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Una terza via tra primarie e partiti

La travagliata vicenda delle primarie del centrosinistra pone un dilemma di rilievo per la “qualità” del nostro sistema democratico: se sia possibile soddisfare la sacrosanta esigenza di rinnovare le procedure di selezione del personale politico, pur continuando a fare affidamento per vincere le elezioni sulle forme organizzative tradizionali. Per superarlo, sarebbe innanzitutto necessario fare delle primarie un metodo che vale sempre e per tutti. E studiare un sistema misto che attribuisca potere di voto direttamente agli elettori, ma anche ai rappresentanti delle “forme organizzate”.

Domenica 20 febbraio si svolgono in Toscana le primarie per scegliere i candidati (presidente e consiglieri) che i Ds e la coalizione Toscana futura presenteranno alle elezioni regionali del 3 e 4 aprile. Le primarie toscane sono regolate da una legge regionale, la prima in Italia, del dicembre 2004. Le “primarie all’italiana” sono appena nate e già corrono il rischio di avvitarsi su se stesse trasformandosi da metodo potenzialmente utile per una selezione aperta e democratica della classe dirigente, in un ambiguo e fragile meccanismo, destinato a rapida e ingloriosa fine.

I problemi aperti dalle primarie

Il classico marziano che leggesse per la prima volta i giornali italiani scoprirebbe con sconcerto che nelle primarie volute dal centrosinistra per la scelta del leader, si vogliono presentare candidati con lo specifico obiettivo di perdere. Nella speranza che una sconfitta con un buon numero di voti attribuisca al perdente un futuro potere contrattuale. Che finirebbe, però, con l’indebolire il vincitore. Con maggiore sconcerto, il nostro marziano apprenderebbe poi che nella prima applicazione del metodo primarie sul piano regionale ha vinto il candidato che, secondo le non tanto celate preoccupazioni di gran parte delle stesse forze che devono sostenerlo, ha maggiori probabilità di perdere le elezioni. Anche dando per scontati tutti i rischi insiti nella novità di un sistema finora mai sperimentato, qualcosa non funziona.
Il primo problema riguarda il fatto che le primarie comportano un oggettivo indebolimento del peso dei partiti (anzi, quelle per il candidato premier sono state lanciate proprio per questo motivo). E in un sistema come il nostro dove invece i partiti contano ancora molto, è ovvio che facciano di tutto per non perdere terreno: di qui lo stranezza delle candidature non alternative, ma con espliciti e unici fini di visibilità, soprattutto da parte delle forze minori.
Il secondo è il rischio che una eccessiva “apertura” della legittimazione al voto (ad esempio tramite un piccolo obolo e una generica dichiarazione di adesione a una determinata area politica) possa prestare il fianco alla affermazione di candidati poco competitivi e soprattutto poco rappresentativi di tutto lo schieramento, in un contesto dove i partiti continuano a giocare un ruolo preponderante al momento della battaglia elettorale.

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Il dilemma e la sua soluzione

In sostanza, e al di là delle contingenze, i sofferti travagli del centrosinistra pongono un dilemma di enorme rilievo per la “qualità” del nostro sistema democratico: se sia possibile soddisfare la sacrosanta esigenza di rinnovare le procedure di selezione del personale politico, superando i meccanismi di mera cooptazione partitica, pur continuando a fare affidamento, per vincere le elezioni, sulle forme organizzative che tradizionalmente regolano la partecipazione politica, i partiti appunto. Per superare il dilemma sarebbe innanzitutto necessario, coerente e probabilmente anche più utile fare delle primarie non uno strumento tattico da utilizzare giusto quando serve, ma un metodo che vale sempre e per tutti. Se per il candidato premier si adotta una certa procedura per immettere sane dosi di “democraticità” nella sua scelta, perché questa stessa procedura non deve valere anche per tutti coloro che ambiscono a cariche politiche e che nel corso del loro mandato dovrebbero garantire un rapporto diretto con gli elettori (deputati e senatori, per esempio)? Un premier legittimato dalle primarie sarebbe molto più forte e solido se appoggiato da una maggioranza di parlamentari legittimati allo stesso modo. Esistono già numerose proposte su questa materia (alcune anche di disciplina legislativa) che potrebbero divenire un utile punto di riferimento. Ed è innegabile che una simile estensione avrebbe anche il grande pregio di favorire una reale partecipazione degli elettori, oggi troppo spesso costretti a “subire” nei collegi uninominali candidati frutto esclusivo delle defatiganti trattative interne alle coalizioni.
Non vi è dubbio, però, che nelle “primarie dal basso” è più forte il rischio di candidature nate da scelte avventate e magari appoggiate solo da pochi militanti, che non vengono poi condivise al momento del voto da tutto lo schieramento e dai partiti che ne fanno parte. Rischio che potrebbe essere “mitigato” attraverso l’attribuzione di un peso nella scelta dei candidati non solo agli elettori, ma anche ai partiti e alle componenti organizzate della società. Un simile meccanismo ha avuto alcune parziali sperimentazioni in occasione delle ultime elezioni amministrative. Ad esempio, a Bologna il candidato sindaco del centrosinistra è stato scelto da una assemblea alla quale avevano diritto di partecipare e votare, in base a quote prestabilite, i partiti, le associazioni che ne facevano richiesta e rispondevano a determinati requisiti (e che pesavano in base al numero degli aderenti) e una componente di rappresentanti eletti direttamente dai cittadini che dichiaravano di appoggiare quello schieramento politico.

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Un sistema misto

In sostanza, sul piano delle regole, si può individuare un sistema “misto” che attribuisce potere di voto direttamente agli elettori, ma anche ai rappresentanti delle “forme organizzate”. Si tiene così conto del fatto che oggi la partecipazione alla vita politica avviene sia attraverso i tradizionali canali, sia attraverso strumenti e contenitori diversi dai partiti. Il coinvolgimento di tutte le molteplici forze che poi dovranno impegnarsi per la battaglia elettorale finale, attraverso la definizione di determinati quorum fin dalla presentazione dei candidati, potrebbe favorire scelte più meditate, coese e responsabili. E forse consentire una contesa dove con più facilità emergono e si confrontano idee e programmi, oltre che la personalità dei candidati. Le modalità tecniche di queste procedure non sono ovviamente esenti da difficoltà.  Se per i partiti esistono criteri certi sul numero degli iscritti, non è semplice verificare con sicurezza la dimensione, e quindi il relativo peso in termini di rappresentanza, di altri soggetti collettivi che assumono forme molto diverse (associazioni, comitati, gruppi spontanei). Così come occorre individuare adeguati presidi contro il verificarsi di situazioni di “collateralismo” tra associazioni che si dichiarano formalmente autonome, ma che di fatto sono legate ai partiti. È evidente che queste modalità possono avere successo soprattutto nei collegi elettorali di aree cittadine e provinciali, mentre non sono facilmente esportabili sul piano nazionale. Ma, di fronte alle vicende degli ultimi tempi, vale forse la pena di affrontare il faticoso tentativo di trovare strade nuove per risolvere uno dei principali problemi della politica italiana: la scelta e il rinnovamento delle sue classi dirigenti. Detto per inciso, una volta superate le ben note “anomalie”, la stessa questione si presenterà anche per lo schieramento di centrodestra.
In altri termini, su questo spinoso terreno può esserci, tra primarie e partiti, una “terza via”?

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Sommario 14 febbraio 2005

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Effetto tsunami

  1. piero

    piu’ che stare a discutere su come introdurre le primarie in Italia, i partiti politici ed i commentatori dovrebbero riflettere su un problema piu’ urgente della politica: l’assenza di una vera dialettica sui contenuti. anche le primarie, come le elezioni generali, diventeranno presto una collezione di spot elettorali e strategie di marketing. se l’obiettivo delle primarie e’ aumentare il tasso di partecipazione popolare nella politica, io credo che falliranno. il tasso di democraticita’ e’ basso? la gente non partecipa? il problema non sono i partiti o la legge elettorale. il problema e’ l’appiattimento generale della politica, la mancanza di un contraddittorio chiaro ed esplicito, l’incapacita’ e/o la paura di proporre qualcosa di veramente nuovo. la gente vede, a ragione, che comunque vadano le elezioni poco o niente cambiera’ nella propria vita. ecco perche non partecipa.

    • La redazione

      Caro Piero,

      La ringrazio per il commento, ma non condivido il fatto che l’appiattimento della politica trovi la sua origine solo nella assenza di “contenuti”. In realtà, i contenuti marciano con le gambe delle persone e se queste per candidarsi alle cariche politiche si devono sottoporre alla verifica dei potenziali elettori dovranno anche misurarsi con programmi e proposte concrete. In altri termini, se un candidato è costretto ad andare in una assemblea a confrontarsi con coloro che poi dovranno votarlo alle elezioni per guadagnare da subito il loro consenso, difficilmente potrà nascondersi dietro gli slogan elaborati dagli strateghi della comunicazione che lavorano per il suo partito, ma dovrà, invece, spiegare ai potenziali elettori quello che vuole fare, con quali metodi, e come risponderà del suo operato. E se lo spiega male questi potranno preferire un altro candidato. In altri termini sono convinto che le primarie, proprio perché basate su un confronto diretto con gli elettori, siano un efficacissimo antidoto proprio contro il rischio, da Lei paventato, di una riduzione della politica a puro “marketing”.

  2. Daniel Pescini

    Egregio Francesco Vella,

    Ho appena letto il suo intervento “Una terza via tra primarie e partiti”, sulla newsletter de La Voce.

    Condivido la sua affermazione in cui dice che le primarie possono essere un metodo potenzialmente utile per una selezione aperta e democratica della classe politica italiana, selezione fino ad oggi effettuata esclusivamente dai partiti italiani, con la cooptazioneve che costringe gli attori a comportarsi in modo diverso. adottano quel metodomente utile per una selezione .

    Ma proprio perché “metodo”, le primarie si prestano, come ogni consultazione elettorale, a diventare degli strumenti in mano ai partiti, piuttosto che a diventare la cornice normativa che dovrebbe costringere i partiti a modificare i proprio criteri di selezione del personale politico. Ed in questa sua natura di metodo, e non d’imposizione, sta la fragilità e l’ambiguità del loro meccanismo.

    Si vogliamo porre il problema della selezione del personale politico, occorre fare un’altra domanda: di che natura sono i partiti politici italiani? A mio giudizio si tratta di partiti personalizzati e leaderistici, privi di un’autentica democraticità interna in cui, inevitabilmente date queste premesse, il personale è selezionato in base alla sua fedeltà dimostrata alle direttive del partito e, sempre di più, dei suoi leader. I congressi hanno assunto sempre di più la valenza di grandi riti religiosi, a scapito della dimensione riservata alla discussione e al confronto, dove si eleggono i segretari per acclamazione.

    Si tratta di partiti inratta di artit i segretari per acclamazione. cioè senzaione e al confronto si ribadisce la propria fede, la propria apparten cui ai poteri dei leader non fanno da contrappeso altri poteri capaci di ricreare nella vita interna del partito, quell’equilibrio e quel controllo che è tipico dello Stato democratico. Non esiste neanche uno spazio pubblico di discussione sufficientemente largo e libero per dare la possibilità a tutte le opinioni di poter esistere e contare, di poter influire sui rapporti di forza che invece garantiscono, a chi ricopre i vertici del partito, di tenere saldamente in mano il potere all’interno dell’organizzazione.

    Come si spiegherebbe altrimenti il fatto che i leader dei partiti non siano mai stati cambiati in questi ultimi anni, nemmeno dopo pesanti sconfitte elettorali? Usciti sconfitti dalle elezioni politiche del 1996, Berlusconi, Bossi e Fini hanno mantenuto la guida dei rispettivi partiti, così come è successo per Rutelli e Bertinotti nel 2001, mentre Fassino, dopo aver perso insieme a Rutelli le elezioni, è stato poi proclamato segretario.

    È solo cambiando la natura dei partiti che si può pensare di cambiare i metodi di selezione della classe politica. La natura dei partiti però può essere modificata solo reclamando maggiore democrazia e maggiori spazi di discussione pubblica al loro interno, soprattutto per quanto riguarda i criteri con i quali individuare i candidati alle elezioni, siano esse amministrative, politiche o primarie.

    • La redazione

      Caro Daniel Pescini,

      La ringrazio per l’intervento. Lei ha perfettamente ragione nell’individuare nei partiti uno degli scogli al rinnovamento della nostra classe dirigente, ma nella mia proposta di una “terza via” c’è proprio lo sforzo, da un lato di non lasciare le primarie esclusivamente in mano ai partiti (e ci sono già le avvisaglie di quello che può succedere) , dall’altro di immaginare un metodo che costringa i partiti stessi, nella selezione della classe dirigente, a condividere le loro scelte con i cittadini e con le altre forme organizzative attraverso le quali si fa oggi politica.. Ho, in sostanza, l’impressione che se ci limitiamo a invocare una maggiore democrazia e apertura dei partiti senza individuare regole e procedure che impongano un diffusa partecipazione alle scelte dei candidati anche da parte di chi ai partiti non appartiene, difficilmente ci libereremo dei tradizionali e ormai obsoleti meccanismi della cooptazione.

  3. Massimo Romano

    In relazione all’intervento del prof. Vella “una terza via tra primarie e partiti”, ritengo che la riflessione sulla selezione della classe dirigente sia quanto mai attuale e problematica, uno dei fattori di causa-effetto della transizione incompiuta.
    Partiamo da due esempi. Le primarie in Puglia e la boutade sulle liste dei governatori della CdL, fatti apparentemente distinti ancorché accomunati da una medesima questione di fondo: la crisi di rappresentatività dei partiti.
    E’ una novità? Certamente no. Come uscirne? Ecco il punto. La risposta credo che debba essere ricercata prima che sul piano sociologico-politico, su quello istituzionale. Il sistema politico, inteso come articolazione dei poteri, fisionomia dei poteri e limiti reciproci tra poteri, è una formula vuota se ad essa non si accompagna un sistema elettorale coerente, in grado di intercettare l’istanza di rappresentatività coniugandola con la stabilità e la governabilità.
    Il sistema elettorale attuale produce un bipolarismo conflittuale che ingessa il sistema e riduce drasticamente la capacità riformatrice di entrambi gli schieramenti, che a loro volta subiscono il veto incrociato di poteri forti in grado di insinuarsi nelle falle del sistema pur sfuggendo al principio della responsabilità democratica. Torniamo alla proporzionale? Con soglia di sbarramento e premio di maggioranza? Con il meccanismo delle preferenze?
    Si ritiene che il proporzionale con preferenza sia un sistema intrinsecamente criminogeno, tendente cioè a riprodurre un consociativismo trasversale, lo stesso che determinò la fine della prima repubblica. L’obiezione, se condivisa, è decisiva e preclusiva di un dietro front a favore del sistema vigente prima dei referendum dei primi anni ’90. Il rilievo, però, non è esauriente, a parere di chi scrive. La politica non discute opzioni assolute; il diritto, come astrazione della politica, è sempre il portato di una comparazione tra interessi diversi, dei quali alcuni sono prevalenti. Qual è l’ipotesi alternativa alla proporzionale? Non è altrettanto criminogeno il maggioritario attuale? Per ragioni diverse, certo, ma non mi pare meno importanti di quelle fatte proprie da coloro che ripudiano la proporzionale. Il tema decisivo è questo: una democrazia rappresentativa che istituzionalizza un meccanismo di “nomina” dei parlamentari, calati dall’Olimpo dei partiti sui collegi blindati, non rappresenta una minaccia altrettanto pericolosa? Non è proprio questa la causa della crisi di rappresentatività della politica?
    In conclusione, la crisi della politica è l’approdo neppure così imprevedibile di un sistema politico inadeguato e di una legge elettorale sbagliata. Sia che si opti per la proporzionale con preferenza, soglia di sbarramento e premio di maggioranza (il modello delle regionali) sia che si resti al maggioritario istituzionalizzando il metodo delle primarie, un solo fatto è certo. Si scelga. O l’uno o l’altro. Ma in fretta. Il sistema, così com’è da dieci anni, non va. La macchina non funziona.

    • La redazione

      Ringrazio Massimo Romano per l’intervento che condivido. E’ evidente, come giustamente conclude, che “la macchina non funziona”, ed è altrettanto evidente, questa almeno è la mia opinione, che le primarie si dovrebbero coniugare con un sistema elettorale maggioritario. Il fatto che nel nostro paese non si sia presa con decisione questa strada, ed anzi sono ricorrenti le tentazioni di tornare al proporzionale, non agevola certamente la scelta di metodi innovativi per la selezione della classe dirigente.

  4. enzo pesciarelli

    Il problema è se assegnare ai partiti un ruolo ex ante (primarie di coalizione) o ex post (primarie di partito). Personalmente non credo che le primarie di coalizione rappresentino un buon metodo, in quanto tendono a riproporre in forma diversa quei vizi di autoreferenzialità già ricordati (vanno però necessariamente utilizzate per individuare il leader della coalizione).
    Penso che la soluzione possa trovarsi nelle primarie di partito, lasciando successivamente ai partiti della coalizione il ruolo di indicare le candidature tenendo ovviamente conto dei risultati delle primarie dei singoli partiti, ma anche delle necessarie compensazioni, delle quote da assegnare alle candidature femminili, degli equilibri territoriali, ecc. (ciò evidentemente allo scopo di evitare che il partito o i partiti più forti della coalizione impongano in ogni collegio i propri candidati).
    Si determinerebbero così due effetti positivi: quello di migliorare il livello della partecipazione, ma anche quello di enfatizzare il ruolo di necessaria mediazione svolto dai partiti. In altre parole, questa soluzione permetterebbe di contrastare efficacemente l’involuzione attuale dei partiti e al tempo stesso eviterebbe di trasformarli in semplici notai.

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