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L’ambigua privatizzazione della Rai

Il sistema scelto per la privatizzazione della Rai presenta alcuni risvolti paradossali e finirà per creare inevitabilmente effetti distorsivi nel mercato. A danno dei cittadini che pagheranno un canone pubblico a vantaggio di azionisti privati. O a danno degli azionisti privati che avranno investito capitali in un’azienda che sussidia un servizio pubblico. Sul mercato dovrebbe casomai andare una società svincolata dal servizio pubblico, con i medesimi obblighi di affollamento del concorrente e per la quale non esistono più legami così stringenti con la politica.

L’annunciata prossima privatizzazione della Rai ha acceso un forte dibattito tra fautori e contrari al collocamento in Borsa della società. Ci si concentra soprattutto sulle questioni politiche e sociali, relativamente poco invece si discute degli aspetti puramente economici e finanziari. Anche il recente intervento dell’Autorità antitrust, che ha posto l’attenzione su questi aspetti, sembra già passato nel dimenticatoio. La scelta di privatizzare o meno la Rai, così come altre aziende pubbliche in passato, non può che essere politica. Tuttavia, le modalità della privatizzazione dovrebbero essere coerenti con alcuni fondamentali principi che regolano una economia di mercato. La breve analisi che segue ci porterà a concludere che il sistema scelto per la privatizzazione della Rai presenta alcuni risvolti paradossali e finirà per creare inevitabilmente, come è già accaduto per altre aziende, effetti distorsivi nel mercato.


Quanto vale la Rai


L’andamento operativo della Rai negli ultimi anni in termini di ricavi, costi e investimenti è risultato piuttosto stabile.  Prendendo come riferimento il 2003, la Rai ha fatturato 2,816 miliardi di euro. Di questi poco più del 50 per cento è legato agli introiti del canone; il rimanente è rappresentato, in gran parte, dalla raccolta pubblicitaria. Se consideriamo poi che la Rai ha sostenuto costi operativi, al netto degli ammortamenti, per 1,986 miliardi di euro e circa 600 milioni di nuovi investimenti, abbiamo un totale di 2,586 miliardi di euro di fabbisogno finanziario operativo. Questo significa che la copertura legata dagli introiti del canone (1,432 miliardi) è stata di circa il 55 per cento. Quale che siano i criteri in base ai quali si voglia ripartire l’attività di servizio pubblico della Rai da quella commerciale, la quota di costi relativi alla prima dovrebbe essere pari a questa percentuale. A meno di non configurare uno scenario in cui gli introiti del canone coprono costi per servizi che non potremo per definizione considerare come pubblici, o viceversa una situazione in cui il ramo d’azienda commerciale sussidia i costi del servizio pubblico (cosa che certamente risulterebbe poco gradita ai futuri azionisti privati Rai).
Questi dati confermano che la componente di attività istituzionale svolta dalla Rai è piuttosto elevata e, come ovvia conseguenza, l’assoluta dipendenza dell’azienda dal finanziamento pubblico. Nel contempo, dobbiamo presumere che la quota di attività privata rimanga comunque rilevante, altrimenti sarebbe difficile giustificare il collocamento in Borsa dell’azienda. L’attività privata di raccolta pubblicitaria risulta a sua volta sottoposta a vincoli, con tetti orari che sono tre volte più bassi di quelli delle reti commerciali. Tutto questo pone la Rai in una condizione particolare. Se consideriamo poi che il mercato televisivo del nostro paese è rappresentato al momento sostanzialmente da due aziende, la Rai e Mediaset, ci vuole poco per immaginare che l’intero settore televisivo opera a sua volta in condizioni molto particolari.
Ciò risulta assolutamente evidente facendo solo un semplice confronto tra alcuni dati di bilancio Rai e Mediaset. Quest’ultima, nel 2003, ha operato con un margine a livello di Ebitda del 58 per cento e a livello di Ebit di quasi il 27 per cento, contro, rispettivamente un 29,4 per cento e un 6,3 per cento della Rai, con un utile netto per Mediaset di 4,5 volte quello della Rai, nonostante che Mediaset abbia ricavi di poco superiori a quelli della Rai. Per quanto l’attuale dirigenza Rai sostenga che questo tipo di confronti è improprio, le differenze in termini di performance sono così marcate che risulta difficile spiegarle solo con il fatto che la Rai svolge una rilevante attività di servizio pubblico, che avrà i suoi costi, ma anche indubbi vantaggi in termini di economie di scala e di certezze su parte dei ricavi (il canone). Soprattutto, affermare, come è stato fatto, che gli introiti del canone non coprono tutti i costi relativi agli impegni legati al contratto di servizio pubblico, significa affermare che questa parte di attività opera in perdita e che c’è bisogno evidentemente di una parte dei proventi pubblicitari per portarla in pari. Tutto questo può essere anche normale per un’azienda pubblica, ma pone qualche interrogativo se si tratta di un’azienda da collocare in un mercato borsistico. Infatti, i futuri advisor, scelti per il collocamento, dovrebbero dire alla comunità finanziaria: “L’azienda Rai ha una serie di impegni pubblici per i quali non è pagata a sufficienza dallo Stato e deve quindi fare in modo di trovare altre risorse sul mercato pubblicitario per coprire queste perdite”. Domanda: perché mai un risparmiatore dovrebbe essere così interessato a investire in una società in queste condizioni, quando ve ne sono altre, nel mondo e anche in Italia, del tutto simili per tipologia di attività che non devono fronteggiare né alcuna condizione deficitaria imposta da un contratto con lo Stato, né stringenti vincoli sulla vendita della pubblicità? È evidente come queste condizioni avrebbero come ovvio risultato che le quotazioni della Rai tenderebbero a essere sempre a sconto rispetto ai concorrenti. Forse conviene a tutti credere, e noi siamo di questo avviso, che le differenze in termini di performance rispetto a Mediaset si spieghino in gran parte con il fatto che, in questo momento, la Rai risulta meno efficiente e, soprattutto, che i vincoli sull’affollamento pubblicitario sono fortemente penalizzanti per la Rai (cosa naturalmente ammessa dai suoi vertici), e tendono ad avvantaggiare Mediaset, oggi l’azienda con i migliori fondamentali del settore a livello europeo, che si trova a competere con un concorrente zoppo. Una parziale conferma di tutto questo arriva dalle prime indiscrezioni di stampa, che parlano di un valore complessivo della Rai intorno ai quattro-cinque miliardi di euro, ovvero meno della metà del valore di mercato attuale di Mediaset. Se poi cerchiamo di stimare come potrebbe uscire fuori questo valore, si scopre che occorrono comunque aspettative piuttosto ottimistiche per giustificarlo. Infatti, se consideriamo l’Ebit al netto delle imposte a fine 2003, e ipotizzando un tax rate del 37 per cento e un costo del capitale piuttosto contenuto del 6per cento – ottenuto impiegando un tasso risk free del 4 per cento e un premio per il rischio di appena il 2 per cento – avremo un valore potenziale del business esistente al di sotto dei 2 miliardi di euro. Anche considerando i miglioramenti desumibili dai pochi dati reperibili dal sito Rai sulla semestrale, se confermati, non potremo arrivare a un valore superiore ai 2,7 miliardi. Visti i vincoli sulla pubblicità e immaginando che non vi siano aumenti significativi del canone, i due-tre miliardi di ulteriore valore dovrebbero essere il risultato, in gran parte, di un risparmio permanente in termini di costi o di un’espansione di altre attività; e quindi il frutto di nuovi investimenti. Considerando che l’azienda Rai esiste da ben 50 anni, e visti i vincoli sul suo operato, risulta difficile aspettarsi che nei prossimi anni possa creare maggior valore, tale da giustificare un premio così elevato sul business attuale. La Rai dovrà convincere il mercato di essere in grado di ottenere, e mantenere nel tempo, performance molto superiori a quelle degli ultimi anni. (1)


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Il canone


Forse, però, la cosa più importante da mettere in rilievo non è se la Rai possa in definitiva valere 4, 5 o 6 miliardi, il che dipende ovviamente dalle aspettative più o meno ottimistiche ipotizzate. Ma piuttosto che la leva più potente per incrementare il valore dell’azienda Rai sarebbe in realtà quella dell’imposta-canone, il cui andamento, per sua natura, risulta fortemente condizionato da fattori politici. Basta poco per rendersi conto che ogni incremento/decremento in termini reali del canone, che fosse considerato permanente, determinerebbe un forte incremento/decremento in termini di valore. Questo perché un cambiamento dell’importo del canone non ha in pratica nessun effetto nei costi. Ora, se consideriamo che ogni variazione dell’1 per cento dell’importo del canone determinerebbe una maggiore entrata, al netto delle tasse, di circa 10 milioni di euro all’anno, ipotizzando sempre un costo del capitale del 6 per cento, avremo un incremento di valore di circa 160 milioni di euro. Quindi un aumento ad esempio del 5 per cento del canone potrebbe determinare un aumento di valore di circa 800 milioni di euro. Si tenga presente che un aumento del 5 per cento comporterebbe un aggravio al disotto dei 5 euro del singolo canone annuale.
Dopo il collocamento sul mercato, avremo il paradosso che i possessori di azioni Rai avrebbero tutto l’interesse che il canone aumenti. Infatti, se consideriamo ad esempio un valore di mercato della Rai di 5 miliardi, un incremento del canone del 5 per cento potrebbe determinare un incremento del valore del 16 per cento. Un potenziale sottoscrittore di 10mila euro di azioni Rai vedrebbe quindi aumentare il loro valore di 1.600 euro, a fronte di 5 euro di maggiori imposte. (2)
Affermare questo non significa dire che nei prossimi anni verrà sfruttata necessariamente la leva del canone per sostenere il valore in Borsa della società. Rimane però il fatto che, soprattutto se le cose non dovessero andare troppo bene per la Rai, la tentazione di rimetterle a posto per questa strada sarebbe certamente molto forte. E dobbiamo dire al riguardo che alcune recenti dichiarazioni del ministro delle Comunicazioni, Gasparri non sembrano molto confortanti. Il ministro ha infatti dichiarato, con un certo orgoglio, che: “Oggi la Rai, per chi tanto la critica, ha il bilancio in attivo e grazie a questo io ho potuto non aumentare il canone. La Rai vince, risparmia e non chiede altri soldi”. Cosa ci voleva dire il ministro, che nel caso in cui la Rai non fosse stata in attivo o avesse avuto qualche difficoltà, avrebbe aumentato il canone?
Tutto questo, ancora una volta, può essere naturale per un’azienda pubblica, ma quando si tratta di una società quotata in una Borsa valori diventerebbe un vero e proprio vantaggio comparato, rispetto alle altre società, sulla possibilità di raccogliere risorse sul mercato, che contraddice i più elementari principi di concorrenzialità e di efficienza di un mercato finanziario. Aggiungiamo subito che non crediamo sia sufficiente il paravento di una contabilità separata, né qualche strano meccanismo regolamentativo come l’ipotesi di un canone pluriennale, per rimuovere il dubbio che il canone non sarà utilizzato come una sorta di last resort per rimettere a posto le cose. Questa contraddizione non potrà essere eliminata finché la governance dell’azienda resterà così fortemente vincolata al controllo politico, e fino a che le cose rimarranno così è arduo dimostrare quale sia l’utilità della quotazione della Rai sul mercato azionario, che è concepito per accogliere imprese private e non pubbliche.

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La finta privatizzazione di un soggetto ibrido


In definitiva, il grosso problema che pone il collocamento in Borsa di questa finta privatizzazione di un soggetto ibrido come la Rai (non totalmente pubblico ma nemmeno privato), è rappresentato dal fatto che quale che sia la direzione che prenderà l’assetto politico-normativo che disciplina l’attività dell’azienda, ciò determinerà comunque una manifesta e consistente distorsione o a danno dei cittadini (che pagherebbero un canone pubblico a vantaggio di azionisti privati), o a danno degli azionisti privati (che avrebbero investito dei capitali in un’azienda che sussidia un servizio pubblico). Quanto detto riassume alcuni paradossi che riteniamo siano sufficienti a evidenziare quanto sia poco sensato collocare in Borsa la Rai così come al momento è stato annunciato. Se si vuole privatizzarla, la soluzione più logica, anche se non siamo in grado di giudicare quanto sia praticabile, è quella già sostenuta da alcuni in passato e indicata anche di recente dall’Autorità antitrust, che ha proposto di separare la Rai, prima del previsto collocamento in Borsa, in due società distinte: “la prima con obblighi di servizio pubblico generale finanziata attraverso il canone; la seconda, a carattere commerciale, che sostiene le proprie attività attraverso la raccolta pubblicitaria”. Per quest’ultima l’Antitrust sostiene che sarebbe auspicabile il collocamento delle azioni sul mercato.
Risulta del tutto evidente che collocare sul mercato una società che possa competere sulla base dei medesimi obblighi di affollamento, e per la quale non esistono più legami così stringenti con la politica, rappresenterebbe la soluzione migliore. E ciò sia per avere una maggiore ed effettiva concorrenza nel mercato televisivo, sia per evitare che si creino delle condizioni distorsive nei mercati finanziari, i quali, come è noto, hanno già le loro difficoltà nel funzionare correttamente. Inoltre è piuttosto evidente come questa soluzione eviterebbe, da un lato, qualsiasi penalizzazione “ex-lege” del valore dell’azienda sul mercato, legata ai vincoli imposti dal contratto di servizio pubblico. (3)


E nel contempo eviterebbe che il mercato dia un premio e quindi un valore al canone.


(1) Si tenga presente che considerando anche semplicemente dei multipli di mercato per il 2005 per un gruppo di società comparabili a livello europeo abbiamo, ad esempio un P/E medio di circa 17. Questo significa che, per avere un valore di 5 miliardi, l’utile netto della Rai dovrebbe attestarsi intorno ai 300 milioni, ovvero più di 3,5 volte l’utile del 2003. Ancora una volta, non è detto che ciò non possa accadere, ma sarebbe un bel salto da fare.


(2) Questo effetto moltiplicativo potrebbe essere in realtà molto più elevato, se la leva del canone fosse unita a un impiego della leva finanziaria che consentisse di aumentare i vantaggi fiscali. In teoria, se l’aumento del canone fosse compensato da un pari aumento di interessi passivi, legati a un maggiore indebitamento, un incremento del 5 per cento del canone, avrebbe potenzialmente l’effetto di aumentare di circa 1 miliardo il valore di mercato dell’azienda. Considerando che attualmente la Rai ha un indebitamento molto basso, ne segue che gli spazi per incrementare il valore, seguendo questa strada, possono essere potenzialmente piuttosto significativi.


(3) Ovvero limiti alla raccolta di pubblicità e/o costi imposti dal contratto di servizio pubblico non completamente coperti dagli introiti del canone.

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  1. LUCA BIANCHI

    Vorrei soltanto far notare che la posizione dell’Antitrust sulla
    privatizzazione della RAI non è recente ma era già stata espressa nel dicembre 2002, quindi ben prima della indagine conoscitiva del novembre scorso, nell’ambito della segnalazione al Parlamento sull’allora disegno di legge Gasparri (segnalazione AS247 v. sito agcm.it)

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