La riforma dei sussidi alle imprese si presta perfettamente a un’operazione di riduzione della spesa accompagnata da una riduzione della tassazione senza l’esigenza di compensazioni. Un intervento così disegnato non ridurrebbe l’ammontare di risorse disponibili per un sistema produttivo già fiaccato da anni di crisi. Eliminerebbe invece trasferimenti improduttivi, consentendo una riduzione generalizzata del cuneo fiscale che beneficerebbe tutte le aziende. Un articolo scritto da due degli autori del Rapporto al presidente del Consiglio e ministro dell’Economia e al ministro dello Sviluppo.

A ogni proposta di riduzione o eliminazione di una voce di spesa pubblica è sempre possibile – anzi è abitudine comune – opporre l’argomento che quella particolare attività è essenziale per il buon funzionamento e la crescita della nostra società, e che quindi la sua eliminazione provocherebbe grave danno. Non sempre – anzi molto raramente nel caso dei contributi alle imprese – queste argomentazioni sono sostenute dall’evidenza empirica, cioè non sempre si trova evidenza a favore dell’ipotesi che quelle attività siano davvero utili, ad esempio ad accrescere la produttività o l’occupazione. In particolare, in molti casi l’evidenza empirica suggerisce che la cancellazione dei contributi consentirebbe di risparmiare denaro pubblico senza produrre alcun effetto negativo.

I SUSSIDI INUTILI

Un piccolo ospedale, con una scala inferiore a quella ottimale, ma vicino a comunità lontane da altri ospedali, è uno spreco? La risposta dipende dai parametri di riferimento, ma deve anche rispondere alla domanda quale sia l’effetto di quella particolare spesa sul benessere complessivo della società, non solo dei residenti di quelle aree. Qualcuno infatti dovrà pagare quell’ospedale, e le maggiori imposte che ricadranno su tutti i cittadini – non solo coloro che beneficiano dell’opera – potrebbero indurli a lavorare meno, investire meno, comunque a spendere meno: l’effetto complessivo potrebbe essere nullo o addirittura negativo. Non costruire quell’ospedale potrebbe generare risorse nette sufficienti per compensare gli abitanti di quelle comunità.
Insomma: seppure molti tagli siano individualmente criticabili e possano ridurre il reddito di particolari settori della società, un taglio della spesa pubblica, se usato per diminuire la pressione fiscale, e se accompagnato (ove necessario) da opportune redistribuzioni, può essere espansivo. È vero in generale, ed è evidentemente tanto più vero quanto più si incide su capitoli di spesa il cui effetto è piccolo o addirittura negativo anche a livello locale.
Dal punto di vista della quantificazione dell’effetto, la spesa per gli aiuti alle imprese rappresenta un caso speciale. Esiste una consolidata base teorica per determinare se l’intervento dello Stato è opportuno e se èefficace. Trasferimenti dello Stato alle imprese sono giustificabili solo in presenza di “fallimenti di mercato”, cioè di situazioni in cui l’economia produce una quantità non ottimale di un certo bene, nel senso che il benessere della società nel suo complesso migliorerebbe se si producesse una quantità diversa dall’equilibrio di mercato di quel particolare bene. Un sussidio potrebbe allora contribuire a ristabilire un livello di produzione socialmente ottimale. Un classico esempio è il finanziamento delle spese per ricerca e sviluppo o gli incentivi per le rinnovabili.
La presenza di un fallimento di mercato non è tuttavia sufficiente per giustificare un sussidio. Innanzitutto i costi indiretti (amministrativi, o derivanti dalla distorsione degli incentivi degli imprenditori, o dall’intermediazione di mafie), seppur difficili da valutare, non debbono superare i benefici. Inoltre, per essere efficace, il sussidio deve generare attività addizionali e non finanziare attività che l’impresa avrebbe intrapreso comunque. Anche da questo punto di vista, la spesa per gli aiuti alle imprese costituisce un caso speciale. Esiste un corpo consolidato di studi rigorosi che hanno analizzato l’efficacia di molti dei provvedimenti utilizzati e l’evidenza che ne emerge è chiara: gran parte dei trasferimenti alle imprese non generano alcuna addizionalità. L’indagine sulle imprese industriali della Banca d’Italia nel 2005 domanda alle imprese percettrici di un sussidio agli investimenti cosa avrebbero fatto in mancanza di quel sussidio. Il 74 per cento dichiara che avrebbe fatto esattamente gli stessi investimenti. Del restante 26 per cento, il 17 per cento dichiara che l’investimento sarebbe stato comunque fatto, ma in un periodo successivo. Solo il 2 per cento dichiara che l’incentivo ha permesso di intraprendere un investimento che l’impresa non avrebbe potuto sostenere a causa della mancanza di altre fonti di finanziamento. Esiste qualche caso in cui la spesa ha effetti addizionali, come per il credito di imposta alla ricerca e sviluppo delle Pmi. Ma il messaggio generale che emerge dall’analisi dei sussidi alle imprese è chiaro: sono in larga parte una voce di spesa improduttiva.

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RIDURRE ANCHE LA TASSAZIONE

La riforma dei sussidi alle imprese si presta quindi perfettamente a un’operazione di riduzione della spesa accompagnata da una riduzione della tassazione senza l’esigenza di compensazioni. Nel rapporto che abbiamo consegnato al presidente del Consiglio, proponiamo di seguire esattamente questa strada. A fronte di ogni euro di sussidio eliminato, il Governo dovrebbe garantire una riduzione di pari ammontare del cuneo fiscale – Irap e/o oneri sociali che verrebbero fiscalizzati e coperti dai tagli dei trasferimenti.
Un intervento così disegnato non ridurrebbe l’ammontare di risorse disponibili a un sistema produttivo già fiaccato da anni di crisi. Sostituirebbe trasferimenti improduttivi, spesso a favore di imprese con connessioni politiche piuttosto che con buoni progetti imprenditoriali, consentendo una riduzione generalizzata del cuneo fiscale che beneficerebbe tutte le imprese creando quindi un ampio consenso favorevole a questi interventi. Si potrebbe anche prevedere di mantenere qualche forma di incentivazione, ma a condizione che si applichi a situazioni in cui è evidente un fallimento di mercato e che sia erogata con strumenti di documentata efficacia. Ma non c’è dubbio che l’utilizzo che più stimolerebbe la crescita è la riduzione della pressione fiscale.
Secondo diverse stime (si veda la Nota informativa del 24.7.2012 di Prometeia e Alesina, Favero e Giavazzi 2012) un taglio di 10 miliardi di sussidi (il perimetro individuato nelle nostre analisi) potrebbe portare nell’arco di 2-3 anni a un aumento del Pil fra lo 0,7 e l’1,5 per cento e a una riduzione dei prezzi al consumo dell’1 per cento, contribuendo sia a migliorare la competitività delle imprese italiane sia ad aumentare il potere d’acquisto delle famiglie.
Riformare il sistema di sussidi alle imprese non è facile. I centri di spesa sono molteplici. Quasi la metà dei sussidi sono gestiti dalle amministrazioni locali, soprattutto le Regioni, che godono di ampia autonomia rispetto al Governo centrale. Un provvedimento che incida profondamente sui sussidi alle imprese si scontra con gli interessi particolari sia della politica, che si vedrebbe sottratta uno strumento di influenza, sia delle imprese beneficiarie. Non è difficile prevedere una forte opposizione da parte di questi interessi. Ma se si vuole procedere sulla strada di minore spesa per minore tassazione, questo è il capitolo di spesa da cui iniziare. Sta a chi ha a cuore gli interessi generali del paese far sentire la propria voce.

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 » Tagli ai sussidi alle imprese: quale evidenza?, Alessandro Sterlacchini  14.09.2012

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