Così come l’abbiamo sperimentato per quasi mezzo secolo, paritario e indifferenziato, il sistema delle due Camere non ha probabilmente più motivo di esistere. Ma non era privo di senso e non ha funzionato male. Il Senato federale, come proposto dalla riforma costituzionale, potrebbe invece ostacolare la capacità decisionale del Governo, che altri interventi puntano a rafforzare. Una contraddizione di cui essere consapevoli, anche se le due logiche non sono incompatibili.

C’è qualcosa che lascia perplessi nella riforma del “Senato federale“. Tutti d’accordo, maggioranza e opposizione, che l’attuale bicameralismo simmetrico e omogeneo non funzioni e che debba prevedere una seconda Camera di rappresentanza delle Regioni
Sul come, le idee variano di parecchio (vedi Bordignon-Brosio).

Com’era e come sarà

Incominciamo dal principio. Anche nella prima Repubblica, il Senato era stato ipocritamente disegnato per rappresentare più da vicino le differenziazioni territoriali locali. Era infatti eletto con un sistema maggioritario in una pluralità di collegi uninominali: non era però sufficiente conquistare la maggioranza relativa dei votanti, bensì si richiedeva il superamento, nel collegio, di una soglia del 65 per cento. Maggioritario e attenzione alle istanze territoriali soltanto sulla carta, dunque, giacché solo un paio di anomali collegi riuscivano in tale impresa, mentre la stragrande maggioranza dei voti finiva nel calderone nazionale dei resti e quindi il sistema era ancora più proporzionale e centralizzato di quello per la Camera dei deputati.
Veniva così assicurato che le due Camere fossero di composizione politica sostanzialmente simile.
Mutatis mutandis, anche le nuove leggi elettorali post-referendarie hanno ottenuto lo stesso effetto, producendo qualche scostamento nei margini a disposizione del Governo nelle due Camere, ma non differenze ampie.

Tempi lunghi, non necessariamente un difetto

Un bicameralismo simmetrico e omogeneo così congegnato può certo avere mille difetti, ma non è detto che sia del tutto privo di senso.
Innanzitutto, il bicameralismo simmetrico nei poteri e indifferenziato nelle maggioranze non è del tutto inutile (tanto è vero che lo si ritrova anche in altri sistemi quali quello belga, giapponese e olandese). Il passaggio obbligato di una legge nella medesima versione in entrambe le Camere, offre il tempo per opportuni o strategici ripensamenti. Tra i casi recenti più clamorosi, la legge sul conflitto d’interessi (poi non approvata) e quella costituzionale sul federalismo del Governo di centro-sinistra.
Insomma, il tempo non è inutile. Permette la riflessione: per quale altro motivo le leggi costituzionali necessiterebbero di un doppio passaggio nella medesima Camera a distanza di tempo, se non per questo?
In secondo luogo, anche se lo si considerasse tale, il tempo perso non è poi così tanto. Ciascuna Camera anticipa e interiorizza buona parte delle potenziali obiezioni provenienti dall’istituzione omologa, producendo già un testo di mediazione sui punti controversi.

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Anche in sistemi non simmetrici e non omogenei, come a Westminster per esempio, le due Camere non sono istituzioni che vivono in isolamento, e numerosi incontri o scambi d’informazione informali rendono il processo un tipico caso di osservanza della legge delle reazioni previste. E seppure questo non avvenisse, la famigerata “navetta infinita” è una mera ipotesi di dottrina. Innanzitutto, la terza lettura, cioè il riesame del testo da parte della Camera originaria dopo gli emendamenti intervenuti da parte della seconda, può tecnicamente incentrarsi solo su questi ultimi e non sull’intero provvedimento: e così via, in un processo che lascia in breve tempo uno spazio praticamente nullo per ulteriori trasformazioni.
Basta guardare ai dati sul numero di passaggi medi con cui una legge viene approvata: il caso più tipico per una legge di media importanza è la semplice “andata e ritorno” (tre letture), mentre la media dei passaggi nelle ultime legislature è addirittura inferiore, attorno a 2,3 (per le tante leggi di scarsa salienza politica, quali le ratifiche di accordi bilaterali).

Un vero Senato autonomo

Ma veniamo alle proposte in campo. Al di là della difesa del vecchio sistema, la perplessità non deriva dalla logica riformistica che le anima, ma dal rapporto con le altre riforme – elettorali e sulla forma di governo – che sono contemporaneamente discusse. Il punto nodale è che la trasformazione del Senato introduce di fatto un nuovo “punto di veto”, un ostacolo al decisionismo, pur tenendo conto delle competenze parzialmente differenziate che il bicameralismo asimmetrico ora avanzato individua.
Il modello emulato è chiaramente quello tedesco, con tanto di commissione paritaria di conciliazione in caso di permanente dissenso fra i due rami del parlamento.
Ma il processo legislativo in tale sistema si regge in gran parte sull’anticipazione delle opposizioni locali nella contrattazione fra un Bundestag controllato dalla maggioranza governativa e un Bundesrat che è spesso nelle mani di una maggioranza diversa, perché prodotto dalle svariate coalizioni al governo nei diversi Länder.
In quei settori di policy in cui il Bundesrat deve obbligatoriamente dare il proprio assenso, il processo legislativo si allontana forzatamente da una logica decisionista maggioritaria, per improntarsi alla logica del compromesso, della contrattazione, del consensualismo. E lo stesso avviene di fatto per quelle politiche in cui esistono gli strumenti per superare l’opposizione della Camera alta.
Per questo motivo, se venisse infine adottata anche in Italia la differenziazione parziale delle competenze fra le due Camere, esisterebbero comunque sufficienti motivi per una estensione delle logiche politiche consensuali oltre ai limiti procedurali.

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Una contraddizione?

In un paese in cui la preoccupazione politica maggiore sembra quella di costruire un sistema in cui il manovratore non possa essere disturbato, e in cui la classe politica appare poco impensierita dai bracci di ferro centro-periferia, temo che ci si accorgerà tardi di aver costruito un nuovo protagonista del processo legislativo.
Con una mano si cerca di ottenere un Governo capace di decidere in autonomia, e con l’altra si costruisce una istituzione potenzialmente capace di intralciarne i lavori.
Le due cose non sono obbligatoriamente in contraddizione, a patto che se ne sia consapevoli. Ma è proprio questa consapevolezza che pare mancare.

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