Lo sviluppo dei paesi poveri è un tema che si presta a molti commenti, che variano dallo sdegno alle accuse e alle proposte. Ma a volte un fatto di cronaca può essere altrettanto interessante e significativo. Come, per esempio, la notizia riportata a fine aprile dal quotidiano economico inglese Financial Times: per la prima volta nella quarantennale storia delle estrazioni petrolifere in Nigeria due lavoratori stranieri sono stati uccisi in un’imboscata. I due dipendenti di ChevronTexaco, assassinati insieme ad altre cinque persone, potrebbero essere stati attaccati con lo scopo di rubare le armi che portavano con sé. Oppure per protestare contro i piani dell’azienda americana di estendere le proprie estrazioni nel paese. Sono solo supposizioni, che certamente non fermano ChevronTexaco, ma possono essere indicative di un certo risentimento locale verso alcuni tipi di investimenti esteri.

D’altronde, il disagio sociale è più diffuso e la crescita economica è più ridotta proprio nei paesi che maggiormente dispongono di risorse naturali, soprattutto se minerarie o petrolifere. A sostenerlo sono Desmond Tutu e Jody Williams, premi Nobel rispettivamente nel 1984 e nel 1997, in un articolo di commento pubblicato dall’International Herald Tribune. È il “paradosso dell’abbondanza” o “maledizione delle risorse naturali”, che ha portato a una lunga guerra civile in Angola e a livelli incredibili di corruzione in Nigeria. In quest’ultimo paese negli anni ’90 si sarebbero volatilizzati nel nulla quasi 4 miliardi di dollari di proventi del greggio. Per questo, concludono gli autori, è opportuno che la Banca Mondiale indirizzi i propri investimenti solo dopo un attento esame dei governi locali e, in ogni caso, in regioni senza guerra o violenze etniche.

Un altro importante intervento è l’analisi di John Kufuor, presidente del Ghana, sulle pagine del Financial Times: “Per lo sviluppo economico l’Africa ha bisogno di maggiore assistenza finanziaria e accesso ai mercati mondiali”. In breve: più soldi per crescere e rafforzarsi in casa e meno protezionismo, da parte dei paesi ricchi, per giocare e vincere nel mondo. E le ambizioni non mancano: Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Gambia e Guinea hanno stabilito dei criteri di convergenza per un’unione monetaria prevista per luglio dell’anno prossimo.

A livello internazionale, intanto, i paesi in via di sviluppo hanno segnato un importante punto nella lotta ai sussidi garantiti dalle nazioni occidentali a consistenti settori delle proprie economie. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), infatti, ha stabilito che gli aiuti concessi da Washington ai 35.000 produttori nazionali di cotone sono contrari alle regole del libero commercio mondiale. Secondo il francese Le Figaro, la Casa Bianca si opporrà con ogni mezzo alla decisione. Anche perché tra qualche mese si svolgeranno negli Stati Uniti le elezioni presidenziali, e George W.Bush cerca di assicurarsi il sostegno dei tanti stati del sud, produttori di cotone e fedeli alla causa repubblicana. Il Wall Street Journal, invece, pone l’accento sugli scenari futuri che si aprono dopo la sentenza dell’Omc. I paesi in via di sviluppo, infatti, potranno fare riferimento alla decisione dell’organizzazione per rafforzare la propria posizione liberoscambista all’interno dei round negoziali di liberalizzazione dei commerci.

E sempre dall’Organizzazione Mondiale del Commercio è arrivata negli ultimi giorni una dichiarazione significativa, riportata sul Financial Times, a tutto vantaggio di Cina e India. Un funzionario senior dell’Omc si è espresso contro la proroga del regime delle quote nel mercato nei prodotti tessili. La prossima liberalizzazione, ora quindi più probabile, aprirà già dal 2005 nuove fette di mercato ai produttori cinesi e indiani, fortemente avvantaggiati dai bassi costi di produzione e dall’efficiente e sistematica organizzazione dei processi produttivi. Una ricerca Usa prevede che Pechino si aggiudicherà tre quarti del mercato statunitense, con la chiusura di 1.300 stabilimenti americani e la perdita di 650.000 posti di lavoro. Contemporaneamente, 200 miliardi di dollari di “fatturato tessile” si sposteranno sulla Cina nei prossimi anni, almeno secondo le stime della Banca Mondiale.

Per il settimanale The Economist è stato lo sviluppo del capitalismo in molte nazioni asiatiche, come nelle già citate Cina e India, a rendere più competitive e ricche le rispettive economie. L’analisi del prestigioso periodico contiene anche alcune considerazioni ottimistiche: dagli anni ’70 la percentuale di coloro che vivono con meno di un dollaro al giorno è calata. Nell’articolo sono citati due studi, uno dei quali sotto l’ombrello della Banca mondiale, che confermano, dati alla mano, questa tesi. Anche le ineguaglianze, continua l’Economist, sono cresciute tra ricchi e poveri all’interno di Cina e India. Tuttavia, lo sviluppo disordinato e mal distribuito dei due paesi dimostra, se paragonato all’Africa più povera, che ci sono cose peggiori delle ineguaglianze economiche e sociali.

Milano, 4 maggio 2004

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