Gli amministratori nominati dalla proprietà non possono essere realmente indipendenti. Pubblicizzarli come un elemento di qualità delle società è quantomeno ipocrita. I criteri previsti dal Codice di autodisciplina perché un soggetto possa essere definito indipendente sono decisamente vaghi, ma nomine recenti dimostrano che sono comunque violati. Per tutelare davvero i piccoli azionisti, dovrebbero essere le minoranze a indicare i consiglieri indipendenti, se non il presidente del collegio sindacale. L’elencazione di questi ulteriori incarichi di Marchionne sembra quasi irrilevante e tediosa. Ma a ben guardare, ci mostra proprio l’essenza del problema. Le regole del Codice Il Codice di autodisciplina, varato dal comitato per la corporate governance delle società quotate, promosso dalla Borsa Italiana spa, stabilisce che un amministratore per poter essere qualificato come “indipendente” non debba intrattenere direttamente o indirettamente o per conto di terzi, né debba aver di recente intrattenuto, relazioni economiche con “la società, le sue controllate, con gli amministratori esecutivi, con l’azionista o il gruppo di azionisti che controllano la società, di rilevanza tale da condizionarne l’autonomia di giudizio”.
La Société Générale de Surveillance, come ricavabile dal suo sito Internet, è una società specializzata nell’attività di “inspection” (verifica della qualità, della quantità e del peso di beni scambiati da altri soggetti), di “testing” e “certification” (verifica della qualità e delle performance di diversi prodotti e della loro rispondenza ai requisiti richiesti da governi o da agenzie per il rilascio di certificazioni di conformità). Tra gli azionisti della Sgs, ve ne sono due che possiedono quote superiori al 20 per cento: la famiglia von Finck e la Worms & Cie. L’azionista di maggioranza della Worms & Cie è, con il 53,07 per cento del capitale, l’Ifil.
Riassumendo: è lecito qualificare un amministratore della Fiat come “indipendente” se lo stesso è, contemporaneamente, amministratore delegato di una società “partecipata” da un’altra, a sua volta controllata di diritto dall’Ifil?. Il buon senso e il pudore imporrebbero una risposta negativa.
Il buon senso sembrerebbe rafforzato anche dalla nomina della stessa persona ad amministratore delegato della Fiat. Tanto più in un delicato momento di transizione, è difficile immaginare che la proprietà chiami a tale rilevante carica un soggetto che le sia estraneo, che non risulti a essa legato da profondi rapporti. I quali ovviamente sono il frutto di uno stratificarsi di azioni nel tempo e che quindi contrastano con la possibilità che sino all’istante precedente quello stesso soggetto avesse invece goduto di un’adeguata indipendenza. Ma siamo su di un piano che potrebbe essere definito “indiziario”, almeno da coloro che sono sempre pronti a sollevare lo scudo del garantismo salvo poi dimenticarsene quando sarebbe necessario proteggere i soli soggetti che hanno effettivamente bisogno di garanzie: i piccoli azionisti. È quindi opportuno esaminare quali siano i criteri regolamentari che un soggetto deve rispettare per poter essere definito indipendente.
Ferme restando le perplessità rispetto alla vaghezza della regola che rende il nostro codice di corporate governance assai meno pregnante degli omologhi approvati in altri paesi europei, appare difficile conciliare tale definizione con la qualifica di “amministratore indipendente” attribuita sino a poco tempo fa a SergioMarchionne.
Il caso è oggi divenuto eclatante, ma era già noto agli osservatori più attenti, così come se ne conoscono altri analoghi. È lecito domandarsi perché Borsa Italiana, che ha giustamente pubblicizzato l’adozione del Codice, non intervenga in proposito.
E, se è vero che il codice non è soggetto ad approvazione della Consob perché non è un regolamento, è altrettanto vero che sarebbe auspicabile un intervento di moral suasion da parte dell’autorità di controllo, teso a ottenere la definizione di regole serie, il loro sostanziale rispetto e l’adozione di adeguate sanzioni in caso di inosservanza. Sono, questi, elementi imprescindibili per forme di autoregolamentazione credibili. Purtroppo, come insegna anche l’esperienza maturata in tema di comunicazioni sull’internal dealing, sono estranei alla nostra cultura che mira a ritenere l’autoregolamentazione un paravento dietro cui celare la deregolamentazione.
Le considerazioni da trarre sono semplici. Non può esistere indipendenza negli amministratori nominati dalla proprietà. È ipocrita crederlo e disonesto pubblicizzarlo come un elemento di qualità delle società. Se si vogliono (realmente) tutelare le minoranze, altre devono essere le strade da seguire. La scelta più logica, sostenuta da Assogestioni, è che la nomina degli amministratori indipendenti avvenga a opera delle minoranze, attraverso il voto di lista. Si tratta di una soluzione parzialmente accolta dal progetto di legge sulla tutela del risparmio che però ha visto l’opposizione degli emittenti (Confindustria e Assonime). Questi ultimi hanno avanzato una proposta, sottoscritta anche da Abi e Ania, che prevede sia la Consob a nominare, in caso di inerzia delle minoranze, un sindaco.
Meglio prevedere che nelle società quotate il presidente del consiglio sindacale sia nominato dalle minoranze.
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