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La scuola e la famiglia

L’analisi dei dati dell’indagine Pisa mostra che la bassa competenza degli studenti italiani non è un problema generalizzato. I risultati sono più che soddisfacenti al Nord e nei licei. Preoccupanti al Sud e negli istituti professionali. Le carriere dipendono dalla famiglia e dal luogo di nascita, negando alla radice l’uguaglianza delle opportunità. La scuola dovrebbe perciò operare come meccanismo compensativo. Ma per farlo, occorre conoscere nel dettaglio quali elementi contribuiscono a potenziare l’acquisizione di competenze.

La recente pubblicazione dei risultati dell’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) relativi al 2003 ha riportato all’attenzione del dibattito il basso livello di competenze conseguite dagli studenti italiani quindicenni.
Nel 2000 il focus dell’indagine era sulle competenze linguistiche: a fronte di un punteggio medio di tutti i paesi fissato convenzionalmente pari a 500, la media del punteggio degli studenti italiani era 486. Tuttavia, quel punteggio risultava da 539 punti per gli studenti iscritti nei licei, 479 negli istituti tecnici e 435 nelle scuole professionali.

Le competenze nel 2000 e nel 2003

Nel 2003 il focus era invece rivolto alle competenze matematiche, ma la situazione è, se possibile, peggiorata.
Il punteggio medio degli studenti italiani è 466, sempre contro una media convenzionale di 500. Il punteggio medio nei licei (per le capacità di problem solving, l’unica pubblicata nel sito italiano dell’Invalsi: http://www.invalsi.it/ri2003/pisa2003) è 513. Scende a 474 negli istituti tecnici e 406 nelle scuole professionali. Altrettanto preoccupanti sono le variazioni territoriali: nel 2000 si oscillava tra 519 nelle scuole del Nord-ovest e 458 nel Sud e nelle isole (vedi tabella sottostante). Sfortunatamente, non è possibile fornire analoga disaggregazione per i dati relativi al 2003, in quanto nei dati ufficiali non vengono fornite queste informazioni.

Punteggio mediano conseguito – Italia – indagine PISA 2000

 

nord ovest

nord est

centro

sud

isole

Totale

scuola media inferiore

367.05

451.09

450.17

276.01

276.90

scuola professionale

477.84

460.61

456.98

392.65

399.79

441.61

istituto tecnico

512.28

535.04

464.50

450.63

441.61

480.49

licei

573.39

565.76

533.84

531.67

501.27

540.26

Totale

519.49

526.08

496.11

471.95

458.42

492.67

 

La sicurezza del liceo

Il problema della bassa competenza degli studenti italiani non è quindi un problema generalizzato o generalizzabile. Se si abita in una grande città del Nord e si mandano i propri figli in un liceo, i risultati dell’indagine Pisa non dovrebbero preoccupare: i figli conseguono obiettivi che non hanno nulla da invidiare a quelli di finlandesi e coreani. Chi invece deve preoccuparsi sono i genitori delle regioni meridionali, che iscrivono i propri figli in scuole tecniche o professionali, perché il livello medio delle competenze registrato in quelle scuole occupa gli ultimi posti in classifica.
Dal punto di vista delle politiche scolastiche, la questione è individuare le determinanti del livello di competenze di uno studente, per riuscire a capire se e in che misura i divari siano correggibili. L’indagine Pisa rappresenta un’occasione formidabile perché contiene una grande varietà di dati sia sull’ambiente familiare (dall’istruzione dei genitori al numero di libri presenti in casa, fino ad arrivare alla frequenza di discussioni su temi di carattere culturale) sia sull’ambiente scolastico di riferimento (grado di disciplina morale degli insegnanti, misurato sulla dichiarazione degli studenti e dei dirigenti scolastici; carenza di spazi e di strutture).
Dall’analisi dei dati relativi alle determinanti delle competenze linguistiche acquisite nel 2000 (vedi figura), si nota come l’iscrizione a un liceo rappresenti il fattore a più elevato impatto. Esso raccoglie e “sintetizza” l’insieme dell’impatto dei fattori socio-ambientali: quando infatti si tiene conto del tipo di scuola secondaria tutte le altre caratteristiche dell’ambiente familiare (istruzione e prestigio sociale) perdono di significatività statistica.

Il ruolo della famiglia

L’impatto del background familiare sembra quindi esaurirsi con la scelta di una specifica scuola secondaria. È interessante notare che a parità di altre, l’unica caratteristica familiare che sopravvive è la scelta di una scuola privata, cui è però associato un premio negativo, a conferma probabilmente del fatto che gli istituti privati in Italia svolgono un ruolo di scuole di recupero per i figli meno capaci delle famiglie più ricche. Dalla stessa analisi si nota altresì che le risorse materiali hanno scarso impatto, così come poco importanti sono i fattori di scala (dimensione della scuola, rapporto studenti/insegnanti, carenze degli edifici e comportamento degli insegnanti). Resta invece molto forte la determinante associata al comportamento disciplinare degli studenti, unica variabile che mantiene un effetto molto più forte e significativo della corrispondente variabile associata al comportamento dei docenti. La diversa tipologia delle scuole secondarie disponibili in Italia permette alle famiglie di autoselezionarsi secondo la propria collocazione sociale, e questo è uno dei fattori principali che spiega il mantenimento di una bassa mobilità intergenerazionale. Se ogni studente avesse la stessa probabilità di accedere a un liceo indipendentemente dalla famiglia di provenienza, l’esistenza di percorsi scolastici differenziati non costituirebbe motivo di preoccupazione: gli studenti più brillanti accederebbero alle carriere scolastiche più prestigiose (e successivamente più remunerate nel mercato del lavoro), mentre quelli più scarsi potrebbero accontentarsi di carriere più brevi, con un ingresso più veloce nell’occupazione. Ma quando le carriere dipendono dalla famiglia e dal luogo di nascita, viene negata alla radice l’uguaglianza delle opportunità, e occorrono interventi correttivi. In questa situazione, la scuola dovrebbe operare come meccanismo compensativo, facendo leva sui meccanismi di apprendimento e sulle risorse umane e finanziarie di cui dispone. Ma per fare questo occorre conoscere nel dettaglio quali elementi contribuiscono a potenziare l’acquisizione di competenze da parte dei quindicenni.

 

Determinanti delle capacità di lettura basate sulle caratteristiche della scuola – Italia – Pisa 2000

Nota: coefficienti Beta provenienti da stime con metodo dei minimi quadrati ordinari – pesi campionari – errori robusti all’eteroschedasticità – Pisa 2000 – 150 scuole – R²=0.80

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  1. barbara balboni

    I temi di cui parla l’articolo mi appassionano da sempre; sono di quelli che un po’ ingenuamente hanno creduto, da studenti, nella scuola e nell’università come contesti dove si imparava tanto, dove ci si formava: i più capaci avrebbero poi rivestito le posizioni di maggior responsabilità e prestigio guidando per il meglio, ciascuno nel suo campo, una società sempre più complessa. Poi si esce, magari con un bel voto in tasca, e ci si rende conto che le magnifiche sorti e progressive sono una chimera e si deve ricominciare tutto da capo: occorre tanta fortuna, una buona dose di improvvisazione, tanta resistenza fisica, ma, spesso, specie per i ruoli di maggior responsabilità, la preselezione non viene fatta sull’intelligenza o la preparazione. Volevo solo evidenziare che una buona carriera scolastica ed universitaria finiscono per essere sempre meno correlate ad una carriera futura brillante. Conosco tanti giovani uomini e donne preparati e titolati che saltano da un lavoro precario all’altro, si adattano a fare sia cose prestigiose ( senza ricevere compensi tali da consentire di mantenersi) sia lavori più “umili” (bisogna pur mangiare), ma senza grandi prospettive. Non voglio dire che la scuola sia inadatta a preparare alle esigenze del mondo di oggi, penso che sia veramente un luogo di fomazione preziosissimo, con tutti i difetti del sistema e gli eventuali errori degli operatori. Vorrei solo dire all’articolista che la convinzione che la scuola formi e selezioni talenti che poi potranno esprimersi nella società, presente in tanta parte del mondo accademico, semplifica molto la realtà esterna. Data la velocità dei processi sociali ed economici una laurea vantaggiosa oggi, può produrre disoccupati fra 4 – 5 anni; ho sempre più l’impressione che il “mercato” non si ponga grossi problemi di selezione nel medio – lungo periodo: bisogna prendere ora gli operatori che servono, debbono rendere, quantitativamente, il più possibile, mantenendo una qualità media. Una scuola degna di questo nome non può inseguire esclusivamente o prioritariamente questi obiettivi, perchè finirebbe per distruggersi e distruggere delle potenzialità importanti delle persone.
    Detto questo poi vorrei aggiungere che fuori dalla scuola, o meglio dopo la scuola, molto più che dentro la scuola ( ed uso il termine in senso lato, comprendendo anche l’università), i giovani partono da posizioni molto dispari, il loro futuro dipendende dal caso ( essere al momento giusto nel posto giusto), dalla appartenenza a gruppi sociali che offrono opportunità di conoscere persone od occasioni di lavoro ( famiglia in senso lato, partiti, associazionismo), da un contesto familiare più o meno armonico e positivo, dove vengono dati strumenti per occasioni formative ( corsi extra all’estero, possibilità di coltivare interessi, capacità di relazionarsi agli altri in modo adeguato) oltre a modelli concreti per impostare l’apprendimento o la ricerca di lavoro. Questo nella mia esperienza sembra spiegare come mai la maggior parte dei ragazzi provenienti da famiglie con un basso livello di istruzione di base, pur essendo stati bravissimi in tutta la carriera scolastica, sono stati raggiunti e sorpassati da ragazzi che durante gli anni della scuola erano decisamente meno brillanti ( e per ragioni indipendenti dall’impegno profuso), ma provenivano da contesti più “istruiti”, per cui avevano coltivato le lingue, le relazioni sociali e fatto sport. I primi, usciti dal sistema scolastico, erano “soli” quando si trattava di integrare la preparazione, cercare contatti, organizzare il lavoro e le attività extrascolastiche, gli altri avevano un bacino, una cassetta degli attrezzi, magari meno profonda ma più completa da cui attingere, per cui erano più “utilizzabili”.
    In conclusione: la scuola secondo me ha fatto e fa tantissimo, è giusto e doverso fare tutto il possibile per alzare i livelli di conoscenza dei nostri ragazzi, ma forse sarebbe il caso di non dare troppo per scontato che basti una scuola “decorosa” per garantire in un paese una maggiore mobilità sociale ed in prospettiva una maggiore propensione alla innovazione tecnologica, alla riceca di una maggior qualità della vita ecc..
    Lo si vede soprattutto dalle tante situazioni in cui il livello scolastico medio, come quello universitario, è buono, perfettamente in standard, ma tutte queste belle cose vengono realizzate in misura inferiore a quella che ci si potrebbe aspettare dai livelli scolastici.
    Ci sono dinamiche sociali, economiche ed anche psicologiche ( il legame di “appartenenza”, dei giovani italiani al contesto familiare, ed alle subculture che questo adotta, è molto particolare) che condizionano questi “risultati” molto di più di una buona scuola, e forse sarebbe
    il caso di valutare in misura maggiore questi aspetti; sarebbe bello associare alle ricerche sulle conoscenze, come quelle citate nell’articolo, anche ricerche psicologiche, e seguire nel tempo, in maniera non episodica, carriere scolastiche, universitarie e lavorative di gruppi significativi di ragazzi.
    Un saluto

    • La redazione

      Condivido molta dell’analisi riportata dalla commentatrice. Il mercato del lavoro italiano, molto popolato di micro imprese, lascia poco spazio alle competenze scolastiche, ed è per sua struttura poco meritocratico. Numerose analisi mostrano come la votazione universitaria sia poco influente sulle modalità d’ingresso dei laureati nel mondo del lavoro (reddito, tempo di attesa). Tuttavia una scuola meno “classista” andrebbe verso una maggior uguaglianza nelle opportunità d’accesso

  2. donatella accidenti

    Mi fa piacere che ogni tanto si evidenzi come, nonostante tutti i “buchi” del nostro sistema scolastico, non siamo, a priori, quasi per definizione, più “somari” rispetto a popolazioni di altri paesi industrializzati. Merito di generazioni di insegnanti e di famiglie che hanno scommesso sull’istruzione dei ragazzi, ed a cui tutti dovremmo, ogni tanto, pensare con gratitudine. All’epoca dell’Unità di Italia eravamo uno dei popoli con il tasso di analfabetismo più alto in europa ( v. Gianantonio Stella, “L’orda” ), nel secolo scorso abbiamo vissuto 2 guerre, ed una è stata fatta in casa, sulla pelle dei civili; dopo, molti dei nostri genitori sono dovuti andare a lavorare prestissimo, con la quinta elementare in tasca. Per valutare con un po’ di obiettività dove siamo arrivati, e cosa non va, bisogna ricordare anche da dove siamo partiti, e forse abbiamo fatto più strada di quello che pensiamo.
    Grazie dell’attenzione alle questioni che rigardano la scuola e buon lavoro.

  3. Giuseppe Coco

    Vorrei dissentire dall’opinione di Checchi, del quale peraltro condivido in gran parte le tesi, secondo la quale:

    ‘La diversa tipologia delle scuole secondarie disponibili in Italia permette alle famiglie di autoselezionarsi secondo la propria collocazione sociale, e questo è uno dei fattori principali che spiega il mantenimento di una bassa mobilità intergenerazionale’.

    Checchi assume implicitamente che l’accesso ad un liceo aumenta le prospettive degli individui a prescindere dalla loro posizione sociale. Manca cioè dal quadro una analisi delle cause della auto-selezione quasi perfetta che avviene al livello di scuola secondaria. Si trascura in particolare la possibilità che le scelte scolastiche siano ‘guidate’ dalla appartenenza sociale non per fattori di natura culturale, ma come semplice effetto collaterale. L’accesso alla maggior parte delle carriere in Italia avviene di fatto sulla base dell’appartenenza sociale (professioni e carriere pubbliche di elevato profilo certamente, ma anche imprenditoria ovviamente) oltre che per il possesso formale di un titolo di studio. In queste condizioni il ‘rendimento’ del titolo di studio è molto minore in assenza del primo requisito (l’appartenenza familiare). La auto–selezione avviene quindi per motivi perfettamente razionali (perché investire seriamente in un Liceo o in Università se poi mi manca il requisito fondamentale per mettere a frutto professionalmente il titolo: la posizione familiare). In questa prospettiva eliminare la differenziazione tipologica della scuola secondaria ha effetti modesti sulla mobilità intergenerazionale. Senza serie riforme dell’accesso alle carriere (si pensi alle professioni), della struttura finanziaria (accesso al credito), e/o improbabili cambiamenti di tenore culturale (in particolare nella gestione degli impieghi pubblici) mi sembra francancamente ingenuo ipotizzare effetti dirompenti.
    Si noti che questa analisi è a mio parere supportata dalla prima tabella (divari geografici). E’ infatti a meridione che l’accesso alle carriere è più strettamente legato alla posizione familiare ed i ‘rendimenti’ puri dell’istruzione sono ancora più scarsi. Infatti, e non a caso, è a meridione che la performance scolastica è peggiore across the board, e i divari sono maggiori. Il divario massimo si registra tra studenti di diverse scuole secondarie proprio nel meridione (circa 140 punti tra istituti professionali e licei a fronte di meno di 100 nel centro-nord). Perché infatti uno studente di scuola professionale dovrebbe investire in termini di impegno, quando il suo destino professionale è segnato.
    D’altro canto risulterebbe difficile, se questo canale di mobilità sociale fosse realmente disponibile, spiegare come mai a fronte di differenziali oggettivi così marcati non assistiamo a iscrizioni in massa ai licei.

  4. Pietro Valeri

    C’è da chiedersi come mai i nostri politici così come pure gli Enti preposti come il MIUR e i vari INDIRE e l’INVALSI non pubblicizzino adeguatamente i risultati del PISA 2003.
    Anche il testo che possiamo trovare sul sito internet dell’INVALSI è estremamente povero di contenuti e di dati. Basterebbe poco per tradurre in italiano i rapporti già diffusi dall’OCSE in inglese…
    Nessuno (nè Governo, nè Opposizioni) pone con forza la necessità di mettere in atto un sistematico e continuo processo di valutazione delle nostre scuole, a differenza di quanto avviene negli altri Paesi europei e di quanto avviene per una qualsiasi attività lavorativa.
    Mi sono fatto un’idea che spero sia errata.
    I dati ci dicono che negli ultimi quindici anni, la percentuale di diciannovenni diplomati in Italia è passata dal 50% al 75%. Probabilmente questo risultato è stato ottenuto con un abbassamento degli standard qualitativi. I dati di PISA 2003 lo confermerebbero ma lo conferma soprattutto il fatto che il 40% degli studenti presentano debiti formativi (Il sole 24 ore del 3.2.2005).

  5. andrea de martini

    Mi fa piacere constatare che in Italia esista almeno un sito informativo libero come il vostro, che si occupa di fatti senza vederli con occhiali di parte.
    Quando si dice che la scuola italiana va male si dice una verità assolutamente parziale come dimostramno i dati di PISA (e Salvemini diceva che se di due verità una si tace è evidente che quella sola detta diventa una bugia!): i licei tengono a livelli di eccellenza mondiale. Ma perché tutto questo non si dice? Perché (per una questione di malinteso “politically correct”?) nei Media non si parla di questi diversi livelli d’istruzione in relazione alla geografia del Paese? Chi scrive non è antimeridionalista ed è lontanissimo e avverso alle posizioni leghiste, ma il non affrontare questi problemi (il diverso livello di preparazione al SUd, i concorsi più facili, le votazioni scolastiche e universitarie spaventosamente alte senza un oggettivo riscontro nella pratica, ecc.) partendo dalla realtà offre al Paese un’analisi distorta cui non possono che seguire scelte sbagliate.

    Un saluto cordiale

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