In tutta Europa si fa molta retorica sui regimi di protezione del lavoro, ma la questione della loro organizzazione è poco discussa. La necessità di incentivare il disoccupato a cercare una nuova attività, la possibilità di rinegoziare le retribuzioni ex post, i vincoli di liquidità sull’impresa, modificano il tasso contributivo di equilibrio e il livello ottimale di protezione dell’impiego, ma non la validità del principio generale secondo cui l’impresa deve internalizzare i costi sociali della disoccupazione. Così, il costo complessivo del licenziamento per l’azienda dovrebbe sostituire il controllo giudiziale o amministrativo.

Non c’è istituzione che operi nel mercato del lavoro più controversa dei regimi di protezione del lavoro (Rpl), intesi come l’insieme di norme e procedure che disciplinano la cessazione del rapporto di impiego.

Le posizioni in campo

Le imprese lamentano non solo i costi diretti associati a questo genere di regolamentazione, ma anche la complessità e l’incertezza che essa comporta. Sottolineano infatti che i Rpl rendono più difficile rispondere ai mutamenti tecnologici e della domanda, il che determina, a catena, una perdita di efficienza, un aumento dei costi e, in ultima istanza, un minor numero di nuovi posti di lavoro.
I lavoratori evidenziano viceversa il disagio della condizione di disoccupazione, e la necessità che l’impresa ne tenga conto nel decidere di chiudere uno stabilimento o di licenziare un dipendente. È logico supporre che siano favorevoli ai Rpl coloro che ne beneficiano, ma i risultati delle ricerche suggeriscono che la base del consenso verso questi strumenti è più ampia.
Molti economisti, oltre che numerose organizzazioni internazionali, dall’Ocse al Fmi, hanno posizioni simili a quelle imprenditoriali. Teorizzano infatti l’esistenza di un trade-off fra assicurazione (contro il rischio di disoccupazione, n.d.t.) ed efficienza economica: i Rpl da un lato frenano la riallocazione delle risorse in caso di necessità, riducendo l’efficienza, dall’altro aumentano i costi, diminuendo i livelli di occupazione;
In presenza di spinte così contraddittorie, i Governi dei paesi europei, in particolare quelli dell’Europa continentale, si sono dimostrati estremamente cauti (o timidi, a seconda dei punti di vista). Hanno imparato, sovente a caro prezzo, che i lavoratori i quali beneficiano dei Rpl non accettano facilmente una loro riduzione; e che proprio quei lavoratori costituiscono la maggioranza della forza lavoro e un ampio settore dell’elettorato.
Di conseguenza, molte recenti riforme dei Rpl, se non addirittura tutte, sono intervenute sulla flessibilità al margine, con l’introduzione e l’incentivazione dei contratti a tempo determinato, tipicamente meno protetti e soggetti a una regolamentazione amministrativa più semplice, lasciando pressoché inalterata la tutela del lavoro per così dire “tipico” (subordinato e a tempo indeterminato, n.d.t.). Questo sistema duale ha determinato un mercato del lavoro a sua volta duale, caratterizzato da un’efficienza solo parziale e da sostanziali effetti redistributivi.

Come definire un buon sistema di Rpl

Stupisce quanto poco sia stata approfondita, nonostante gli entusiasmi e la retorica, la questione del come dovrebbe essere modellato un buon sistema di Rpl. Attualmente, le organizzazioni internazionali e le imprese premono per una riduzione delle tutele, i lavoratori e i sindacati lottano per mantenerle inalterate e i Governi sembrano orientati a riformarle nel senso di una maggiore flessibilità. Nonostante questo, l’obiettivo finale ‑ strutturare i Rpl nel modo migliore possibile ‑ non è stato analizzato con precisione.
Si considerino al riguardo i seguenti interrogativi:
‑ È opportuno stabilire per legge una qualche forma di protezione dell’impiego? O sarebbe meglio sancire la piena libertà di licenziamento (employment at will) come principio cardine e affidare all’accordo tra le parti la definizione di eventuali tutele aggiuntive?
‑ Nel caso in cui sia la legge a prevedere la tutela, questa deve consistere semplicemente nel pagamento di una somma da parte dell’impresa che licenzia o devono essere imposte anche limitazioni di altro tipo? E in quest’ultimo caso, è utile una verifica giudiziale? Secondo quali modalità?
‑ Quale deve essere l’entità dell’esborso a carico del datore? Questo denaro deve essere versato direttamente al lavoratore o allo Stato? In quest’ultimo caso, deve essere sufficiente a coprire la spesa per i trattamenti di disoccupazione? Il pagamento deve essere effettuato interamente al momento del licenziamento o è opportuno che sia diluito nel tempo?

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Teoria e realtà in Francia

L’obiettivo principale del rapporto che abbiamo predisposto su richiesta del Governo francese è cercare di rispondere a queste domande e utilizzare i risultati dell’analisi per tratteggiare i contorni di una possibile riforma nel contesto francese.
Ipotizziamo che le imprese e lo Stato siano indifferenti al rischio, i lavoratori siano avversi al rischio e il mercato non offra assicurazione contro la disoccupazione. Definire il livello ottimale di protezione in questo contesto è semplice: il datore deve internalizzare il costo della disoccupazione. Se, ad esempio, le indennità di disoccupazione sono gestite da un apposito ente (ciò che è reso consigliabile dalla necessità che ne vengano controllati i requisiti di erogazione e in particolare il grado di disponibilità e di mobilitazione dei singoli beneficiari), l’azienda deve versare all’ente stesso una somma pari al sussidio percepito dal dipendente licenziato: ovvero, il “tasso di contribuzione” dovrebbe essere uguale a uno.
In questo senso, assicurazione contro la disoccupazione e protezione del lavoro sono entrambe fondamentali nell’impianto istituzionale complessivo del mercato del lavoro.
Questo modello, come tutti i modelli, è utile, ma semplifica troppo una realtà ben più complessa.
Il mercato del lavoro è caratterizzato da numerose imperfezioni, che inevitabilmente alterano il sistema ottimale dei Rpl, e che spaziano dalla necessità di incentivare il disoccupato a cercare una nuova attività, alla possibilità di rinegoziare le retribuzioni ex post, ai vincoli di liquidità cui è sottoposta l’impresa. Tutto questo modifica il tasso contributivo di equilibrio e il livello ottimo di protezione dell’impiego, ma non la validità del principio generale secondo cui l’impresa deve internalizzare i costi sociali della disoccupazione.
Tornando alle caratteristiche delle istituzioni realmente esistenti, è evidente che la teoria appena esposta contrasta con il sistema francese almeno per due aspetti.
In primo luogo, in Francia i contributi delle imprese destinati al fondo contro la disoccupazione sono oneri sociali fissi: ovvero, a un maggior ricorso ai licenziamenti non corrisponde un aumento dell’onere contributivo; e le buonuscite, così come fissate dalla legge, sono di ammontare modesto. In altri termini, il tasso di contribuzione si avvicina allo zero.
In secondo luogo, l’iter da seguire per lo scioglimento del rapporto è sottoposto a un pesante controllo amministrativo e giudiziale, perché le imprese devono dimostrare la colpa del lavoratore nel caso di licenziamento individuale e l’esistenza di valide ragioni economiche nel caso di licenziamenti collettivi. È inoltre possibile, e sovente accade, che i giudici contestino le scelte del datore, il quale si ritrova così a sostenere costi ingenti, in termini sia monetari, sia di tempo.
Questa caratterizzazione suggerisce due possibili linee di riforma.
In primo luogo, aumentare il tasso di contribuzione per le imprese, ossia introdurre una tassa di licenziamento, e ridurre gli oneri sociali fissi, così che il costo della disoccupazione venga internalizzato dalle aziende.
In secondo luogo, limitare il ruolo del sistema giudiziario: se il datore decide di sopportare i costi associati a un licenziamento, che dovrebbero, al margine, essere maggiori di quelli attuali, i giudici non dovrebbero poter sindacare questa decisione.
Infine, nel nostro rapporto al Governo francese proponiamo l’idea che il danno subito dal lavoratore in conseguenza del licenziamento non sia costituito soltanto dal periodo di disoccupazione che ne consegue (destinato a essere compensato adeguatamente dal trattamento di disoccupazione), ma anche da una componente ulteriore, che inerisce al fatto stesso dell’interruzione del vecchio rapporto di lavoro e alla estromissione dal relativo ambiente personale e professionale. Questa componente dovrebbe essere compensata adeguatamente da un indennizzo diretto a carico dell’impresa.
Nel quadro della proposta contenuta nel nostro rapporto, il costo complessivo del licenziamento per l’impresa dovrebbe sostituire il controllo giudiziale o amministrativo sul motivo economico del licenziamento, costituendone un filtro automatico assai più efficiente.

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L’articolo riassume il contenuto di un rapporto predisposto da O. Blanchard e J. Tirole per incarico del Governo francese, che può leggersi nella sua versione originaria, sotto il titolo “Contours of employment protection reform” , e, tradotto in italiano, sotto il titolo Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2004, fasc. 2, parte I, pp. 161-211.

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