l abbiamo capito perchè era possibile osservare l esito di politiche alternative tenute da altre banche centrali. E il motivo per cui oggi quel periodo lo si può difendere solo in nome di una nostra presunta specificità, argomento debole di fronte ad una massa di controprove. Circolava, però, tra questi puristi, anche un pensiero esoterico: l euro è un buon second best: con un banchiere centrale rigoroso addetto ai rubinetti del credito e incaricato di dare credibilità alla moneta che governa, finalmente, anche l Italia dovrà andare verso le riforme (per loro deregolamentazione, desindacalizzazione, abbatimento di tasse e spesa pubblica). Certo, condannare un paese alle riforme può essere pericoloso. Per esempio in questi giorni qualcuno ha evocato l Argentina pensando all Italia senza euro. Ma l euro è un talismano infallibile contro l effetto Argentina? L Argentina non è incappata nei suoi guai anche perchè non è stata all altezza di una moneta che aveva voluto rendere troppo affidabile. Forse si erano dimenticati di dirci che l euro è buna cosa poichè ci pone finalmente di fronte a delle scelte, ciò non significa che compiremo quelle giuste. L Argentina, per esempio, non le ha fatte.
L euro, dunque, ha raggiunto il suo obiettivo (subottimo), oggi a Francoforte siede un arcigno banchiere che ci ha sequestrato la macchina dell inflazione per vedere se sappiamo cavarcela anche senza. In più, leggo nell articolo, l euro è tra le concause della stagnazione (non che avessimo bisogno di questo ulteriore contributo). Ecco che la moneta ha adempiuto alla sua missione conducendoci davanti a scelte improrogabili.
Chi delude invece è chi si attarda in suppliche a Trichet affinchè riduca i tassi. Come dire: l euro non è stato causa di inflazione… quindi possiamo cominciare a renderlo tale. Così pure chi ritiene ancora che plitiche della domanda abbiano un valore strutturale. Queste ricette non mi convincono, sembrano rimasticature di vecchie soluzioni in stile liretta rese solo più presentabili. I fuochi di paglia meglio lasciarli ai politici in fase pre elettorale.
Cordiali saluti.
La redazione
Sono perplesso sulla prima parte del suo commento: non sono mai stato euro-scettico. Anzi.
In realtà come molti economisti pensavo che il passaggio all’Euro sarebbe stato quasi indolore per la maggioranza della popolazione, e ne vedevo quindi solo gli indubbi aspetti positivi. Evidentemente avevo sottovalutato l’oggettiva difficoltà a moltiplicare per 1937.26 (il mio euro-convertitore
si è rotto quasi subito!), e il senso di incertezza che ne deriva.
Quanto alle politiche di sostegno alla domanda aggregata, credo che uno shock di questa natura (che si somma agli altri shock negativi legati all’ 11 Settembre) giustifichi limitati interventi espansivi di politica fiscale o monetaria – che non sono naturalmente sostitutivi di interventi strutturali.
Cordialmente
franco
Suggestiva la tesi esposta, va bene l’aumento della concorrenza, ma noi consumatori dobbiamo fare tutti i giorni i conti con uno stipendio che non basta più. Allora si deve intervenire sul sostegno al consumo o in alternativa sbloccare l’accordo del 93 sul costo del lavoro e rischiare d’ iniziare un ciclo di vertenze salariali.
La redazione
Sono d’accordo con lei che il calo del potere d’acquisto dei
salari, e la mancata crescita della produttività del lavoro, sono adesso il problema
cordialmente
Giorgio Ponzetto
Non condivido le tesi esposte nell’articolo “i danni del teurorismo”:
1) l’euro non ha generato inflazione; questa affermazione è vera solo in teoria nel senso che il passaggio dalla lira all euro, se correttamente realizzato non avrebbe dovuto produrre inflazione, ma contrasta con la realtà che è nell’esperienza quotidiana di tutti. l’introduzione dell’euro in Italia è stata l’occasione per una gigantesca operazione speculativa realizzata attraverso l’ingiustificato aumento dei prezzi dei beni e dei servizi a più larga diffusione, anche in quei settori come i servizi alla ristorazione ed ai beni alimentari dove, in teoria, la forte concorrenza avrebbe dovuto tener bassi i prezzi.
2) l’euro ha però generato incertezza sui prezzi: non mi pare che questo sia stato il problema diffuso fra i consumatori i quali hanno al contrario avuto una precisa certezza e cioè che per molti beni l’introdizione dell’euro abbia fornito l’occasione per aumenti ingiustificati dei prezzi.
3) a fronte dell’aumentata incertezza, i consumatori hanno ridotto la spesa: i consumi si sono ridotti non per l’incertezza sui prezzi ma per la constatazione che gli stessi erano aumentati, mentre le disponibilità reali dei soggetti (soprattutto a reddito fisso) diminuivano.
4) le autorità di politica monetaria non hanno suffcientemente contrastato questa presunta incertezza; quello che le autorità non hanno saputo contrastare (e non ci hanno nenache provato) è stata la colossale speculazione avviata da molti operatori in occasione del passaggio all’euro. sarebbe stato necessario un periodo più lungo del regime dei doppi prezzi, una maggiore informazione ai consumatori sui costi alla produzione, interventi strutturali per ridurre i troppi passaggi nella catena distributiva e relativi ricarichi, controli fiscali
5) non parlare più di euro e di prezzi per far ripartire la domanda: il problema è esattamente l’opposto, se non si riesce a contrastare l’aumento dei prezzi, soprattutto quelli dei beni e dei servizi di più largo consumo, è inutile illudersi di far ripartire la domanda. è necessario quindi che di prezzi si continui a parlare e soprattutto che gli economisti indichino ai politici gli interventi per tenerli sotto controllo e ne sollecitino l’attuazione.
La redazione
La ringrazio per il suo commento, che esprime con efficacia un punto di vista spesso riportato su giornali e televisioni, almeno a partire dalle prime indagini Eurispes sull’inflazione percepita dai consumatori. Non entro nel merito su come si debba misurare l’inflazione (lo ha fatto molto bene Luigi Guiso su questo sito). Ma le propongo questo ragionamento:
supponiamo che l’inflazione nel 2002 non sia stata del 3% circa, come sostiene l’ISTAT, ma del 10% o più, come sembrano pensare molti. Noi sappiamo che la spesa delle famiglie italiane è cresciuta nel 2002 del 3.4% (e questo è un dato calcolato con metodi diversi, non dipende da come viene
rilevata l’inflazione). Secondo le stime dell’ISTAT, i consumi delle famiglie (la spesa a prezzi costanti) sono quindi cresciuti dello 0.4% – poco, molto poco, ma in linea con un quadro economico generale di crescita nulla o molto modesta. Se veramente l’inflazione fosse stata del 10%, i consumi delle famiglie si sarebbero ridotti del 6.6%, un calo enorme, mai verificatosi nel nostro paese dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Dato che il quadro dell’andamento dell’economia italiana non è coerente con una depressione di queste dimensioni, bisogna concludere che le stime dell’inflazione strillate sui giornali non sono attendibili. Dato però che c’è un disagio molto diffuso da parte delle famiglie, occorre interrogarsi sui motivi. Luigi Guiso e Riccardo Faini ne discutono alcuni, molto plausibili, su questo sito, che hanno a che fare anche con la caduta dei salari reali
(a prezzi costanti) già documentata da Boeri e Garibaldi. Io mi sono permesso di proporne un altro che mi sembra potenzialmente interessante, e che potrebbe spiegare perché nel 2002 l’intera Eurolandia abbia subito una battuta d’arresto. I dati OCSE per il 2003 non sono ancora disponibili, ma mi aspetto che i diversi paesi abbiano reagito in modo diverso a questo shock negativo (sappiamo già che per l’economia italiana il 2003 non è stato positivo). Un’ultima osservazione: per quanto ne so, non solo in Italia, ma anche
nei Paesi Bassi, Germania e Spagna il passaggio all’Euro è stato accusato pubblicamente di aver causato inflazione. In Germania ci sono persone che tuttora si lamentano che i
commercianti hanno usato il tasso di cambio 1 Euro =1 Marco (simile a 1 Euro = 1000 lire). Quanto di questo è vero, e quanto invece riflette difficoltà nel comparare i prezzi espressi in diverse valute? Cordialmente
Alex Zoppi
Da profano quale sono vorrei farle una domanda.
Il nostro ministro dell’economia continua ad insistere sull’euro di carta: secondo lui una bella banconota da un euro ci avrebbe reso tutti più consapevoli del valore del denaro, mentre tutte queste “monetine” ci ha fatto diventare tutti spendaccioni dalle mani bucate.
Questa cosiderazione (italiani distratti) mi sembra nettamente in contrasto con quanto da lei affermato (italiani più attenti); non è comunque un delitto pensarla diversamnete da un ministro
Ma la domanda che volevo farle è un’altra: dato che i consumi sono stagnanti, se fosse vero ciò che dice il ministro l’euro di carta li avrebbe portati addirittura in negativo, spingendoci verso la depressione!
Ma allora viva le monetine! O no?
Cordialmene, Alex Zoppi
La redazione
Grazie del suo stimolante commento.
Se quanto sostengo è vero, tutto quello che contribuisce a tranquillizzare i consumatori ha un effetto positivo sul consumo (il consumatore tranquillo si può permettere di essere meno attento). Immagino che sia questo il senso
di mandare la Guardia di Finanza nei negozi (o la Polizia Annonaria).
Quanto all’euro di carta, non so che dire. I consumatori italiani sarebbero tranquillizzati dall’uso di banconote da circa 2000 lire, o sarebbero ancor più confusi dall’ulteriore cambiamento? Io non ne ho idea – forse il ministro Tremonti ha a disposizione informazioni da sondaggi di opinione.
Noto però che è (per quanto ne so) il solo ministro europeo a propugnare questo cambiamento (a distanza di due anni dall’introduzione dell’euro!), e che siamo ormai in campagna elettorale.
Antonio Cusano
A mio avviso il disagio attualmente avvertito dai cittadini nel far fronte al “carovita”, è da imputare a due semplici ragioni: la prima (durante l’introduzione dell’Euro) che per i “salari” si è semplicemente fatta un’operazione matematica, (cioè la riconversione delle lire in euro), mentre (la seconda ragione) per i “prezzi” e “servizi” (pubblici e privati) una vera e propria operazione finanziaria tesa a ripianare i bilanci aziendali approfittando di un’unica e irripetibile occasione. Che poi l’inflazione in Italia non s’impenna la causa è da attribuire semplicemente al “dollaro debole”. Si sa, noi italiani, ma anche Eurolandia, paghiamo in dollari (e non in euro) tutti i prodotti d’importazione soprattutto quelli che incidono di più sulla nostra economia: i prodotti petroliferi. Grazie e cordialità a tutti.
Franco
A proposito di aumenti indiscriminati dei prezzi dei beni e dei servizi con l’entrata dell’euro mi sembra che il cattivo esempio sia stato dato dal governo che ha immediatamente portato la giocata minima del lotto da 1000 lire ad 1 euro. E’solo un esempio (come le commissioni postali, le spese bancarie ecc.) che vanifica a mio avviso le accuse di Tremonti a Prodi. Lo stesso Tremonti parla di euro malfatto. Che significa? Ci dimentichiamo che il tasso di conversione doveva tenere conto della situazione economica italiana dell’epoca e che l’allora ministro Ciampi non credo che potesse agire diversamente.
La redazione
Grazie del commento. Non so cosa abbia in mente il Ministro Tremonti quando parla di “Euro malfatto” e ne attribuisce la responsabilità a Prodi. La banconota da un euro avrebbe richiesto una decisione a livello comunitario, così come l’adozione di parità di cambio diverse. Immagino che uno fra i governi Prodi, D’Alema, Amato e Berlusconi avrebbero potuto togliere dalla circolazione le banconote da 1000, 2000 e 5000 lire, e sostituirle con monete di egual valore, per abituare gli Italiani a non trattare le monete come spiccioli. Ma un’operazione di questo tipo sarebbe stata onerosa, tecnicamente difficile (solo la moneta da 1000 lire esisteva già) e di incerta efficacia. La vera difficoltà dell’introduzione dell’Euro è infatti legata, a mio giudizio, ad interpretare prezzi espressi in un’altra valuta.
alessandro
A rischio di essere frivolo, ricordo che le venti lire (monetina dorata con fregio laurino) erano ritenute un portafortuna, e spesso tesaurizzate (vivo in una media città del Nord). Quando spese, garantivano una certa popolarità presso il dettagliante. Niente di paragonabile coi centesimi di oggi; cercarli in taccuino espone a brutte figure. Forse, al ministro dell’Economia la carta-moneta virtuale da 1 Euro evoca il viso rassicurante della vecchia 1000 lire-Montessori (che tutto e tutti perdona); si rassegni. In Gran Bretagna, manca proprio la banconota da una sterlina, e pare non siano affetti da impoverimento progressivo come noi; anzi.
Vorrei invece chiedere se c’è stata, effettivamente, un’asimmetria tra italiani e altri membri dell’UE area Euro, visto che noi partivano dal massimo frazionamento del valore della moneta tra i vari partners. Se così fosse, avremmo rinunciato, oltre che a molti zeri, anche al vantaggio di saper contare e tener bene a mente i numeri, a beneficio dei contraenti forti (siano essi dettaglianti, grossisti, produttori, fissatori di tariffe ecc. ecc.)
grazie
La redazione
Grazie per la sua osservazione. I dati che ho analizzato non mostrano (per il 2002) grandi differenze fra Italia ed altri paesi di Eurolandia.
Tuttavia lei ha ragione: per i consumatori italiani il passaggio ha richiesto anche di tornare a pensare coi centesimi, una piccola complicazione in più. Che dovrebbe avere avuto effetti più rilevanti sulle piccole spese quotidiane (e quindi su quanti tendono a fare la spesa tutti i giorni piuttosto che una volta alla settimana).
gianni arca
Laltra sera sono andato in ristorante con la mia ragazza e tra le altre cose ciascuno ha preso una porzione di spaghetti ai ricci per complessive 24,00 e mentre pagavo i nostri primi, il nostro antipasto variegato e il nostro vino di qualità medio-bassa (totale 68,00), mi veniva da pensare: che fregatura questeuro, ti fa percepire aumenti che non esistono. Anche quando vado in qualsiasi pizzeria capita la stessa cosa mi sembra di ricordare che una margherita a dicembre 2001 la pagassi £. 6000 anziché 5,00. Anche quando trascorro una notte in un modesto pub, sembra che tutto sia aumentato del 100%. Oppure quando vado in un qualsiasi negozio di abbigliamento, durante il periodo dei saldi sembra che i prezzi siano gli stessi di quando in lire attendevano di essere scontati. E proprio una fregatura questeuro. Bisognerebbe preoccuparsi dei suoi danni psicologici piuttosto che delle presunte speculazioni. Anche se è sufficiente essere consapevoli che si tratta di una percezione errata. Io sono uno consapevole, mi viene giusto il dubbio iniziale ma poi ritorno sui miei passi. E non bastano neppure gli scontrini del 2001 che ogni tanto mia madre tira fuori da qualche cassetto. Perché è chiaro che la passata di pomodoro o i gamberi argentini aumentati del 100% non possono rappresentare che delle eccezioni. Ma allora lei ribatte subito con frutta e ortaggi e non cè verso di farle capire che in questo caso è tutta colpa del clima.
E poi del resto, dice lei per concludere, con le lire ogni mese si metteva da parte qualcosa, con leuro si risparmia negativamente e si offende quando le dico che è dovuto al fatto che i prodotti che non era disposta ad acquistare ad es. con £. 100 mila ora è disposta ad acquistarli con 50,00, perché le sembra di non spendere poi così tanto.
E proprio dura da far capire!
Cordialmente
Gianni Arca, Sassari, 11 marzo 2004
La redazione
Grazie del suo garbato commento – a volte confesso di essere tentato di darle ragione.
Tuttavia mi conforta leggere l’intervento di Ugo Trivellato su questo sito, e soprattutto il file scaricabile su “Come si misura l’inflazione”, da cui risulta che ci sono state (almeno a Firenze, dove è stata condotta un’indagine approfondita) nel 2002 importanti differenze fra piccola e grande distribuzione: la pizzeria, il negozio di alimentari hanno aumentato
di più; i centri commerciali, gli hard discount molto meno. E così tutto torna: la percezione è evidentemente basata proprio sui prezzi dei piccoli commercianti, e su quei beni (come gli alimentari) per cui si sono registrati i maggiori aumenti. Ma a forza di parlare di prezzi, mi sta passando la voglia di fare acquisti …