La possibile bocciatura europea dell’Irap perché doppione dell’Iva pone interrogativi sulla certezza del diritto e la razionalità economica della giurisprudenza comunitaria. Senza considerare le differenze sostanziali con l’Iva, il problema sembra essere un’imposta la cui base è calcolata come differenza “ricavi-costi”. Mentre sarebbe formalmente compatibile con le norme comunitarie, un’imposta che pervenisse allo stesso risultato come somma dei redditi che compongono il “valore aggiunto”. La possibile bocciatura dellIrap in sede comunitaria, in quanto giudicata un doppione dellIva, pone quesiti sullinterferenza della Corte di giustizia europea nelle normative fiscali dei vari Stati che vanno oltre la questione in sé e meritano attenta valutazione. È giusto il richiamo degli organi comunitari a guardare alla sostanza, più che alla forma. Ma nel valutare la sostanza, i giudici tributari dovrebbero prestare più attenzione alle considerazioni economiche circa la natura e gli effetti dei due tributi, considerazioni che sembrano invece trascurate o comunque trattate in modo discutibile. I fatti Il quesito sulla incompatibilità dellIrap con le norme comunitarie è stato sollevato presso la Corte di giustizia europea dalla Commissione tributaria della provincia di Cremona, a seguito di un ricorso presentato dalla Banca Popolare di Cremona che nel 2001 si è vista negare dalle autorità fiscali una richiesta di rimborso avanzata nel 1999. Secondo il ricorrente, lIrap sarebbe incompatibile con larticolo 33 della sesta direttiva comunitaria in materia di Iva. Nellambito dello svolgimento di questo caso (causa C-475/03), sono state sentite la Commissione tributaria che lo ha sollevato, i servizi giuridici della Commissione europea e il Governo italiano. Mentre questultimo ha sottolineato la diversità tra le due imposte e la compatibilità dellIrap con le norme comunitarie, seppure con argomenti un po deboli, i servizi giuridici della Commissione europea condividono con il ricorrente il giudizio di incompatibilità. Ciò che più sorprende e preoccupa per la certezza delle politiche fiscali che potranno in futuro essere adottate dagli Stati membri, è che la Commissione stessa (Direzione generale per la fiscalità) si espresse formalmente in modo favorevole allIrap, quando fu interpellata dal Governo italiano, prima dellintroduzione dellimposta. Larticolo 33 Per capire la questione è opportuno richiamare larticolo 33 e le sue motivazioni economiche. Larticolo precisa che le disposizioni della direttiva “non vietano a uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte sui contratti di assicurazione, imposte sui giochi e sulle scommesse, accise, imposte di registro e, più in generale, qualsiasi imposta, diritto e tassa che non abbia il carattere di imposta sulla cifra daffari, sempreché tuttavia tale imposta, diritto e tassa non dia luogo, negli scambi fra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera”. LIrap e lIva: cosa le differenzia La giurisprudenza della Corte ha considerato quattro caratteristiche che rendono unimposta assimilabile allIva: Tra questi criteri, i più importanti per evidenziare la differenza tra i due tributi sono il terzo e il quarto. Su questi punti, in particolare, le argomenti dei sostenitori dellincompatibilità dellIrap sembrano fragili, e difficilmente condivisibili sul piano economico. LIva dovuta al fisco è calcolata detraendo in ogni cessione di beni e servizi dallIva incassata sulle vendite quella pagata sugli acquisti. Poiché è ammessa in detrazione anche lIva pagata sugli acquisti di beni capitali (investimenti), limposta grava solo sui beni di consumo: è quindi classificabile come unimposta sul valore aggiunto-tipo consumo. (1) Ad esempio: lIva si basa su un criterio di cassa, mentre lIrap è calcolata su dati di bilancio che riflettono la competenza economica; lIva negativa è rimborsabile, lIrap no; lIrap viene riconosciuta nei trattati bilaterali contro le doppie imposizioni sui redditi . (2) http://www.europa.eu.int/comm/taxation_customs/resources/documents/structures_2004_final.pdf
La questione è tornata alla ribalta perché il 17 marzo 2005 sono state depositate le conclusioni dell’avvocato generale della Corte, Francis Jacobs, che confermano la bocciatura dellIrap. Per sapere come andrà a finire, occorre attendere il giudizio definitivo della Corte europea, ma certamente le premesse non lasciano ben sperare per la sopravvivenza dellIrap. Il problema è, tuttavia, molto controverso (oltre che complesso tecnicamente) e la dottrina è divisa.
Lobiettivo è quello di evitare interferenze con lIva comunitaria che è congegnata in modo da non intralciare il commercio tra Stati membri, ad esempio tramite sussidi mascherati alle esportazioni o tassazioni più elevate sui beni importati dallestero, rispetto a quelli prodotti internamente. Ciò altererebbe, infatti, la concorrenza e violerebbe una delle quattro libertà fondamentali del Trattato, la libera circolazione di merci e servizi, minando il funzionamento del mercato interno. La vera questione di sostanza dunque è se lIrap sia assimilabile a una imposta sulla cifra daffari o se sia in grado di alterare la libera concorrenza nel mercato interno.
1. la generalità dellimposta, cioè il fatto che si applichi a tutte le transazioni aventi a oggetto la cessione di beni e servizi;
2. la percezione dellimposta in ogni fase della produzione e della distribuzione;
3. la sua incidenza sul valore aggiunto in forza della detrazione dellimposta versata a monte;
4. la proporzionalità del tributo al prezzo dei beni e servizi.
Vale poi per lIva lobbligo di rivalsa sul consumatore, il che consente che limposta sia trasparente e proporzionale al prezzo. Limposta non si applica sulle esportazioni, mentre grava sulle importazioni, con la stessa aliquota applicata ai beni prodotti internamente. Ciò garantisce che allinterno di ogni Stato i beni di produzione interna e quelli importati si confrontino con la stessa aliquota di imposta, non ostacolando il libero commercio.
LIrap si applica (in genere) detraendo dai ricavi i costi per materie prime e beni intermedi. Non sono dedotti gli investimenti, ma solo gli ammortamenti. Si tratta quindi di unimposta sul valore aggiunto-tipo reddito netto. Ciò che viene tassato, in sostanza, è il reddito prodotto (al netto degli ammortamenti) e non il consumo. Non vi è obbligo di rivalsa sui consumatori e non si può dire che limposta sia proporzionale al prezzo dei beni. È inoltre unimposta allorigine, dunque grava sul valore aggiunto prodotto allinterno della nazione: non vengono previste esenzioni per le esportazioni o tassazioni sulle importazioni. Dunque, non comporta formalità connesse con gli scambi comunitari o internazionali, che potrebbero alterare il normale gioco della concorrenza. Vi sono molte altre differenze sostanziali. (1) Ma quelle appena elencate fanno sì che lIrap, a differenza dellIva, sia in realtà equivalente a unimposta a uguale aliquota prelevata sui seguenti redditi generati nellambito di una attività produttiva: profitti e rendite, interessi e costo del lavoro.
Si era infatti discusso molto, al momento della sua introduzione e anche dopo, se applicarla con il metodo della detrazione (ricavi costi) o della addizione (profitti e rendite + interessi netti + costo del lavoro). La stessa Commissione europea (Taxud) riconosce di fatto questa equivalenza. Nella pubblicazione “Structures of the taxation systems in the European Union“, redatta assieme ad Eurostat, per calcolare degli indicatori sintetici di tassazione sul consumo, sul lavoro e sul capitale, non si sceglie di sommare lIrap allIva come imposta sul consumo, ma, correttamente, si distribuisce il prelievo, con opportuni pesi, tra le due categorie “lavoro” e “capitale”. (2)
La conclusione che emerge è inquietante per la certezza del diritto e la razionalità economica della giurisprudenza comunitaria. Poiché, stando alle argomentazioni avanzate, il problema sembra essere quello di una imposta la cui base è calcolata come differenza “ricavi-costi”, non importa quali siano le differenze sostanziali con lIva, ne deriva che da un lato, salta la distinzione fra imposizione diretta e indiretta, dallaltro, unimposta che pervenisse allo stesso risultato come somma dei redditi che compongono il “valore aggiunto” sarebbe formalmente compatibile con le norme comunitarie. Un modo ben strano di guardare alla sostanza.
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