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Un cattivo affare

La privatizzazione della Rai sembra destinata a ripetere gli errori delle altre grandi privatizzazioni italiane: cedere al pubblico le azioni di un articolato gruppo industriale prima di averne promosso una ristrutturazione che garantisca condizioni di concorrenza, creando nei fatti un (quasi) monopolista privato. Invece, una soluzione che separi i contenuti del servizio pubblico dai contenuti commerciali sarebbe un buon affare per il ministero dell’Economia e per l’investitore privato. Nonché utile nella prospettiva di un mercato televisivo più competitivo.

La privatizzazione della Rai sembra inserita nell’agenda politica dei prossimi mesi. La cautela è d’obbligo quando si tratta di affrontare profondi cambiamenti nella televisione pubblica, tanto più essendo oramai entrati in una lunga campagna elettorale che occuperà il prossimo anno e mezzo.  È tuttavia utile compiere alcune riflessioni su questo delicato e importante passaggio.
La privatizzazione della Rai è prevista nella legge 112/2004 (Legge Gasparri), che indica all’articolo 21 un calendario relativamente ravvicinato per l’avvio dell’operazione e vincola fortemente le modalità dell’offerta pubblica di vendita della “Rai-Radiotelevisione Italiana Spa” (la holding del gruppo) richiedendo che nessun azionista possa superare la quota dell’1 per cento delle azioni.


L’errore ripetuto


Da quanto sinora è emerso nella fase di gestazione dell’operazione sembrerebbe prospettarsi il collocamento di una quota del 20-25 per cento delle azioni della holding.
La privatizzazione della Rai sembra quindi destinata a ripetere gli errori delle altre grandi privatizzazioni italiane, completate o in itinere, Telecom Italia, Enel, Eni: l’errore di cedere al pubblico le azioni di un articolato gruppo industriale prima di averne promosso una ristrutturazione che garantisca condizioni di concorrenza, creando nei fatti un (quasi) monopolista privato. E vincolandosi implicitamente nei confronti di chi acquista le azioni a evitare in futuro azioni drastiche di riforma, che condizionerebbero il valore delle azioni.
Le privatizzazioni senza concorrenza hanno caratterizzato la seconda metà degli anni Novanta. E sono state interpretate come l’amaro calice imposto dalla prevalenza degli obiettivi di finanza pubblica (il valore delle azioni cedute è maggiore se vendo un monopolio ai privati) su quelli della promozione della concorrenza. Oggi, ritrovandoci con i problemi di competitività di una industria che paga i servizi più dei suoi concorrenti, iniziamo a pentirci di questa miopia. Ma almeno, va detto, nel breve periodo quelle cessioni sono state un buon affare per il Tesoro. Oggi la storia sembra ripetersi con la Rai, qualora si cedessero azioni della holding del gruppo, senza intervenire sulla sua struttura interna e senza seguire la strada alternativa di una cessione di singole società. Il pezzo di Montesi  illustra in modo convincente e documentato come l’acquisto di azioni di Rai-holding non sia un buon affare, e possa essere quindi realizzato solamente a fronte di uno sconto nel prezzo di acquisto, laddove si collochi sul mercato una società con bilanci poco trasparenti, obblighi di servizio pubblico i cui costi non sono chiaramente quantificabili, crucialmente legata alla determinazione del canone. Il contributo di Gambaro , a sua volta, indica come la Rai, pur non sfigurando nei confronti delle altre televisioni pubbliche europee, abbia significative sacche di inefficienza se confrontata con le reti commerciali concorrenti.

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La soluzione possibile


In questi ultimi mesi l’Autorità antitrust ha pubblicato i risultati di una propria indagine conoscitiva sul mercato della pubblicità su mezzo televisivo. Come quasi sempre avviene in questo paese, la lucidità nell’analisi dell’Agcm è seconda solo al silenzio e alla distrazione che la accoglie. È bene richiamare come, anche in quel documento, si indichi la soluzione di separare i contenuti del servizio pubblico, trasmessi in una rete a esso dedicata finanziata unicamente con il canone, dai contenuti commerciali, che verrebbero ospitati dalle altre reti senza obblighi di servizio pubblico e sarebbero finanziate con la sola pubblicità. Queste ultime sarebbero il naturale destinatario della privatizzazione. Questa soluzione, ancorché non esplicitamente indicata nella Legge Gasparri, non ne risulta preclusa. Una soluzione di questo genere risulterebbe contemporaneamente un buon affare per il ministero dell’Economia, che non sarebbe costretto a uno sconto sul prezzo di vendita a copertura degli oneri impropri che l’investitore privato altrimenti assumerebbe acquistando Rai-holding, e una decisione utile nella prospettiva di un mercato televisivo più competitivo. Un caso fortunato in cui le ragioni della finanza pubblica e della concorrenza non sarebbero attestate, come in precedenza, su sponde opposte.


Alcune domande imbarazzanti


Con un piccolo difetto: la rottura del duopolio tri-canale che caratterizza la situazione italiana porrebbe implicitamente alcune imbarazzanti domande. Per quali ragioni il gruppo Mediaset dovrebbe competere con tre reti di fronte a un concorrente (privatizzando) che opera solamente con una o due reti? Quali effetti, in una prospettiva di pluralismo, si eserciterebbero sui comparti collegati della pubblicità su carta stampata, estendendo anche al nuovo concorrente privato i tetti di affollamento pubblicitario estremamente elevati di cui oggi i canali privati godono?
Domande cui la Legge Gasparri ha deciso di non rispondere, affidando queste materie a soglie quantitative estremamente lasche. Ma che tornerebbero necessariamente di attualità di fronte a una privatizzazione Rai che incidesse sull’attuale struttura del settore. Il ministro del Tesoro ha ripetutamente affermato di considerarsi un tecnico prestato alla politica, il cui ruolo si riassume nella predisposizione di soluzioni coerenti tra cui la politica è chiamata a scegliere. La privatizzazione di Rai-holding non rappresenta una soluzione desiderabile né per il Tesoro, né per la concorrenza: in questa vicenda facciamo fatica a rintracciare il contributo di tecnico del nostro ministro.

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Sommario 25 febbraio 2005

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Per un’impresa “responsabile”

  1. Davide Giacalone

    Se mi consentite, però, c’è un elemento che avete dimenticato. Per un intreccio di norme e circostanze, non sintetizzabile in tre righe, la Rai, come tutte le televisioni italiane, entro il 31 dicembre 2006 dovrà cessare le trasmissioni analogiche (vale a dire le uniche oggi conosciute dal grande pubblico) e mantenere solo quelle digitali. Chi compera azioni Rai credendo alle leggi, crede anche a questo. Che, però, è impossibile, giacché tutte le persone ragionevoli sanno che entro quella data non avverrà alcun cambio di sistema.
    Problema: a quel cambio si lega, però, la permanenza della pubblicità su tutte e tre le reti Rai, così come anche la stabilità terrestre delle tre reti Mediaset. Allora, cosa accadrà? La cosa che, oggi, mi sembra più ragionevole è che non potendo cambiare la realtà si cambi la legge. Il che, però, proietta una certa oscurità sulla rispondenza fra quel che oggi si vuol vendere e quel che domani si potrà comperare.

  2. Domenico Picecchi

    Chi ci perderebbe? Due diversi soggetti: Mediaset e i politici.
    La redditività che un impresa ottiene dipende da due diversi fattori: dalle caratteristiche del mercato e dal possesso di vantaggi competitivi da parte della singola impresa. Un incremento della concorrenza sul mercato televisivo rischierebbe di avere un impatto negativo sui conti Mediaset. Non a caso tale operatore è uno dei più profittevoli alivello mondiale.
    Una reale privatizzazione di una parte della Rai danneggerebbe anche alcuni politici che non avrebbero più la possibilità di decidere le nomine sul soggetto privatizzato.

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