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Più R&S! Più R&S! Sì, ma in quali settori?

L’Italia investe poco in ricerca e sviluppo. I dati mostrano che soprattutto i settori maggiormente “high tech” segnano il passo. Occorre una politica della ricerca che ci agganci al resto dell’Europa, non i pericolosi segnali di autarchia industriale che provengono dal Governo.

Mentre altrove si discute della costituzione di un Consiglio Europeo delle Ricerche, verso cui sembrano puntare Francia, Germania e Regno Unito, in Italia ci si interroga sull’arretratezza tecnologica del paese, cercando di individuarne cause, conseguenze e rimedi.

L’opinione prevalente – ribadita dal presidente di Confindustria Montezemolo nel suo discorso di insediamento – è che da noi si spenda troppo poco in Ricerca & Sviluppo (R&S), cioè in quell’attività che, secondo la definizione OCSE, le imprese svolgono in modo sistematico e strutturato in dipartimenti e laboratori situati al loro interno e nei quali lavorano a tempo pieno addetti molto qualificati..

Le principali fonti di innovazione.

La R&S è però soltanto una tra le molteplici fonti di innovazione tecnologica a disposizione delle imprese ed è prerogativa di quei settori ad alto livello tecnologico nei quali l’Italia è poco competitiva. Esistono, infatti, altre fonti di innovazione, che l’Ocse definisce “indirette”, dalle quali le imprese possono trarre beneficio: la progettazione, il marketing, il progresso tecnico incorporato nei nuovi macchinari e impianti e il progresso tecnico “scorporato”, acquisito attraverso le licenze sui brevetti di altri soggetti. Il progresso tecnico incorporato, in particolare, è la principale fonte di innovazione per le imprese dei settori tradizionali.

Va quindi sgombrato il terreno da un equivoco: nei settori tradizionali a basso livello tecnologico non si fa R&S in senso proprio e l’innovazione è tipicamente incrementale. A livello aggregato, questo significa che quanto maggiore è il contributo al Pil che un paese ottiene da tali settori, tanto minore sarà la sua capacità di spesa in R&S. Un buon lavoro di progettazione, un’accurata attività di marketing e l’impiego del macchinario tecnologicamente più avanzato sono quanto di meglio le imprese che operano nei settori tradizionali possano fare per mantenersi competitive attraverso l’innovazione. E’ evidente che, qualora ciò fosse insufficiente per fronteggiare la concorrenza di altri paesi, non rimarrebbe molto altro da fare che delocalizzare all’estero.

Nei settori avanzati le cose cambiano. Come dimostra l’esperienza degli ultimi due decenni, a sopravvivere ed aumentare la propria quota di mercato sono soprattutto le imprese con un’elevata intensità di R&S (spesa per R&S su valore aggiunto). Basti ricordare al riguardo che nell’industria mondiale dei computer, a fronte di una media dell’intensità di spesa in R&S superiore al 10 per cento, negli anni culminanti della sua crisi l’Olivetti stentava a raggiungere il 5 per cento.

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Quote di valore aggiunto e intensità di R&S

Nella tabella 1 sono confrontati, per settori manifatturieri raggruppati in base al loro livello tecnologico, l’intensità di R&S ed il contributo al PIL delle imprese dei quattro principali paesi dell’Unione Europea (Francia, Germania, Italia e Regno Unito), del Giappone e degli Stati Uniti.

L’Italia è il paese che ottiene la più elevata quota di valore aggiunto dai settori di livello tecnologico basso e medio-basso, i quali sono dovunque caratterizzati dalla più bassa intensità di R&S, con valori prossimi allo zero. I settori di livello tecnologico alto apportano invece un contributo al PIL sostanzialmente inferiore rispetto a Stati Uniti, Germania e Giappone, ma non dissimile da quello di Francia e Regno Unito.

I dati indicano poi un divario enorme tra l’intensità di R&S delle nostre imprese manifatturiere (nel loro complesso) e, soprattutto, quelle di Giappone, Francia e Germania. Il fatto più preoccupante è che anche nella categoria ad alto livello tecnologico l’intensità di R&S delle nostre imprese (0,12) risulta di gran lunga inferiore a quella delle imprese degli altri cinque paesi (tra i quali spicca la Francia con 0,24). E la situazione non migliora nella categoria tecnologica medio-alta, che pure offre un contributo importante al PIL italiano.

In definitiva, è vero che nel nostro paese i settori manifatturieri sono caratterizzati da una bassa intensità di R&S; questo dipende solo in parte dal peso rilevante delle produzioni di basso livello tecnologico ma, soprattutto, dalla modestissima capacità di fare R&S delle imprese dei settori di maggiore livello tecnologico. Ed è in questo ambito che qualcosa dovrà cambiare per colmare il gap che ci separa dai paesi più avanzati, visto che non si può certo pensare di trasformare in imprese ad alta intensità di R&S quelle che operano nei settori tradizionali.

Per fare dell’Italia un paese ad alta intensità di R&S occorre dunque spronare le imprese dei settori high-tech ad investire molto di più. Alleanze strategiche, joint ventures e partecipazione a progetti congiunti con imprese di altri paesi europei potrebbero certamente agevolare questo cambiamento di strategia. Alcune recenti scelte del governo italiano, ad esempio in tema di satelliti per la banda larga, sembrano però evidenziare un orientamento opposto: privilegiando soluzioni “autarchiche”, si rischia di allontanare ulteriormente il paese dall’Europa che conta.

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Tabella 1 – Intensità di spesa in R&S (solo imprese) rispetto al valore aggiunto e quote percentuali di valore aggiunto sul PIL per categoria tecnologica delle imprese manifatturiere – anno 2000

Categoria tecnologica

Italia

Germania

Francia

Regno Unito

Giappone

Stati Uniti*

Intensità di R&S (R&S (ANBERD) su VA)

Alta

0,12

0,23

0,26

0,21

0,24

0,18

Medio-alta

0,03

0,11

0,10

0,08

0,12

0,07

Totale alta e medio-alta

0,16

0,34

0,35

0,29

0,36

0,25

Medio-bassa

0,01

0,02

0,03

0,02

0,04

0,02

Bassa

0,00

0,01

0,01

0,01

0,02

0,01

Totale medio-bassa e bassa

0,01

0,03

0,04

0,02

0,05

0,03

Totale manifatturiero

0,17

0,37

0,40

0,31

0,41

0,27

Quote di VA su PIL (x 100)

Alta

2,0

2,4

2,5

3,2

3,7

5,0

Medio-alta

5,4

8,7

4,3

4,2

6,8

6,1

Totale alta e medio-alta

7,4

11,1

6,8

7,4

10,5

11,1

Medio-bassa

5,8

4,8

3,4

3,9

4,5

4,5

Bassa

6,9

4,6

4,9

6,4

5,6

6,3

Totale medio-bassa e bassa

12,69

9,48

8,30

10,28

10,16

10,83

Totale manifatturiero

20,1

20,6

15,1

17,7

20,7

21,9

*1999. Fonte: elaborazioni e stime su dati Ocse e Insee.

 

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  1. Gian Piero Ponzano

    Ricerca Sviluppo Innovazione……un tormentone.

    La decisione della linea strategica andrebbe presa partendo dalla domanda di R&S e non dall’offerta che arriva spesso da un mondo della Ricerca che non è ASSOLUTAMENTE market oriented come lo è ad esempio quello delle grandi Università e Laboratori Americani.

    A mio parere è quindi indispensabile educare la domanda di Ricerca & Sviluppo degli imprenditori creando un clima di fiducia e traducendo le loro necessità in un’offerta che poi trovi l’impresa che la impieghi utilmente.

    Il mondo della R&S, culturalmente al livello superiore, deve essere quello che cerca di interpretare la domanda o meglio deve maieuticamente estrarla da chi spesso sa dove vorrebbe arrivare ma non conosce i mezzi e percorsi più opportuni.

    Se invece si opera su livelli separati : in alto CHI SA e molto distante ed in basso CHI NECESSITA di R&S, allora viene a mancare la domanda e quindi …..non si fa ricerca o si indirizza verso obiettivi con scarse ricadute…..come dire …..un divertimento cerebrale solitario e sterile!!!

    • La redazione

      Grazie per il commento. Credo, in realtà, che le nostre posizioni siano molto più vicine di quanto appaia.
      Vorrei innanzi tutto smentire il luogo comune secondo il quale la ricerca delle grandi università americane è market-oriented. Sicuramente non lo è tradizionalmente e se lo è diventata un po’ tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 è stato a causa del Bay-Dole Patent and Trademark Amendments Act, che ha facilitato l’attività brevettuale e di licenza delle università americane, concedendo ai titolari di finanziamenti pubblici di brevettare in proprio i risultati della loro ricerca. E’ vero che ne è seguita una autentica esplosione di brevetti (cfr. l’articolo di David Mowery e Richard Nelson apparso nel numero di gennaio 2001 di Research Policy), ma da una analisi delle citazioni ottenute questi sono risultati di qualità relativamente modesta (cfr. l’articolo di Rebecca Henderson, Adam Jaffe e Manuel Trajtenberg pubblicato nel numero di febbraio 1998 della Review of Economics and Statistics).
      Passata quell’ubriacatura, la filosofia dominante negli Stati Uniti è di conseguenza tornata ad essere quella tradizionale, che può essere riassunta con le parole di due padri fondatori della moderna economia dell’innovazione, Nathan Rosenberg e Richard Nelson. Le università svolgono ricerca di base, finalizzata alla comprensione di determinati fenomeni ad un livello fondamentale. Tuttavia, questa ricerca non è indifferente rispetto ai grandi problemi ed obiettivi tecnologici che il paese si pone e mantiene dunque una natura problem-solving. Visto che l’industria fa pochissimo nel campo della ricerca di base, perché i risultati attesi sono di lungo periodo e bassa appropriabilità, il sistema americano dell’innovazione ha allora applicato rigidamente il principio della divisione del lavoro anche a questa attività. La R&S delle imprese si concentra sulla risoluzione di problemi di breve periodo, riducendo così l’intervallo tra il momento della ricerca e quello della commercializzazione del suo output. Le università, che non sono particolarmente abili nello svolgere quest’attività market-oriented, si occupano invece dei problemi di lungo periodo e dello sviluppo di conoscenze che prima o poi torneranno utili anche all’industria. Tanto imprese che università cooperano dunque, per quelle che sono le rispettive competenze, alla realizzazione dei principali obiettivi tecnologici che il paese si prefigge di raggiungere. Ed è su questa interazione virtuosa fra unità di intenti e separazione di ruoli che si basa la supremazia tecnologica degli Stati Uniti.

      Cordiali saluti
      Enrico Santarelli

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