Il nuovo regolamento comunitario sulle fusioni tra imprese interviene su questioni importanti come la giurisdizione, i tempi delle procedure e i poteri di indagine della Commissione. Soprattutto, ridefinisce i criteri di ammissibilità, sulla falsariga di quelli americani. Si tratta di una riforma profonda e le incertezze applicative che ne deriveranno dovranno essere risolte in modo da favorire la capacità delle aziende europee di competere sui mercati internazionali e dunque il superamento del nanismo industriale che ancora caratterizza molti settori.

Lo scorso 20 gennaio il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo regolamento comunitario sulle fusioni tra imprese (regolamento Ce n. 139/2004, che dall’1/1/2004 sostituisce il regolamento 4064/89).

A una crescente integrazione dei mercati, ha corrisposto un forte aumento delle operazioni di concentrazione a livello europeo. Dunque, la politica di controllo sulle fusioni non solo ha assunto un ruolo centrale nell’ambito della politica della concorrenza, ma ha fatto di questa una delle aree di azione più importanti dell’Unione europea, in grado di influire in profondità sulla struttura dei mercati. Al tempo stesso l’inadeguatezza, sia dal punto di vista regolamentare che da quello organizzativo, degli strumenti oggi utilizzati è stata evidenziata da vicende dagli esiti eclatanti, come quelle che nel 2002 hanno portato la Corte di giustizia a sconfessare le tre decisioni con le quali Bruxelles aveva sbarrato la strada alle fusioni tra Airtours e First Choice, tra Schneider e Legrand, e tra Tetra Laval e Sidel.

Le novità

Vediamo le principali novità del nuovo regolamento sulle concentrazioni:
I tempi della procedura divengono più flessibili. Se attualmente la prima fase deve concludersi entro un mese dalla notifica del progetto di fusione, con possibilità di estensione a sei settimane in certe ipotesi, con le nuove norme il limite diventa di venticinque giorni lavorativi estensibili a trentacinque.
Ma è nella seconda fase (indagine approfondita; solo eventuale) che si hanno i cambiamenti di maggior rilievo: dagli attuali quattro mesi non prolungabili si passa a novanta giorni lavorativi estensibili, a certe condizioni, fino a centoventicinque.

Un secondo elemento riguarda la delimitazione delle giurisdizioni tra Commissione europea e autorità nazionali. Attualmente è affidata a un complesso sistema di soglie di fatturato descritto all’articolo 1 del regolamento, superate le quali una operazione di concentrazione è senz’altro sottratta all’esame delle autorità nazionali per essere vagliata a Bruxelles.
Fino a oggi questo è stato il vero tallone d’Achille del regolamento. Con la crescita del numero delle operazioni, queste soglie si sono sempre più dimostrate inadeguate a “catturare” molte fusioni che avrebbero invece dimensione comunitaria. Ne è derivato un forte aumento dei casi di “notificazione multipla“: le parti non potendo rivolgersi alla Commissione, sono costrette a notificare l’operazione di fusione a più autorità nazionali e a sobbarcarsi i relativi oneri e le relative incertezze.

Un fenomeno, questo, che è evidentemente incompatibile con quel principio dell’one stop shop che è alla base del regolamento comunitario.
Come risolvere tale situazione, destinata ad aggravarsi con l’allargamento?
Il nuovo regolamento percorre la via di un più ampio utilizzo del sistema dei rinvii dei casi dall’autorità comunitaria a quella nazionale (articolo 9) e viceversa (articolo 22). Il sistema viene inoltre reso attivabile anche nella fase precedente alla notifica su iniziativa delle parti notificanti.
I poteri di indagine della Commissione vengono fortemente aumentati, e allineati di fatto con quelli già riconosciutegli dal nuovo regolamento sulle intese. In particolare, la Commissione potrà obbligare qualunque dipendente di un’impresa a fornire informazioni, apporre sigilli su tutti i locali, libri e documenti aziendali per la durata dell’ispezione.
L’innovazione di maggior peso è senz’altro rappresentata dalla modifica del cosiddetto “criterio sostanziale” in base al quale la Commissione valuta la compatibilità con il mercato interno, e dunque l’ammissibilità della fusione.

Attualmente il criterio utilizzato è quello della posizione dominante, contenuto nell’articolo 2.
Il nuovo regolamento indica come non compatibili con il mercato comune “le concentrazioni che ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva (significantly impede an effective competition) nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante”.
È una riformulazione che di fatto sembra segnare il passaggio al criterio utilizzato negli Usa (oltre che in alcuni Stati membri, come Gran Bretagna e Irlanda) della diminuzione sostanziale della concorrenza (substantial lessening of competition – Slc), riducendo il test della dominanza a una mera specificazione di questo.

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I pro e i contro della svolta

La riforma del regolamento 4064/89 intende dunque rappresentare un punto di svolta nella politica di controllo delle fusioni e una risposta alle sfide e ai problemi emersi in questi anni.
In che misura riuscirà a esserlo effettivamente, è però difficile dirlo e le nuove norme non mancano di sollevare dubbi.
I cardini del regolamento fusioni sono due: la certezza e la rapidità dei tempi della procedura e il cosiddetto “sportello unico” (one stop shop).
Quanto al primo, il vecchio regolamento ha avuto il pregio di offrire alle imprese tempi certi e prevedibili. La maggiore flessibilità si realizza a spese di tale pregio: a certe condizioni (che è ragionevole non ritenere affatto infrequenti), la procedura può arrivare a durare fino a centoventicinque giorni lavorativi. A questo occorre aggiungere la fase precedente alla notifica che con il nuovo regolamento diviene a pieno titolo parte integrante della procedura.
La soluzione adottata dal nuovo regolamento, incentrata sulla razionalizzazione del sistema dei rinvii tra giurisdizioni, confida sul fatto che queste coordinino continuativamente le proprie attività, consultandosi e scambiandosi informazioni, per assicurare che ogni caso sia da subito trattato dall’autorità più appropriata ed evitare il più possibile i costosi rinvii post-notificazione.
Vero è che la Commissione ha recentemente promosso la costituzione dell’European Competition Network, ma è difficile prevedere se e quando tale iniziativa produrrà i risultati sperati.

Purtroppo, per non erodere il ruolo delle autorità antitrust nazionali, si è persa l’occasione per adottare quella che era apparsa la soluzione ottimale alla Commissione (che poi ha però fatto marcia indietro), al Parlamento europeo, e alle imprese: l’attribuzione “automatica” della competenza alla Commissione ogni qual volta una fusione chiami in causa il controllo delle autorità nazionali in un numero minimo di Stati membri (la Commissione ipotizzava tre, il Parlamento due).
Una soluzione certo non immune da qualche difficoltà applicativa, ma capace di assicurare certezza giuridica e semplicità (del “tre +” inizialmente proposto resta un piccola traccia all’articolo 4 del nuovo regolamento, nella fase di pre-notifica).

Anche il nuovo criterio non mancherà di generare incertezze e problemi applicativi.
Nel preparare la propria proposta, la Commissione era stata molto prudente e aveva proposto non il superamento del criterio della posizione dominante, ma una sua riformulazione tesa a eliminare ogni dubbio sulla sua applicabilità anche ai casi di concentrazioni in mercati oligopolistici che determinino effetti anticompetitivi pur in assenza di comportamenti collusivi.
Il Consiglio ha tuttavia ritenuto non soddisfacente tale riformulazione (effettivamente incerta): ha preferito “saltare il fosso” e adottare un criterio che appare del tutto sovrapponibile a quello utilizzato oltre Atlantico (Slc). Questa scelta preoccupa non poco le imprese che temono che il nuovo criterio segni un ampliamento del potere di interdizione di Bruxelles, i cui limiti diverrebbero inoltre meno netti.

Di certo, per la applicazione del nuovo criterio non si potrà più beneficiare di una giurisprudenza consolidata, cosa che produrrà un periodo di maggiore incertezza giuridica. In ogni caso, l’allarme lanciato dalle imprese va considerato con estrema attenzione per evitare che la politica sulle fusioni della Commissione sia volta più a tutelare dalla concorrenza le imprese che già operano in un settore, che non a tutelare il mercato e la concorrenza in favore dei consumatori.
Serie perplessità suscita invece il rafforzamento dei poteri di indagine della Commissione. Questi vengono allineati a quelli di cui essa già dispone per la lotta ai cartelli e alle intese anticoncorrenziali. Tuttavia cartelli e intese sono di norma fattispecie illecite, mentre le fusioni sono “business as usual” e presumibilmente lecite. Un allineamento che appare dunque poco comprensibile e che rischia di creare un clima di criminalizzazione delle fusioni.

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Le molte incertezze che verranno

Le soluzioni adottate da questa profonda riforma, per quando razionali, hanno la pecca di poter funzionare in un contesto che oggi non esiste – in termini di organizzazione interna e di strumenti della Commissione, di coordinamento tra autorità, di evoluzione giurisprudenziale.
E dunque si apre un periodo di incertezza, malgrado gli sforzi della Commissione che cerca di attrezzarsi al meglio: la riforma del regolamento fusioni è in realtà parte di un più ampio progetto di riforma della politica della concorrenza, che al capitolo “fusioni” include almeno altre due importanti novità: l’introduzione della figura del chief economist e la ristrutturazione complessiva della Dg Concorrenza, in particolare attraverso lo smembramento della Merger Task Force (Mtf).
La creazione della figura del chief economist, sotto la direzione del quale opererà un team di economisti, risponde all’esigenza di effettuare analisi economiche più approfondite sugli effetti di una concentrazione sulla struttura di un mercato. Obiettivo condivisibile purché le valutazioni di carattere economico rimangano complementari a quelle giuridiche, e non rappresentino una valutazione ex-ante sull’opportunità di un’operazione sotto il profilo economico.
La figura dell’economista capo dovrebbe anche aiutare la Commissione a tener conto di considerazioni di efficienza nel valutare una fusione. Come indicato nel considerando 29 del nuovo regolamento “è opportuno tener conto di qualsiasi documentato e probabile guadagno di efficienza addotto dalle imprese interessate. È possibile che l’incremento di efficienza prodotto dalla concentrazione compensi gli effetti sulla concorrenza (…)”.
Il fatto che tali valutazioni di efficienza siano esplicitamente previste può essere considerata come una piccola vittoria delle imprese, che molta pressione avevano fatto in questo senso.

In realtà, si tratta di un’arma a doppio taglio poiché vi è anche il rischio che la Commissione possa applicare in modo troppo estensivo il concetto di efficiency offence, che porta a giudicare negativamente una concentrazione in considerazione dei danni potenziali, per concorrenti e consumatori, derivanti da guadagni di efficienza giudicati “eccessivi”.
Lo scioglimento della Merger Task Force (Mtf), il tanto potente e temuto quanto discusso team di funzionari incaricato di esaminare le operazioni di fusione, fa seguito alle pesanti critiche piovute sulla Commissione dopo che questa è stata sconfessata dal Tribunale di primo grado.

Secondo Mario Monti, l’intenzione è “far sì che la competenza e la professionalità della Mtf divengano patrimonio anche delle altre direzioni”. Tuttavia, sono in molti a ritenere che il commissario abbia colto l’occasione per vincere le resistenze interne e ridimensionare una struttura che era divenuta troppo potente (verrà conservata una Mtf di dimensioni ridotte, con mere funzioni di coordinamento).
I prossimi mesi e anni saranno cruciali per l’attuazione di questo vasto programma di riforme normative e organizzative. Avverranno in un contesto economico che, anche sulla spinta dell’allargamento e di una auspicabile intensificazione dell’integrazione delle economie a livello internazionale, richiederà forti ristrutturazioni produttive.
È necessario dunque che le politiche che verranno forgiate assecondino tali processi, evitando al tempo stesso il rischio che possano risultare pregiudizialmente ostili allo sviluppo, anche dimensionale, delle imprese.
Senza nulla togliere al sistema delle piccole e medie imprese, il rafforzamento della capacità delle aziende europee di competere sui mercati internazionali passa anche per il superamento di quel nanismo industriale che, in molti settori, finisce per essere il principale handicap.

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