Come annunciato da tempo ai nostri lettori, abbiamo sottoposto ai partiti e coalizioni che si presentano alle elezioni Europee alcune domande su temi cruciali in questa campagna elettorale. Cominciamo dal pubblicare le risposte ricevute sulle prime due schede: il bilancio dell’Unione e la Costituzione europea. Sul bilancio dell’ Unione, abbiamo chiesto di esprimere una posizione sui fondi strutturali, sulla politica agricola della Ue e sull’ aumento del bilancio complessivo dell’ Unione proposto recentemente dalla Commissione. Riportiamo le risposte di Lista Bonino, Forza Italia, Patto Segni-Scognamiglio e Uniti nellUlivo.
Bilancio dell’Unione
2. In passato, l’Italia ha ricevuto molti fondi strutturali. Ma come sottolinea il Rapporto Sapir, frutto del lavoro di un gruppo di esperti indipendenti costituito dal Presidente della Commissione Europea, non ha saputo utilizzarli in modo efficiente. Ne riceverà meno in futuro, dopo l’allargamento a Est. Secondo voi, il Governo italiano dovrebbe impegnarsi per continuare a ottenere più fondi strutturali possibili? Oppure dovrebbe passare a una strategia di sviluppo per il Sud che prescinda dai fondi strutturali UE?
3. I trasferimenti annui complessivi al settore agricolo generati dall’intervento pubblico in Italia superano i 24 miliardi di euro, molto di più del valore aggiunto netto del settore. Equivalgono a oltre 1200 euro all’anno in media per una famiglia di quattro persone, oppure a un trasferimento medio di oltre 20 mila euro all’anno per unità di lavoro
agricolo. La maggior parte di questi trasferimenti sono ancora associati alla quantità prodotta e favoriscono le imprese più grandi, mentre gravano sui consumatori più poveri, che spendono una maggior quota del loro bilancio familiare in prodotti alimentari. L’Unione Europea spende circa 1700 miliardi di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare quasi il 10% della terra arabile al fine di ridurre l’offerta e mantenere alti i prezzi sul mercato interno. Crede che l’Unione Europea debba ridurre rapidamente la protezione del settore agricolo, aderendo alle richieste dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio? Ritenete giusto battersi per una forte ridimensionamento della spesa agricola non solo comunitaria, ma anche
nazionale e regionale, tutelando ovviamente le attività che hanno effetti positivi sull’ambiente e sul benessere di tutta la collettività?
Bilancio dell’Unione
Il confronto sulle finanze pubbliche, fino ad ora, purtroppo, si incentra molto più sui dati quantitativi che non su quelli qualitativi. Nessuna delle parti in causa, Commissione e Stati membri, sembra però intenzionata a porre con forza il problema della composizione del bilancio stesso, dove la parte del leone continuerà a farla la spesa per l’agricoltura, nonostante vengano proposti anche aggiustamenti significativi in termini percentuali ma limitati in valore assoluto verso politiche “per la crescita” come la ricerca e le infrastrutture.
Su questo occorre fare scelte coraggiose, come quelle tracciate dal rapporto Sapir, che prevede una rimodulazione del bilancio attraverso la definizione di tre maxi-capitoli di spesa: a) un fondo – pari allo 0,45% del PIL – per promuovere la crescita attraverso la spesa in ricerca e sviluppo, educazione e formazione, e infrastrutture europee – 0,35% del PIL; b) un fondo di convergenza per aiutare i paesi a più basso reddito a recuperare; c) un fondo per sostenere e facilitare i processi di ristrutturazione (comprensivo dell’aiuto ai lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni, compresi gli agricoltori) – 0,20% del PIL. Ad esempio: impegnare nella ricerca e sviluppo da parte dell’Unione risorse pari allo 0.25% del PIL europeo, equivarrebbe accrescere la spesa pubblica complessiva nel settore di ben il 25%.
Una Europa politica che voglia pesare di più ha senz’altro bisogno di più risorse, anche finanziarie. Ma ancor più ha bisogno di indirizzare tali risorse verso la crescita, l’innovazione e la competitività.
2. In passato, l’Italia ha ricevuto molti fondi strutturali. Ma come sottolinea il Rapporto Sapir, frutto del lavoro di un gruppo di esperti indipendenti costituito dal Presidente della Commissione Europea, non ha saputo utilizzarli in modo efficiente. Ne riceverà meno in futuro, dopo l’allargamento a Est. Secondo voi, il Governo italiano dovrebbe impegnarsi per continuare a ottenere più fondi strutturali possibili? Oppure dovrebbe passare a una strategia di sviluppo per il Sud che prescinda dai fondi strutturali UE?
Non è, oggi come ieri, dalla conservazione dei fondi strutturali che dipende lo sviluppo delle regioni svantaggiate italiane e del mezzogiorno in particolare. Tanto più che la concorrenza che ci troviamo in casa con l’allargamento ad est è con sistemi il cui vantaggio non è (se non in misura trascurabile) l’essere destinatari di quei fondi, quanto di essere in grado di attirare investimenti in particolare grazie alla capacità di sfruttare i loro vantaggi competitivi (ad esempio la disponibilità di lavoratori qualificati a costo relativamente basso). Su questo l’Italia continua ad arrancare, come dimostra la vicenda di questi giorni relative allo stabilimento Fiat di Melfi, il cui effetto più grave sarà, fra gli altri, quello di lanciare un segnale negativo a tutti gli imprenditori, soprattutto stranieri, interessati ad investimenti produttivi nel mezzogiorno, vanificando quei vantaggi in termini di flessibilità e costo del lavoro che hanno reso e potrebbero sempre più rendere competitive le aree del mezzogiorno rispetto a quelle del resto del paese o del resto di Europa.
3. I trasferimenti annui complessivi al settore agricolo generati dall’intervento pubblico in Italia superano i 24 miliardi di euro, molto di più del valore aggiunto netto del settore. Equivalgono a oltre 1200 euro all’anno in media per una famiglia di quattro persone, oppure a un trasferimento medio di oltre 20 mila euro all’anno per unità di lavoro agricolo. La maggior parte di questi trasferimenti sono ancora associati alla quantità prodotta e favoriscono le imprese più grandi, mentre gravano sui consumatori più poveri, che spendono una maggior quota del loro bilancio familiare in prodotti alimentari. L’Unione Europea spende circa 1700 miliardi di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare quasi il 10% della terra arabile al fine di ridurre l’offerta e mantenere alti i prezzi sul mercato interno. Crede che l’Unione Europea debba ridurre rapidamente la protezione del settore agricolo, aderendo alle richieste dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio? Ritenete giusto battersi per una forte ridimensionamento della spesa agricola non solo comunitaria, ma anche nazionale e regionale, tutelando ovviamente le attività che hanno effetti positivi sull’ambiente e sul benessere di tutta la collettività?
A mio parere, quello della PAC è un “gioco” dove alla fine, considerati i costi sostenuti da ciascuna parte in causa, tutti perdono (ad eccezione di una parte degli agricoltori, di una serie di burocrazie di categoria e di qualche politico che prospera sulla difesa di interessi corporativi).
Perdono in particolare i paesi poveri, i quali normalmente hanno nei settori primari (e agricolo in particolare) la principale fonte di reddito. Da un lato la PAC, chiudendo loro uno dei mercati più ricchi del pianeta, nega a queste economie concrete possibilità di sviluppo; dall’altro, con politiche di vero “dumping” (in particolare con i sussidi alle esportazioni, tesi ad agevolare lo “smaltimento” degli eccessi di produzione al di fuori dell’Europa) invade i loro mercati facendo slealmente concorrenza ai prodotti locali.
Perdono i cittadini europei costretti a finanziare con le loro tasse un bilancio UE che proprio per effetto del peso della PAC è tutto rivolto al passato e non alla crescita e al futuro. Perdono anche in quanto consumatori costretti a pagare per molti prodotti agricoli prezzi mediamente doppi di quelli mondiali (una stima dell’OECD riferita all’anno 2000 quantifica tale onere – di natura evidentemente regressiva – in 299 annui pro capite), per prodotti che in contropartita non offrono neppure garanzie di maggiore qualità (come varie vicende di questi anni hanno mostrato).
Perde l’UE che vede indebolita la propria posizione negoziale in sede WTO, con grave danno per gli altri settori. Perde l’ambiente: la PAC, incentivando la quantità e non la qualità, ha spinto ai massimi livelli lo sfruttamento intensivo del territorio con tutte le conseguenze in termini di uso di fertilizzanti e mangimi chimici (si pensi alle famigerate farine animali imputate della “mucca pazza”), erbicidi, pesticidi. Perdono, infine, persino gli agricoltori “burocratizzati” e impossibilitati a divenire a pieno titolo imprenditori, capaci di innovare e competere sul piano della qualità. Mi sembra abbastanza per invocare il superamento della PAC.
La riforma della PAC in via di attuazione corregge alcune storture ma senza mutare la situazione di fondo. La Commissione Sapir è andata dritta al punto: ci sono buone ragioni per decentralizzare agli Stati membri le politiche agricole redistributive della PAC (presente e a maggior ragione futura), sottomettendo gli aiuti all’agricoltura alle attuali norme sugli aiuti di stato a difesa del mercato unico e della concorrenza.
Bilancio dell’Unione
La Commissione uscente non può vantare un bilancio positivo nella gestione delle risorse a sua disposizione. Tanto meno nella realizzazione degli obiettivi del cosidetto Processo di Lisbona. Nulla è stato fatto a favore di quei Paesi, come l’Italia, che hanno proceduto a riforme importanti in quella direzione come ad esempio la riforma Biagi o la roforma Moratti. Sarebbe il caso, dunque, che la nuova Commissione spenda meglio i fondi già a sua disposizione, riducendo la immane produzione burocratica e regolamentare che rappresenta un ostacolo allo sviluppo e alla crescita della competitività. La forza dell’Unione sta nel fissare le regole. Ma queste devono essere poche, chiare e strategiche. Decidere della lunghezza delle banane o della consistenza dei piselli, come è stato fatto, non favorisce di certo lo sviluppo.
2. In passato, l’Italia ha ricevuto molti fondi strutturali. Ma come sottolinea il Rapporto Sapir, frutto del lavoro di un gruppo di esperti indipendenti costituito dal Presidente della Commissione Europea, non ha saputo utilizzarli in modo efficiente. Ne riceverà meno in futuro, dopo l’allargamento a Est. Secondo voi, il Governo italiano dovrebbe impegnarsi per continuare a ottenere più fondi strutturali possibili? Oppure dovrebbe passare a una strategia di sviluppo per il Sud che prescinda dai fondi strutturali UE?
Non c’è dubbio che in passato l’Italia non abbia saputo utilizzare in maniera efficiente i fondi strutturali. Ma dal 2001 a oggi la situazione è radicalmente cambiata. L’Italia ha utilizzato, e bene, tutti i fondi a sua disposizione. Quanto al futuro, non è forse il caso di guardare all’esempio dell’Irlanda, dove una politica di attrazione delle imprese, fatta di vantaggi fiscali e di riduzione dei costi burocratici, ha determinato uno sviluppo di straordinaria rapidità?
3. I trasferimenti annui complessivi al settore agricolo generati dall’intervento pubblico in Italia superano i 24 miliardi di euro, molto di più del valore aggiunto netto del settore. Equivalgono a oltre 1200 euro all’anno in media per una famiglia di quattro persone, oppure a un trasferimento medio di oltre 20 mila euro all’anno per unità di lavoro
agricolo. La maggior parte di questi trasferimenti sono ancora associati alla quantità prodotta e favoriscono le imprese più grandi, mentre gravano sui consumatori più poveri, che spendono una maggior quota del loro bilancio familiare in prodotti alimentari. L’Unione Europea spende circa 1700 miliardi di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare quasi il 10% della terra arabile al fine di ridurre l’offerta e mantenere alti i prezzi sul mercato interno. Crede che l’Unione Europea debba ridurre rapidamente la protezione del settore agricolo, aderendo alle richieste dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio? Ritenete giusto battersi per una forte ridimensionamento della spesa agricola non solo comunitaria, ma anche nazionale e regionale, tutelando ovviamente le attività che hanno effetti positivi sull’ambiente e sul benessere di tutta la collettività?
Sì. La Politica agricola comune favorisce in realtà solo alcuni paesi e alcune corporazioni di quei paesi. Occorre una revisione complessiva della Pac che favorisca la crescita della produttività (e quindi della redditività) e, contemporaneamente, il calo dei prezzi. Non ci sono, però, soluzioni nazionali. Se solo un Paese si avventurasse in questo compito resterebbe schiacciato dalla concorrenza unfair degli altri partner.
Bilancio dell’Unione
Si certamente voteremmo a favore. L’UE si allarga a 25 e ha senz’altro bisogno di più risorse finanziarie. Francia e Germania hanno addirittura proposto di abbassare il contributo che ogni paese versa nelle casse di Bruxelles dall’1.24% al 1% del PIL. Tale proposta abbracciata anche da altri paesi membri “contributori netti”, tra cui l’Italia, non facilita la coesione economica e sociale e lo sviluppo di aree in ritardo come il Mezzogiorno. E’ troppo facile per i Ministeri dell’Economia europei tagliare ogni tipo di spesa per far quadrare i bilanci, ma è paradossale chiedere più Europa in termini di sicurezza, controllo alle frontiere, e lotta al terrorismo senza voler più “pagare” il finanziamento di tali azioni necessarie per tutti i cittadini dell’Unione. Bisogna essere meno ipocriti e dire apertamente che se si vuole più Europa e quindi più sicurezza bisogna dare alla stessa Europa più risorse. Temiamo che Sarkozy e Tremonti non siano d’accordo…
E’ chiaro comunque che a livello nazionale ci battiamo per un abbassamento dell’imposizione fiscale. Non solo in Italia. ma in tutta Europa la fiscalità è ben più alta rispetto alla media degli USA, il che provoca di conseguenza un rallentamento dell’economia.
2. In passato, l’Italia ha ricevuto molti fondi strutturali. Ma come sottolinea il Rapporto Sapir, frutto del lavoro di un gruppo di esperti indipendenti costituito dal Presidente della Commissione Europea, non ha saputo utilizzarli in modo efficiente. Ne riceverà meno in futuro, dopo l’allargamento a Est. Secondo voi, il Governo italiano dovrebbe impegnarsi per continuare a ottenere più fondi strutturali possibili? Oppure dovrebbe passare a una strategia di sviluppo per il Sud che prescinda dai fondi strutturali Ue?
Il “caso Italia” nei fondi strutturali è davvero misterioso. Il nostro paese, col Mezzogiorno, è l’unico che nonostante tali aiuti non abbia fatto registrare un netto incremento del PIL. C’e’ riuscita la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e forse ci riusciranno anche i paesi dell’Europa Centrale. La causa è sicuramente nella cattiva amministrazione regionale di questi anni e nella non professionalità di una certa classe politica. Riteniamo che l’Italia abbia tuttora bisogno di tali fondi, perché anche se il PIL è aumentato per un effetto statistico legato allo abbassamento della media comunitaria avuto con l’allargamento a dei paesi più poveri, la ricchezza pro capite del nostro paese e del Mezzogiorno non è aumentata. I fondi strutturali poiché sono un cofinanziamento tra UE e paese membro servono anche per spingere lo stesso paese a investire nel prprio territorio più svantaggiato. Temiamo che una riduzione di fondi strutturali comunitari spingerebbe lo stesso Governo a limitare gli aiuti destinati a l Mezzogiorno, portandolo davvero al collasso. Certo i fondi strutturali non sono l’unica cosa. Il Governo dovrebbe davvero promuovere una politica volta allo sviluppo del sud, incominciando dalle autostrade e aeroporti e rilanciando gli investimenti o l’apertura di aziende commerciali. Il Sud invece è lasciato sempre di più a se stesso e il divario tra sviluppo tra le due aree del paese è sempre più amplio. Ad oggi non c’e’ nessun paese nell’UE con una differenza regionale, in termini di sviluppo, cosi’ marcata. Questo problema certo non si risolve solo con i fondi strutturali, ma con una volontà politica comune.
3. I trasferimenti annui complessivi al settore agricolo generati dall’intervento pubblico in Italia superano i 24 miliardi di euro, molto di più del valore aggiunto netto del settore. Equivalgono a oltre 1200 euro all’anno in media per una famiglia di quattro persone, oppure a un trasferimento medio di oltre 20 mila euro all’anno per unità di lavoro
agricolo. La maggior parte di questi trasferimenti sono ancora associati alla quantità prodotta e favoriscono le imprese più grandi, mentre gravano sui consumatori più poveri, che spendono una maggior quota del loro bilancio familiare in prodotti alimentari. L’Unione Europea spende circa 1700 miliardi di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare quasi il 10% della terra arabile al fine di ridurre l’offerta e mantenere alti i prezzi sul mercato interno. Crede che l’Unione Europea debba ridurre rapidamente la protezione del settore agricolo, aderendo alle richieste dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio? Ritenete giusto battersi per una forte ridimensionamento della spesa agricola non solo comunitaria, ma anche nazionale e regionale, tutelando ovviamente le attività che hanno effetti positivi sull’ambiente e sul benessere di tutta la collettività?
La spesa agricola è uno dei temi caldi dell’UE. La Francia è il paese che più si batte per non toccare la politica Agricola Comunitaria di cui è il più grande beneficiario. Persino nella proposta di ridurre il bilancio comunitario all’1% del PIL arrivata da Francia e Germania la voce PAC non si tocca, a scapito dei fondi strutturali, della ricerca e della lotta al terrorismo. Certo l’Agricoltura è un settore più che importante per l’UE e soprattutto adesso con l’entrata di nuovi paesi prettamente agricoli (uno per tutti la Polonia), ma se si commettesse la follia di ridurre il bilancio comunitario tutte le voci ne dovrebbero essere penalizzate non solo alcune di esse. Poi bisognerebbe avere una visione di più ampio respiro. Organizzazioni internazionali come l’OMC lavorano per rendere il mercato mondiale più efficiente, non solo nel campo dell’agricoltura, e si battono per instaurare un dialogo commerciale tra i differenti paesi. Chiudersi in se stessi e non seguire gli accordi internazionali significa alzare delle barriere con il resto del mondo e aspettare le dovute conseguenze politiche e che tale innalzamento comporta. Nell’era della globalizzazione, se per timore della concorrenza ci chiudiamo in noi stessi i paesi in ritardo di sviluppo non potranno mai crescere e ne pagheremo le conseguenze in termini di benessere, pace, immigrazione, ambiente, traffici illeciti etc.
Bilancio dell’Unione
Voteremmo a favore. Coscienti del fatto che le nuove sfide globali richiedono “più Europa”, ma che questo resterebbe uno slogan vuoto se i paesi dell’Unione non fossero disponibili a mettere insieme un maggior volume di risorse.
Quando le attuali “prospettive finanziarie” furono concordate, la situazione dell’Europa e del mondo era molto diversa. Oggi, proprio mentre raggiunge lo straordinario obiettivo dell’allargamento, l’Unione deve fronteggiare un periodo di bassa crescita economica e deve fare i conti con il veloce invecchiamento della popolazione, in un mondo scosso dal terrorismo internazionale e da minacce globali all’ambiente e alla salute.
Nessuno di questi problemi è affrontabile a livello esclusivamente nazionale. Ciascuno di essi richiede una maggiore iniziativa europea. Ciò non può non avere conseguenze sul bilancio. Certo la stessa Unione è chiamata a fare scelte rigorose, in linea con quelle richieste agli stati membri. Ma bisogna ricordare che non si fanno le nozze con i fichi secchi.
Oggi, per ogni 100 euro a disposizione delle autorità pubbliche nazionali, appena 3 affluiscono al bilancio comunitario. Se si riconosce, secondo il principio di sussidiarietà, che il livello del governo europeo è quello più adatto per fronteggiare i problemi citati, allora bisogna attribuire all’Unione le risorse sufficienti, accettando che questa proporzione si modifichi un po’ in direzione dell’Europa.
L’accrescimento della dimensione del bilancio dell’Unione non comporta necessariamente che queste risorse debbano essere “gestite” (come recita la domanda) dalla Commissione. Ad esempio nel settore dei fondi strutturali (che assorbono circa un terzo delle risorse dell’Unione), la gestione delle risorse in larga misura è, e deve rimanere, nazionale, o meglio ancora sub-nazionale. Addirittura il centrosinistra allora al governo, nel programma di utilizzazione dei fondi strutturali per il periodo 2000-2006, decise che la gestione fosse al 70% regionale e locale, e solo al 30% nazionale, invertendo la precedente impostazione. Dunque, più risorse all’Unione non vuol dire più risorse gestite da Bruxelles, ma più risorse pubbliche gestite in Europa secondo una logica coordinata e sorvegliata, con vincoli che le indirizzino verso obiettivi ritenuti rilevanti a livello di intera Unione.
Così come proposto dalla Commissione, non è affatto sufficiente ampliare le disponibilità finanziarie dell’Unione. Senza dimenticare gli obiettivi più tradizionali, a partire dalle politiche di coesione, occorre anche riorientare in modo significativo la spesa. Anzitutto accrescendo il peso delle risorse destinate a obiettivi intermedi capaci di accelerare la crescita; fra di essi, assumono particolare rilevanza le misure capaci di porre rimedio alla inadeguatezza delle reti europei di comunicazione e di trasporto dell’energia, di accrescere il livello di istruzione e formazione dei lavoratori, di colmare il divario rispetto agli Stati Uniti in materia di investimenti in innovazione e ricerca. Senza dimenticare le risorse che saranno assorbite dalle esigenze della sicurezza dei cittadini, dalla salvaguardia ambientale, dalla tutela della salute e dell’alimentazione. Infine, l’Unione dovrà svolgere un ruolo crescente al fine di contribuire alla stabilità politica dei propri vicini.
Dunque, una ragionevole crescita delle risorse destinate all’Unione, e una migliore selezione degli obiettivi ai quali destinarle.
2. In passato, l’Italia ha ricevuto molti fondi strutturali. Ma come sottolinea il Rapporto Sapir, frutto del lavoro di un gruppo di esperti indipendenti costituito dal Presidente della Commissione Europea, non ha saputo utilizzarli in modo efficiente. Ne riceverà meno in futuro, dopo l’allargamento a Est. Secondo voi, il Governo italiano dovrebbe impegnarsi per continuare a ottenere più fondi strutturali possibili? Oppure dovrebbe passare a una strategia di sviluppo per il Sud che prescinda dai fondi strutturali UE?
In generale, noi crediamo che le politiche strutturali rimangano uno strumento essenziale dell’Unione. E crediamo che le aree d’Europa che mano a mano usciranno dal cosiddetto obiettivo 1 (regioni in ritardo di sviluppo, individuate sulla base di un reddito pro-capite inferiore al 70% della media dell’Unione) dovranno essere accompagnate, così come fin qui previsto, da una gradazione a scalare dei livelli di aiuto pubblico secondo opportuni meccanismi di phasing-out, in modo da evitare che repentine interruzioni degli aiuti possano ricacciare queste regioni indietro sulla strada dello sviluppo.
Per quel che riguarda specificatamente il nostro Mezzogiorno, il Governo italiano deve impostare politiche capaci di condurlo a fare a meno di aiuti esterni. L’obiettivo è uno sviluppo del Sud che sia, come usa dire, autopropulsivo, cioè indipendente da ulteriori flussi di risorse pubbliche, nazionali o comunitarie. E sia semmai capace di attrarre flussi di investimenti privati dal resto d’Italia, dall’Europa e dall’intero mondo globalizzato.
Purtroppo, il nostro Sud è ben lontano da questa situazione. Anche perché, è bene ricordarlo, negli ultimi anni le politiche tese a mettere il Mezzogiorno in condizione di camminare con le sue gambe hanno subito una brusca interruzione: come risulta dagli stessi documenti ufficiali del Governo, l’obiettivo di indirizzare verso il Sud il 45% del totale degli investimenti pubblici, fissato al tempo dei Governi di centrosinistra, è stato miseramente fallito, e il suo raggiungimento è ora rinviato addirittura al 2008! Buona parte delle risorse comunitarie non sono – come dovrebbero – aggiuntive rispetto alle risorse nazionali, ma sostitutive degli ordinari investimenti dello Stato. Basti considerare come, sempre per stessa ammissione del Governo, le Ferrovie non abbiano in corso alcun significativo investimento al Sud, ove si faccia eccezione per la linea Roma-Napoli.
Dunque al Mezzogiorno dovranno continuare ad essere indirizzati flussi di risorse pubbliche. In questo senso, qualunque governo italiano dovrà battersi per ottenere dall’Unione il maggior volume di fondi strutturali possibile.
Ma dovrà crescere la capacità nazionale di utilizzare al meglio gli aiuti allo sviluppo regionale. A questo proposito occorrerà riprendere la strategia avviata negli anni del centrosinistra, che prevedeva di sostituire gradatamente gli aiuti diretti alle imprese con politiche di contesto, capaci di eliminare i fattori che determinano nel Mezzogiorno un livello della produttività complessiva dei fattori della produzione inferiore rispetto al Centro-nord e alla media comunitaria.
Per funzionare le politiche di contesto richiedono una maggiore concentrazione degli interventi su ricerca e innovazione, infrastrutture fisiche e immateriali, capitale umano, ambiente, evitando l’attuale dispersione di programmi e iniziative.
3. I trasferimenti annui complessivi al settore agricolo generati dall’intervento pubblico in Italia superano i 24 miliardi di euro, molto di più del valore aggiunto netto del settore. Equivalgono a oltre 1200 euro all’anno in media per una famiglia di quattro persone, oppure a un trasferimento medio di oltre 20 mila euro all’anno per unità di lavoro
agricolo. La maggior parte di questi trasferimenti sono ancora associati alla quantità prodotta e favoriscono le imprese più grandi, mentre gravano sui consumatori più poveri, che spendono una maggior quota del loro bilancio familiare in prodotti alimentari. L’Unione Europea spende circa 1700 miliardi di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare quasi il 10% della terra arabile al fine di ridurre l’offerta e mantenere alti i prezzi sul mercato interno. Crede che l’Unione Europea debba ridurre rapidamente la protezione del settore agricolo, aderendo alle richieste dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio? Ritenete giusto battersi per una forte ridimensionamento della spesa agricola non solo comunitaria, ma anche
nazionale e regionale, tutelando ovviamente le attività che hanno effetti positivi sull’ambiente e sul benessere di tutta la collettività?
L’iper-protezione di cui godono alcune produzioni agricole europee, oltre che contraddire le indicazione della WTO, è sicuramente inconciliabile con l’obiettivo di una globalizzazione più “equa e solidale”. Grava sui consumatori nella forma di prezzi elevati. Ritarda il necessario aggiustamento delle strutture produttive. E va anche a scapito dei necessari investimenti dell’Unione in aree maggiormente capaci di sostenere la crescita dell’economia.
Il compromesso raggiunto a Berlino in materia di riforma della politica agricola comune è, per l’appunto, un compromesso. Non v’è dubbio sul fatto che la quota del bilancio comunitario assorbita dalla politica agricola – circa il 45% – è troppo elevata. Si pensi che, nonostante gli obiettivi fissati a Lisbona, il bilancio dell’Unione tuttora destina alla ricerca appena un decimo delle risorse destinate all’agricoltura.
Dopo due decenni spesi in ripetuti tentativi di radicali riforme della politica agricola comune, occorre tuttavia realisticamente prendere atto che né i singoli governi nazionali, né la Commissione europea hanno la forza politica necessaria per ridurre repentinamente gli aiuti al settore primario. Senza contare che, partendo dal livello di aiuto tanto efficacemente descritto nella domanda, una brusca interruzione dei flussi finanziari ovvero una brusca sospensione delle protezioni di tipo legale e tariffario finirebbe per produrre effetti sociali e ambientali insopportabili. Piuttosto che rassegnarsi a questo stato delle cose, occorre ora impostare una strategia del “riformismo possibile”: mentre si riducono gradatamente il sostegno ai prezzi e le barriere doganali, bisognerà adottare misure compensative che accrescano le risorse per lo sviluppo rurale, in particolare nelle aree maggiormente capaci di connettersi con la tutela dell’ambiente e con lo sviluppo turistico. Già la proposta di bilancio europeo per il 2005 appena formulata dalla Commissione va in questa direzione, prevedendo un aumento delle risorse destinate allo sviluppo rurale pari al 15%, ben più elevato rispetto alle altre spese per l’agricoltura.
Nel complesso, la quota del bilancio comunitario dedicata all’agricoltura dovrà ridursi. Ma spendere meno per l’agricoltura deve significare anche spendere meglio. Nella direzione di un efficace sostegno alla competitività e alla modernizzazione del settore, anello iniziale della catena agro-alimentare: dunque meno commodities, più capacità di aggiungere valore alle produzioni e di promuovere qualità e contenuti dei prodotti. Anche, ma non solo, a questo scopo sono necessarie politiche per la tutela dei consumatori, con una più estesa informazione relativa a origine, composizione, tracciabilità dei prodotti.
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Renato Brunetta
Siamo alla vigilia di elezioni proporzionali, che peraltro non sono destinate ad esprimere un governo. Forza Italia, a differenza di altre liste come ad esempio Uniti nellUlivo che non ha alcun riferimento politico in Europa, è parte integrante del Ppe, ha contribuito alla stesura del programma e del manifesto elettorale del Ppe, e non ha dovuto pertanto inventare un programma italiano per le elezioni europee.
Sarebbe stato preferibile, dunque, discutere su programmi europei, piuttosto che porre a confronto cose tanto diverse tra loro. Ad esempio, il programma elaborato da Giuliano Amato è un non-programma, è solo uno strumento di propaganda che non vincolerà nessuno degli eletti in quella lista, la cui azione sarà orientata dai gruppi politici di riferimento a cui gli eletti si iscriveranno.
Infine osservo che le domande proposte sono sin troppo articolate e un po suggestive. Capisco che la voce esprima un punto di vista,.ma non vi sembra eccessivo che le domande rischino di essere più lunghe delle risposte?
Renato Brunetta
La redazione
Abbiamo, nelle domande, cercato di illustrare le diverse opzioni e i loro pro e contro. Non c’è nessun male nell’avere risposte brevi a domande circonstanziate. Ma sono possibili anche risposte circostanziate: non vi abbiamo posto limiti di spazio. Bene, comunque, utilizzarlo per illustrare i propri programmi anzichè discutere quelli degli altri. Grazie comunque per lo sforzo nel rispondere ai nostri quesiti.