Un emendamento alla delega previdenziale punta a dirottare il Tfr anche su fondi aperti e su polizze individuali (Pip). La creazione di regole uniformi e controlli comuni è senz’altro importante per lo sviluppo del mercato previdenziale, ma non è sufficiente senza un allineamento verso il basso dei costi di gestione (oggi altissimi per le Pip) e senza migliorare la qualità e la trasparenza dei prodotti offerti. Accade infatti che i più efficienti siano penalizzati a favore dei peggiori.

La “saga” sulla delega previdenziale – in Parlamento ormai da quasi due anni e mezzo – si è arricchita di un nuovo capitolo: l’emendamento, introdotto dalla commissione Lavoro del Senato, che prevede la realizzazione del cosiddetto level playing field, ossia l’introduzione di regole uniformi e di controlli comuni per tutte le forme della previdenza complementare, sia di secondo, sia di terzo pilastro.
In concreto, ciò significa soprattutto fare in modo che il dirottamento del Tfr vada a favore non soltanto dei fondi “negoziali” di categoria, ma anche dei fondi aperti (ad adesione individuale e collettiva) e delle cosiddette Pip (polizze individuali previdenziali).

Un provvedimento positivo, in teoria

Senza anticipare previsioni sull’esito complessivo della delega (i tempi tecnici per l’approvazione prima delle elezioni europee del giugno prossimo appaiono davvero stretti), due domande sorgono spontanee: si tratta di un provvedimento opportuno per i lavoratori? Aiuterà lo sviluppo del mercato?
In linea di principio, come per i “muri” geopolitici, l’abbattimento di artificiose barriere di mercato è sempre benefico, sia sotto il profilo della libertà e della responsabilità individuale, sia sotto il profilo economico.

Ne dovrebbero derivare maggiore concorrenza, riduzione di costi, miglioramento dell’efficienza e della trasparenza.
Inoltre, spazi per un “livellamento” del mercato previdenziale italiano effettivamente esistono. Si presenta infatti alquanto segmentato per effetto delle diverse modalità con le quali il legislatore “interferisce” con le scelte dei lavoratori.

Mentre i lavoratori autonomi beneficiano tradizionalmente di un “benign neglect” e sono sostanzialmente liberi di scegliere a quali forme indirizzarsi, i lavoratori dipendenti non soltanto sono “paternalisticamente” spinti verso le forme collettive (soprattutto “negoziali”), ma sono anche decisamente condizionati rispetto alle risorse da utilizzare, con una forte leva sul Tfr. È una leva, quest’ultima, che negli anni passati si è variamente cercato di azionare, fino a contemplare una possibile obbligatorietà di trasferimento, poi trasformata nella clausola del silenzio-assenso.
La scarsa mobilità tra forme pensionistiche (è anche un prezzo pagato al sindacato) non è sicuramente estranea alla tiepidezza con cui i lavoratori hanno finora guardato alla previdenza complementare nel nostro paese.

Le zone d’ombra

L’argomentazione teorica, tuttavia, deve fare i conti con la realtà. E la realtà del mercato previdenziale italiano presenta parecchie zone d’ombra, in particolare su trasparenza e onerosità del terzo pilastro (Pip e adesioni individuali ai fondi aperti).
Due aspetti che presentano non trascurabili margini di miglioramento dal lato dell’offerta.
Un recente studio (1) ha analizzato i costi che gravano nella fase di accumulazione sull’offerta di terzo pilastro nel nostro paese.
La ricerca ha portato all’individuazione di una rilevante dicotomia all’interno del mercato. Da un lato, i fondi aperti hanno costi relativamente omogenei e di importo medio sostanzialmente allineato a quello riscontrabile per analoghi prodotti in ambito internazionale (come negli Usa, dove la commissione media per prodotti attivamente gestiti e ad adesione volontaria è dell’ordine di 100–150 punti base). Esistono, anzi, fondi aperti che possono essere paragonati alle forme previdenziali di tipo collettivo, sia nel nostro paese sia in altri paesi, con commissioni di soli 60–70 punti base.
Dall’altro lato, le Pip sono gravate da oneri alquanto variabili, ma mediamente elevati: la commissione annua equivalente si attesta intorno al 2,4 per cento.
Con il risultato che, su orizzonti particolarmente lunghi quali dovrebbero essere quelli di uno schema previdenziale, fino a circa metà del montante teoricamente conseguibile può essere assorbito dalle commissioni di gestione, contro il 30 per cento circa per i fondi aperti.
Se vari motivi possono giustificare la maggiore onerosità (dalle basse economie di scala agli oneri di costruzione e di promozione del mercato), assai meno comprensibile risulta la circostanza, documentata nella ricerca, per cui i prodotti più efficienti sono penalizzati a favore dei prodotti peggiori.

Come accade in molti mercati a scarsa trasparenza implicita, sembra infatti che anche nel mercato previdenziale la promozione faccia premio sulla qualità, cosicché tende a diffondersi maggiormente il prodotto meno conveniente per il compratore, ma sul quale il venditore investe di più.
Tale meccanismo sembra inoltre agire in modo proporzionale alla opacità del prodotto per il compratore, poiché le polizze più onerose sono anche ben più complesse.
Si aggiunga che la strategia degli offerenti sembra mirata in questa fase iniziale principalmente all’occupazione del mercato, con caricamenti che arrivano fino all’80 per cento del premio iniziale e tecniche di vendita molto aggressive, con il rischio che i lavoratori siano indotti in modo massiccio a scegliere prodotti eccessivamente onerosi e con caratteristiche non corrispondenti alle loro esigenze, dei quali potranno in seguito pentirsi.
In definitiva, la strada da percorrere per arrivare a un vero mercato previdenziale, più trasparente e meno oneroso, sembra ancora lunga. In queste circostanze, e in assenza di una coerenza complessiva dei costi e dei vincoli che attualmente frenano la “portabilità” delle diverse forme previdenziali, l’equiparazione, più che risolvere problemi, ne apre di nuovi.

Se è vero che la creazione di un level playing field è importante per lo sviluppo del mercato previdenziale, essa non può peraltro passare soltanto per il cambiamento delle regole.
È infatti richiesto anche uno sforzo da parte di tutti gli operatori volto a un allineamento dei costi, verso il basso, e delle caratteristiche di efficienza e trasparenza, verso l’alto.
Senza questo sforzo, l’equiparazione delle regole potrà rivelarsi soltanto un’inutile scorciatoia normativa, certo non priva di rischi.


(1)
Cerp, Analisi comparativa dell’onerosità dei prodotti previdenziali individuali, di Elsa Fornero, Carolina Fugazza e Giacomo Ponzetto. http://cerp.unito.it/Pubblicazioni/archivio/AD_CeRP/AD%206.pdf

 

 

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