Le aree più deboli del paese si sviluppano, ma il loro è uno sviluppo “frenato”. Perché le politiche territoriali non sono ancora riuscite a innescare un circuito virtuoso di crescita endogena. I motivi sono politici più che tecnici. Non c’è consenso infatti nel considerare le politiche di sviluppo territoriale come un tassello essenziale del rilancio dell’intero paese. Sono forti invece le tentazioni per un ritorno ai trasferimenti a imprese e cittadini, elettoralmente più paganti. Mentre la riforma costituzionale del 2001 ha contribuito a ridurre le risorse.

Il rinnovato interesse dell’Ocse per le questioni dello sviluppo territoriale, e il dibattito europeo sulle nuove prospettive di bilancio con le connesse proposte per le politiche di coesione (1), hanno rilanciato gli interrogativi sul se e sul come i bilanci pubblici debbano destinare risorse alle politiche di sviluppo regionale.
È, per ovvi motivi, una discussione fondamentale per l’Italia.

Due visioni sulle politiche territoriali

Quanto al se, sono pochi gli economisti e i politici che ritengono che sia opportuno lasciare le questioni dello sviluppo territoriale alla sola azione dei mercati. Piuttosto, la divisione è un’altra.
Da un lato, quanti ritengono che le politiche territoriali siano altro rispetto a quelle per la crescita; abbiano motivazioni prettamente politiche e debbano quindi mirare principalmente a compensare le regioni deboli e i loro cittadini per le loro sventure.
Dall’altro, quanti pensano che le politiche territoriali altro non debbano essere che la declinazione e concentrazione spaziale di più generali politiche per la crescita, azioni strutturali per accrescere occupazione e produttività e quindi la “competitività”.

La differenza ha implicazioni fondamentali sulle modalità di intervento.
Se le politiche sono compensative, non possono che prevedere trasferimenti ai cittadini e incentivi alle imprese per ridurne difficoltà e diseconomie; spese tendenzialmente permanenti, che rappresentano il costo politico della coesione.
Se le politiche sono “per la competitività” non possono che mirare ai contesti: costruire istituzioni, potenziare le dotazioni di infrastrutture materiali e immateriali, aumentare la qualità del capitale umano, diffondere tecnologie.
Le prime sono semplici, ed elettoralmente paganti. Le seconde sono assai difficili e di lungo periodo; a breve termine, portano pochi voti. All’atto pratico, ci possono naturalmente essere mix delle due tipologie.
Ma ciò che conta è che una prevalga sull’altra.

In Italia abbiamo una tradizione diversificata. Per semplificare: abbiamo avuto una lunga fase quasi del secondo tipo (fino ai primi anni Settanta); una ancor più lunga fase del primo tipo, con massicci interventi compensativi e redistributivi. La svolta del 1992 l’ha conclusa e ha aperto un periodo di sostanziale assenza di politiche (1992-95) e di grande incertezza.
Con la gestione Ciampi-Barca al Tesoro, c’è stata infine un’esplicita scelta per politiche per la crescita, che si è cominciata a tradurre in azioni concrete. Ma nell’ultimo biennio del centrosinistra quella scelta è stata rimessa in discussione.
Poi, con il cambio di Governo, il quadro è divenuto ancora più confuso: mancanza di qualsiasi scelta esplicita; subordinazione delle politiche territoriali alla “finanza creativa”; eppure, prosecuzione di molte delle azioni concrete progettate anni prima.

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Il bilancio del Rapporto

Il bilancio di tutti questi anni è onestamente raccontato nelle molte pagine del Rapporto annuale 2003 del Dipartimento per le politiche di sviluppo del Mef, da poco pubblicato. (2)

Che cosa ne emerge? Risultati contrastati, sintetizzati con la considerazione che c’è crescita nelle aree più deboli del paese, ma questa crescita è “frenata”. Alcune delle azioni di politica economica messe in atto funzionano, e cominciano a produrre i primi risultati (fra cui, importanti, i processi di modernizzazione delle amministrazioni regionali). Altre funzionano meno, e non danno risultati.
Il punto è che complessivamente le politiche non hanno ancora indotto quei cambiamenti tangibili nei contesti, nelle istituzioni, nella qualità della vita tali da determinare a loro volta un cambiamento nelle aspettative e nei comportamenti degli operatori (interni ed esterni a quelle aree), e tali dunque da innescare un circuito virtuoso di “crescita endogena”.
Perché?
Tre sembrano i principali problemi, tutti di natura assai più politica che tecnica.

Il primo è che, ovviamente, politiche di sviluppo territoriali non possono avere alcun successo se non in un quadro di coerenti politiche per la crescita nazionali.
Da questo punto di vista, come molti interventi su
www.lavoce.info hanno sottolineato, l’intero paese appare incapace di affrontare una crisi strutturale di competitività, attraverso incisive politiche di ridisegno dell’intervento pubblico, di rafforzamento delle reti infrastrutturali, di potenziamento del capitale umano e della ricerca. Come pensare che ciò che non accade in Lombardia possa accadere in Calabria?

Il secondo è che con la riforma costituzionale del 2001 l’Italia ha intrapreso un percorso oscuro e incerto verso nuovi assetti di governo. Lungi dal definire una visione condivisa di regole e responsabilità, di prelievo e di spesa in tutto il paese, il processo “federalista” in corso sta determinando una balcanizzazione e una frammentazione delle politiche.
Da un lato, ciò si traduce in comportamenti indipendenti di alcuni operatori pubblici (il Rapporto documenta bene come le Fs non abbiano effettuato negli ultimi anni alcun intervento rilevante sulle reti ferroviarie al Sud, esclusa l’alta velocità a Napoli).
Dall’altro, comporta tagli alla spesa ordinaria, specie per investimento, degli enti locali. L’obiettivo, enunciato dai Governi di centrosinistra e centrodestra, di destinare il 45 per cento della spesa in conto capitale al Mezzogiorno (inclusa tutta quella “aggiuntiva”) è stato clamorosamente mancato (siamo al 38 per cento). Le risorse “aggiuntive” sostituiscono le ordinarie. Abbiamo imparato dalla storia degli anni Ottanta che le risorse pubbliche possono essere controproducenti. Ma una politica di rafforzamento dei contesti senza risorse, semplicemente non si fa.

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Il terzo è che non c’è forte consenso politico dietro questa strategia; nel considerare cioè le politiche per lo sviluppo territoriale un tassello essenziale delle politiche di crescita dell’Italia. Al contrario, vi sono tentazioni a tornare verso trasferimenti a imprese ed elettori (per quanto assai più limitati che in passato). Questo accade, è sotto gli occhi di tutti, nella maggioranza, influenzata anche dalle pulsioni leghiste. Ma accade altrettanto nelle forze di opposizione, tatticamente pronte a contestare singoli interventi, attente a rivendicare incentivi e sgravi, crediti di imposta tanto costosi e pericolosi quanto elettoralmente paganti (3), ma non pronte a includere moderne politiche territoriali fra le possibili priorità di Governo.

Se non si commette l’errore di chiamare tutto ciò “politiche per il Mezzogiorno”, ci si accorge che si tratta di un tassello essenziale nelle difficili politiche di rilancio dell’intero sistema-paese, su cui vale la pena di discutere a fondo.


(1)
Si veda Unione europea, DG Regio, Third Report on Economic and Social Cohesion, http://europa.eu.int/comm/regional_policy/sources/docoffic/official/reports/cohesion3/cohesion3_en.htm

(2)
Si veda
www.tesoro.it/dps.

(3) A riguardo condivido in toto l’analisi di Carlo Triglia contenuta nel volume collettaneo “L’opposizione al governo Berlusconi” (a cura di F. Tuccari, Laterza, gennaio 2004)

 

 

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