La riforma delle pensioni permetterà di investire il trattamento di fine rapporto nei fondi pensione. Ma questo avrà importanti effetti anche sul mercato del lavoro. Il Tfr non potrà più essere utilizzato come finanziamento a costi inferiori a quelli di mercato e le piccole imprese in particolare perderanno lincentivo ad allungare la durata del rapporto di lavoro. Così aziende e lavoratori (che dovrebbero considerare tutti i rischi impliciti nelle diverse scelte) potrebbero avere un interesse comune nel non aderire alle possibilità aperte dalla riforma. La riforma delle pensioni, in discussione in Parlamento, prevede il cambiamento della destinazione d’uso del Tfr, quella quota di salario che ogni anno viene trattenuta in impresa. Effetti non solo previdenziali Ma quali saranno gli effetti della riforma del Tfr? Certamente ce ne saranno sul sistema previdenziale, e questi possono essere discussi dagli esperti di pensioni. Per comprendere di cosa stiamo parlando, occorre capire come funziona esattamente il Tfr. Grazie a questo finanziamento al di sotto del prezzo di mercato, le imprese hanno interesse ad aumentare la durata del rapporto di lavoro. Più lungo è il rapporto di lavoro, maggiore è il finanziamento agevolato che i lavoratori concedono alle imprese, e maggiore la convenienza per l’impresa a non interrompere il rapporto con il lavoratore-finanziatore.
Se la riforma andrà in porto, il Tfr sarà investito nei fondi pensioni. Il trasferimento non sarà automatico, ma richiederà un silenzio assenso da parte dei lavoratori.
Molti sostengono che questa riforma consentirà il decollo delle pensioni private, il secondo pilastro del sistema previdenziale italiano del futuro.
Qui, invece, vogliamo analizzare gli effetti della riforma del Tfr sul mercato del lavoro. Considerando attentamente il meccanismo di funzionamento del Tfr, si può scoprire infatti che la sua riforma implicherà anche una riforma del mercato del lavoro: a parità di altre condizioni, potrà ridurre l’interesse delle imprese verso rapporti di lavoro di lunga durata con i propri dipendenti.
È un credito dei lavoratori verso le imprese. Attraverso il Tfr, ogni anno i lavoratori prestano circa il 7 per cento del loro reddito da lavoro alle imprese. Come tutti i prestiti, ha un tasso di interesse, che però in questo caso è stabilito per legge: 1,5 per cento più il 75 per cento dell’inflazione dell’anno precedente. Le imprese, quando i lavoratori lasciano l’azienda (per qualunque motivo) restituiscono il capitale e l’interesse. Questa è la liquidazione.
Un aspetto cruciale è il fatto che per le imprese il tasso di interesse applicato al Tfr è un tasso decisamente favorevole, e largamente inferiore al prime rate, il miglior tasso disponibile sul mercato del credito. Negli anni Novanta, il differenziale tra il costo del Tfr e il costo di un finanziamento ordinario era superiore ai dieci punti.
Il Tfr, prima della riforma, induceva quindi un aumento della durata del rapporto di lavoro.
L’esistenza di questo differenziale nei tassi di interesse spiega il motivo per cui le imprese sono così poco felici di spostare il Tfr nei fondi pensioni.
Questo effetto è particolarmente importante per le imprese di più piccola dimensione (che in Italia sono la grande maggioranza e occupano più della metà dei lavoratori dipendenti).
Infatti, le piccole imprese hanno, da un lato, una posizione debole sul mercato del credito (pochi prestiti e alti tassi di interesse rispetto alle imprese più grandi), dall’altro hanno relativamente più discrezionalità nel decidere chi eventualmente allontanare dall’azienda in caso di crisi.
Se le imprese perdono di colpo il Tfr, avranno anche meno incentivo ad aumentare la durata del rapporto di lavoro. Una ricerca recente ha evidenziato empiricamente l’esistenza di questo effetto. Durante gli anni Novanta, i lavoratori che hanno prelevato in anticipo la loro liquidazione, hanno subito un aumento significativo della probabilità di perdere il loro lavoro. E l’effetto trovato dalla ricerca appare non solo statisticamente significativo, ma anche quantitativamente rilevante.
Quale rischio scegliere
Che cosa dovrebbero fare dunque i lavoratori? Innanzitutto avere le idee chiare su che cosa sta succedendo. I ragionamenti esposti suggeriscono che ciascun lavoratore, nell’effettuare la propria scelta, dovrebbe tener conto di due fattori.
Il primo fattore è puramente finanziario. A parità di rischio, è bene investire in quei fondi che garantiscono un maggior rendimento. Il tasso di interesse pagato dalle imprese sul Tfr era molto basso negli anni Novanta, ma potrebbe essere più interessante con i bassi tassi degli anni Duemila. Inoltre, la rischiosità dell’investimento presso l’azienda è pressoché nulla (l’Inps garantisce il pagamento del Tfr in caso di fallimento dell’impresa), mentre il rischio legato all’investimento nei fondi pensione è positivo e può inoltre essere percepito come elevato da chi conosce poco tali fondi e i mercati finanziari in genere.
Il secondo fattore è legato al rischio di perdere il lavoro. E quei lavoratori che temono per il loro posto di lavoro, dovrebbero essere più inclini a lasciare in azienda il Tfr.
A parità di condizioni, se mai dovesse arrivare un crisi aziendale, il datore di lavoro getterà un occhio anche al Tfr, e avrà minor convenienza a separarsi da quei lavoratori che non ne hanno cambiato la destinazione.
Forse, queste valutazioni aiutano a spiegare la bassa adesione a questa opzione da parte di quei lavoratori che già oggi possono accedervi.
E, infine, possono far sorgere il dubbio che in realtà sia i lavoratori che le (piccole) imprese abbiano un interesse comune nel non aderire alla possibilità aperta dalla riforma in discussione.
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