Pubblicato, anche se non in versione definitiva, il piano nazionale di allocazione delle emissioni di gas serra. Si istituisce così un sistema di scambio dei permessi di emissione, essenzialmente per il sistema elettrico e l’industria. Suscitano perplessità le quote allocate ai settori, perché la scelta fatta non ci avvicina al nostro target di riduzione e gli altri interventi previsti per raggiungere l’obiettivo sono difficilmente realizzabili. In un futuro molto prossimo, il nostro paese potrebbe perciò essere obbligato a ricorrere al costoso acquisto di crediti sul mercato del carbonio.

Il 20 aprile l’Italia ha pubblicato, non ancora in versione definitiva, il Piano nazionale di allocazione delle emissioni di gas serra, che recepisce la direttiva europea dell’ottobre 2003. La direttiva istituisce un sistema di scambio dei permessi di emissione, essenzialmente per il sistema elettrico e l’industria.

Le caratteristiche del piano italiano

Il meccanismo, in breve, è il seguente: i paesi membri devono assegnare agli impianti di dimensione superiore a 20 MW permessi (quote) a emettere anidride carbonica.
Se un impianto emette meno di quanto consentito può vendere i permessi in eccesso ad altri impianti che hanno emesso più di quanto consentito, ma possono in questo modo rispettare il tetto alle emissioni imposto dal regolatore.
L’idea di fondo è che gli impianti con costi di abbattimento minori riducano le emissioni più degli impianti che hanno alti costi di abbattimento, e vendano a essi i propri crediti. Attraverso tale scambio si realizza la minimizzazione dei costi di abbattimento e, quindi, l’efficienza.
Il piano italiano si caratterizza per due aspetti essenziali: il criterio di assegnazione e l’ammontare di quote assegnate.

Per l’assegnazione delle quote, le opzioni tradizionali sono due: assegnare un numero di quote proporzionali alla produzione storica oppure alle emissioni storiche dell’impianto.
La differenza tra questi due criteri può essere spiegata con un semplice esempio: supponiamo che vi siano due impianti ugualmente produttivi, ma che il primo – più efficiente sotto il profilo ambientale – abbia emesso meno CO2 del secondo. Con il criterio della produzione storica entrambi gli impianti riceverebbero lo stesso numero di quote, mentre con quello delle emissioni storiche il primo, più efficiente, riceverebbe un numero inferiore di quote.
Pertanto, il criterio della produzione storica premia le imprese caratterizzate da una maggiore efficienza ambientale.
L’Italia ha scelto di adottare il criterio della produzione per alcuni settori (calce, acciaio, ceramica, cemento, energia da “cogenerazione”) e quello delle emissioni per altri (carta, laterizi, raffinazione, vetro).

Per la generazione elettrica più tradizionale ovvero quella che genera solo elettricità, e non anche calore, e che costituisce la parte più cospicua delle emissioni soggette alla direttiva, l’Italia adotta il criterio atipico delle emissioni previste. Alla base di questa scelta vi è l’incertezza originata dalla profonda ristrutturazione del parco termoelettrico e dalla nascente Borsa elettrica: poiché il contesto elettrico futuro non rispecchierà quello passato, si è preferito procedere sulla base della stima delle emissioni future. Certo, ciò rappresenta un elemento non marginale di incertezza, ma occorre riconoscere che era difficile fare diversamente.
Sulla questione di quante quote assegnare ai settori, la scelta effettuata suscita qualche perplessità.
Il piano di allocazione smentisce di fatto la delibera del Cipe del 2002, nella quale si definivano le linee guida per la riduzione dei gas serra: lì si fissavano “limiti massimi” alle emissioni di settore che il piano attuale rivede quasi sempre verso l’alto. Ora, da una parte è vero che tale smentita è dovuta alla revisione dell’inventario delle emissioni e, soprattutto, alla revisione verso l’alto delle previsioni di emissione, per la forte domanda elettrica registrata negli ultimi anni. Dall’altra, tuttavia, occorre riconoscere che, pur prendendo le previsioni del piano così come sono, le quote allocate ai settori avvicinano in minima parte l’Italia al proprio target. I numeri sono eloquenti (Mton. gas serra):

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Obiettivo Kyoto

476,1

Tendenziale al 2010

607,7

Surplus al 2010

131,6 (+27,6%)

Abbattimento generato dal piano

24,4

Noi e l’Unione europea

Altri paesi europei condividono, con l’Italia, una situazione di criticità: Irlanda, Spagna, Portogallo, Austria, Danimarca. Altri, invece, potrebbero mitigare le proprie emissioni in misura superiore al necessario: Francia, Germania, Svezia e Regno Unito. Nel complesso, secondo le stime dell’Agenzia europea per l’ambiente, le emissioni sono in crescita: nel 2010, la riduzione rispetto al 1990 sarà pari solo allo 0,5 per cento, ovvero a un sedicesimo di quanto richiesto dal Protocollo all’Unione europea. Data questa situazione di complessiva criticità, il piano di allocazione danese assegna le quote abbassando le emissioni totali del 7,4 per cento rispetto allo scenario tendenziale. Quello irlandese le abbassa di circa il 6 per cento. Quello olandese di circa il 10 per cento. Quello inglese, infine, rafforza le misure già progettate nel programma nazionale contro il cambiamento climatico e porta le emissioni di circa il 15 per cento sotto il livello del 1990, quando il Regno Unito aveva un obiettivo del – 12,5 per cento.

L’ultima spiaggia dei crediti di carbonio

Per l’Italia, i dati evidenziano come, pur con il piano di allocazione, rimarrebbe un surplus di oltre 100 Mton. di gas serra, ovvero le emissioni italiane sarebbero del 23 per cento superiori all’obiettivo. A ciò si potrebbe replicare che, sia nella delibera del 2002 che nel piano di allocazione, si individuano altri interventi che dovrebbero avvicinarci al target: ad esempio, interventi di riforestazione (11,2 Mton. CO2) e progetti di riduzione delle emissioni all’estero (12 Mton. CO2eq.). Inoltre, si individua un set di “ulteriori misure”, interne ed estere, il cui potenziale di abbattimento è compreso tra 52 e 94,9 Mton. CO2eq.
Tuttavia, proprio per la loro dimensione impressionante, è lecito nutrire forti dubbi sulla realizzabilità di tali numeri: il fatto che il sistema potenzialmente possa generare cospicui abbattimenti di emissione non assicura che essi verranno effettivamente realizzati. Al contrario, la recente storia energetica del paese ci dice che le emissioni tendenzialmente crescono e che gli interventi correttivi sviluppano la loro azione solo nel medio-lungo periodo.
In sintesi, la distanza dall’obiettivo è ormai così ingente che sorge la sensazione che tanto la delibera quanto il Nap siano un riflesso di quel meccanismo che gli anglosassoni chiamano “wishful thinking”: ritenere vero ciò che si desidera che sia vero.
Certo, il piano di allocazione è caratterizzato da un contenuto di operatività superiore a quello della delibera del 2002. E induce nei settori regolati dalla direttiva una riduzione delle emissioni pari al 7,9 per cento, superiore alla riduzione media prevista per gli altri settori (6,2 per cento).
Ma, sono i numeri a confermarlo, è una riduzione insufficiente. È vero che numerose ragioni spingono a non appesantire con tetti eccessivamente stringenti l’industria e il settore elettrico. Due per tutte: la bassa intensità energetica del paese e la bassa intensità carbonica per unità di Pil, che collocano il nostro paese tra i primi d’Europa. Tuttavia, appellarsi a queste ragioni non risolve il problema, semplicemente lo rimanda. Il 2008, primo anno del periodo di vincolo (2008-2012), è vicinissimo ed è verosimile che l’Italia dovrà allora ricorrere estensivamente all’acquisto di crediti sul mercato del carbonio. Se così sarà, l’industria e i cittadini potrebbero, domani, pagare molto ciò che, oggi, potrebbe costare meno.

 

 

 

 

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