Opportunamente modificato, il modello contributivo delineato nel 1995 può assicurare a regime equità ed equilibrio finanziario al sistema previdenziale italiano. Con la riforma varata a luglio, invece, il Governo ha fatto altre scelte. Gravi soprattutto la rinuncia all’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione previsto per il 2005, la perdita di flessibilità nelle scelte di pensionamento e il disallineamento nel trattamento di donne e uomini.

L’allungamento della vita aumenta irreversibilmente il quoziente di dipendenza (pensionati/attivi). L’aliquota di equilibrio è il prodotto di quest’ultimo per il replacement cost (pensione/salario medi) il quale rappresenta la quota del salario mediamente capace di pagare il costo di una pensione. Pertanto, per evitare gli aumenti della pressione contributiva generati dalla maggiore longevità, è possibile reagire in due modi: elevando l’età di pensione oppure contenendo le prestazioni. Il primo rimedio taglia il male alla radice in quanto previene l’aumento stesso del quoziente di dipendenza. Il secondo riduce il replacement cost: se meno lavoratori possono contribuire per un pensionato, allora una minor quota del salario deve bastare per pagare una pensione.

I vantaggi del sistema contributivo

Il buon senso suggerisce che il trade off fra l’aumento dell’età di pensione e l’impoverimento relativo dei pensionati sia risolto a favore del primo. Sfortunatamente, però, prevalgono spesso preoccupazioni ideologiche, timori elettorali e giochi di potere. Si deve dar atto al Governo di aver saputo superare queste “vischiosità” adottando provvedimenti che aumenteranno l’età media di pensionamento a partire dal 2008. Tuttavia, l’audacia infine prevalsa non ha avuto un supporto tecnico adeguato e le soluzioni adottate appaiono scorrette o incoerenti. Ciò non desta meraviglia in un paese che, in campo pensionistico, continua ad accusare gravi ritardi culturali, mentre altrove le scelte previdenziali sono vieppiù ispirate dal dibattito scientifico. Per enfatizzare l’opportunità di questa tendenza, nella Lecture tenuta in Banca d’Italia lo scorso 18 giugno, Peter Diamond ricorda che i politici intenzionati a costruire un ponte non si sognano di sottrarre agli ingegneri il compito di elaborarne il progetto. Se opportunamente perfezionato, il modello contributivo che l’Italia ha accettato nel 1995 di sperimentare, può assicurare, a regime, equità ed equilibrio finanziario. Non è un caso che la capitalizzazione virtuale sia ormai studiata e apprezzata nel mondo, soprattutto grazie all’esemplare realizzazione che la Svezia ha saputo farne nel 1998. (1) Limitatamente alla fase transitoria, restava l’annoso problema posto dalle pensioni di anzianità, risolvibile mediante correttivi attuariali del tipo proposto dal primo Governo Berlusconi. I correttivi avrebbero consentito di anticipare le logiche del modello contributivo coniugando la flessibilità del pensionamento con la garanzia che il valore attuale della rendita sia indipendente dalla vita residua.

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Le scelte del Governo

Il secondo Governo Berlusconi ha invece adottato scelte diverse. La peggiore è stata quella di rinunciare all’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione previsto per l’anno prossimo.  L’aggiornamento è lo strumento con cui lo schema contributivo persuade i lavoratori a posporre il pensionamento man mano che la longevità aumenta. Infatti, alla riduzione dei coefficienti necessaria per spalmare i montanti contributivi su vite residue più lunghe, i lavoratori reagiscono accumulando montanti maggiori. Fra i molti difetti della Legge Dini, vi è la previsione di aggiornamenti decennali, particolarmente insufficienti quando la mortalità diminuisce rapidamente. Vi è quindi il rischio di discontinuità eccessive che l’improvvida rinuncia all’aggiornamento del 2005 renderà definitivamente ingovernabili. Per questa ragione la scelta del Governo appare come un formidabile attacco al modello contributivo. È stato detto che la rinuncia è un segnale di buona volontà offerto in cambio dei provvedimenti sulle pensioni di anzianità. Escludendo ogni correttivo attuariale, questi hanno aumentato il requisito anagrafico minimo da 57 a 60 anni nel 2008 e a 61 nel 2010. In verità, non è chiaro il senso dello “scambio” visto che il sindacato resta compattamente ostile a tali provvedimenti. In ogni caso, preoccupa che la rinuncia all’aggiornamento dei coefficienti possa significare che, nella scala di preferenze del Governo, il riequilibrio nel breve-medio termine prevale sulla sostenibilità strutturale nel medio-lungo. Lascia perplessi anche il fatto che, a regime, la flessibilità del pensionamento sia stata preservata (parzialmente) solo in campo femminile. Infatti è previsto che i lavoratori entrati in assicurazione dal 1996 dovranno andare in pensione a 65 anni se uomini oppure fra 60 e 65 anni se donne. In precedenti interventi su lavoce.info si è ricordato che il modello contributivo garantisce l’equilibrio finanziario della ripartizione indipendentemente dall’età pensionabile e che appare “menomato” uno schema contributivo privo di flessibilità. (2)  Non sono evidenti neppure le ragioni per cui si è voluto riproporre il disallineamento fra sessi che nel 1995 era sembrato superato dai tempi. In proposito, dev’essere sfuggito che il disallineamento non giustifica più l’uso di coefficienti di trasformazione “unisex” ottenuti mediando quelli maschili con quelli femminili. Altri dubbi sorgono sulla ammissibilità del fatto che, dal 2010, alle lavoratrici entrate in assicurazione entro il 1995 sarà impedito di andare in pensione prima di 61 anni mentre quelle entrate dopo potranno andare a 60.

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(1) Cfr. S. Gronchi, “Modelli Ndc e riforme italiane: sarà mai possibile un sistema contributivo in Italia?”, in Cer, Rapporto n. 3 del 2003. Cfr anche S. Gronchi e S. Nisticò, Sistemi a ripartizione equi e sostenibili: modelli teorici e realizzazioni pratiche, Cnel-Documenti, n. 27/2003.

(2) Cfr. S. Gronchi, “L’aliquota fa la spesa”, lavoce.info del 12/2/2004.

 

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