L’analisi delle citazioni brevettali consente di misurare l’utilità, la novità e la non ovvietà di una innovazione e fornisce una mappa delle connessioni che si instaurano fra brevetti successivi. Dal confronto internazionale emerge che l’Italia ha una propensione a brevettare inferiore a quella dei paesi tecnologicamente più progrediti. E non brilla neppure per il “valore” medio delle sue scoperte e invenzioni. Si conferma così l’impressione di una debolezza endemica del nostro sistema nazionale dell’innovazione.

Il brevetto è un indicatore molto popolare tra gli economisti dell’innovazione, che lo utilizzano nella misurazione della competitività tecnologica.
Tuttavia, il semplice conteggio dei brevetti – a livello di impresa, industria, paese – rappresenta una misura approssimativa della competitività, se è vero che non più del 50 per cento delle invenzioni brevettate si trasformano in innovazioni (cioè vengono immesse sul mercato), che non tutte le invenzioni sono brevettate e che la capacità di generare un significativo cluster innovativo varia enormemente da brevetto a brevetto.
Di conseguenza, “pesare” il conteggio per il numero di citazioni successive ricevute da un brevetto migliora la qualità della misurazione stessa. Ad esempio, consente di stabilire se un soggetto titolare di molti (pochi) brevetti ha davvero contribuito in modo rilevante (irrilevante) al processo innovativo. In questo senso, le citazioni sono un’approssimazione del “valore” di ciascun brevetto.

L’analisi delle citazioni

L’analisi delle citazioni brevettuali trova il suo fondamento nelle tecniche bibliometriche utilizzate per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche e consente di misurare, sia pure indirettamente, i tre requisiti fondamentali di un brevetto: l’utilità, la novità, e la non ovvietà.
In particolare, fornisce una mappa delle connessioni che si instaurano fra brevetti successivi, con il numero delle citazioni da un brevetto a un altro che rappresenta un indicatore dei flussi di conoscenza da un inventore a un altro.
Lo studio della mappa costruita attraverso i brevetti registrati presso lo Us Patent and Trademark Office (Uspto) ha portato a individuare alcuni “fatti stilizzati”, che possono essere così riassunti: circa un quarto dei brevetti non riceve alcuna citazione; solo lo 0,01 per cento riceve più di cento citazioni. La distribuzione dei ritardi dal brevetto alla citazione è asimmetrica verso destra, con un valore modale di circa 3,5 anni; la maggior parte delle citazioni avviene nei dieci anni successivi al brevetto (anche se non mancano casi di brevetti che hanno continuato a essere citati per trenta anni).

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Un confronto tra sei paesi

Emergono alcune interessanti indicazioni anche per quanto riguarda la competitività tecnologica italiana.
Utilizzando le informazioni attingibili dallo Uspto, la Tabella 1 confronta alcuni aspetti dell’attività brevettuale di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone nel periodo tra il 1963 e il 2001. I brevetti complessivamente detenuti da questi sei paesi rappresentano il 90 per cento di quelli registrati presso lo Uspto nel periodo considerato, ma alcune differenze sostanziali fra questi paesi.meritano di essere sottolineate.

 

 

 

 

 

 

Una debolezza endemica

Innanzi tutto, per quanto riguarda l’Italia, la sua quota dei brevetti complessivamente attribuiti ai sei paesi in esame (1,2 per cento), il rapporto fra numero di brevetti e popolazione residente (0,6) e il rapporto tra numero di soggetti (imprese, università, centri di ricerca, inventori indipendenti) titolari di brevetti e popolazione residente (0,9) segnalano un fortissimo ritardo rispetto agli altri cinque paesi. E le tendenze degli ultimi anni non sono confortanti: tra il 1996 e il 2001 il tasso di crescita medio annuo del numero dei brevetti italiani presso lo Uspto, pur ragguardevole (7,3 per cento), è stato significativamente più basso di quello degli altri paesi, tra i quali spicca il 10,6 per cento della Germania.

Quest’evidenza empirica conferma tre dati di fatto inconfutabili: la modesta capacità del nostro paese di realizzare un numero elevato di invenzioni e scoperte sufficientemente utili, nuove e non ovvie da poter essere brevettate; l’esiguità del numero di soggetti che partecipano attivamente alla realizzazione dell’output innovativo nazionale; la non crucialità dell’attività brevettuale per un sistema produttivo dominato dai settori tradizionali e dalle piccole imprese e che proprio per questa ragione trova in fattori non tecnologici il fondamento della propria competitività.

Il quadro cambia leggermente se confrontiamo il “valore” dei brevetti.
Infatti, il divario tra l’Italia e gli altri paesi si riduce solo parzialmente: il numero medio di citazioni ricevute (3,4) avvicina quello dei brevetti francesi (3,8) e tedeschi (3,8), ma resta molto lontano da quello dei brevetti del Regno Unito (4,3), del Giappone (4,7) e, soprattutto, degli Stati Uniti (5,2).
Evidentemente, i brevetti dei soggetti che negli ultimi quattro decenni hanno contribuito all’output innovativo del nostro paese sono in generale caratterizzati da una minore capacità di creare un significativo cluster innovativo rispetto a quelli dei loro omologhi dei paesi più avanzati.
Dunque, non solo l’Italia ha una propensione a brevettare inferiore a quella dei paesi tecnologicamente più progrediti, ma non brilla neppure per il “valore” (medio) dei suoi brevetti.
E questo alimenta l’impressione di una debolezza endemica del nostro sistema nazionale dell’innovazione.

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