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L’Italia senza l’euro

Che cosa sarebbe accaduto se l’Italia non fosse entrata nell’euro? E’ difficile dare una risposta scientifica. E complesso analizzare quali benefici avrebbero potuto replicarsi anche senza una nostra partecipazione alla moneta unica. Possiamo però vedere l’influenza positiva dell’euro sul volume di scambi internazionali. Per il nostro paese, l’effetto euro e la crescita del commercio con i paesi dell’Unione monetaria hanno rappresentato un argine importante al deterioramento della capacità competitiva e delle quote di commercio globale.

Che cosa sarebbe accaduto se l’Italia non fosse entrata nell’euro? Per quanto affascinante, questa domanda presenta sensibili problemi di analisi scientifica. Gli esercizi “controfattuali”, infatti, sono notoriamente molto complessi per gli economisti, “scienziati sociali” che, a differenza di biologi o fisici, non possono esattamente controllare i loro esperimenti in laboratorio.

Una difficile analisi scientifica

Non possiamo quindi rispondere con precisione a domande del tipo: “Di quanto si sarebbe svalutata la lira in presenza degli shock petroliferi dell’ultimo anno e mezzo se l’Italia non avesse aderito all’euro?”.  Ingenuamente potremmo prendere a riferimento un periodo di condizioni economiche apparentemente analoghe, quali lo shock petrolifero di fine anni Settanta, e calcolare se e di quanto si deprezzò la lira (per esempio rispetto al dollaro) a parità di crescita del prezzo reale del greggio. È credibile un esercizio di questo genere? Certamente no. La reazione del cambio di allora è effetto di una serie di condizioni di politica macroeconomica, di ampiezza e profondità dei mercati finanziari, di credibilità delle nostre istituzioni monetarie che non è possibile ricreare in laboratorio per condurre oggi il nostro ipotetico esperimento.
Ciò premesso, l’interesse nella domanda permane. Cercheremo quindi di analizzare quali benefici siano già oggettivamente tangibili per l’Italia con l’euro, e che sarebbe stato (quantitativamente e/o qualitativamente) molto difficile replicare in assenza di una nostra partecipazione alla moneta unica.

Spread sui tassi di interesse

La figura 1 mostra lo spread nei tassi di interesse sui prestiti a dieci anni in Italia rispetto al “best performer” in Europa. Non casualmente, l’inizio del campione è il 1996. Possiamo infatti pensare che solo dalla seconda metà di quell’anno, un premio di credibilità legato all’anticipazione di una futura entrata nella moneta unica possa aver influito sulle aspettative dei mercati finanziari e del credito. L’evidenza è chiara. All’inizio del 1996, se prendiamo come termine di paragone in Europa il paese con i tassi in quel momento più bassi, le imprese in Italia pagavano tassi di interesse sui prestiti superiori di circa 4 punti e mezzo percentuali.

Il problema del “controfattuale” è ovviamente presente anche in questo caso. Siamo certi che la convergenza nei tassi di interesse sia da ricondursi interamente al sentiero di avvicinamento alla moneta unica? E non a un graduale processo di liberalizzazione del mercato del credito che stava già avviandosi in Italia? Non lo siamo, ma probabilmente questo è uno di quei (pochi) casi in cui si può argomentare con ragionevole certezza che il “premio moneta unica” abbia giocato un ruolo fondamentale.
Di maggiore impatto per la ricchezza degli italiani può essere stato l’andamento dello spread sui mutui immobiliari. La figura qui sotta paragona i tassi sui mutui a trent’anni in Italia e Germania nello stesso periodo 1996-2004. Nel 1996 in Italia si pagavano tassi nominali sui mutui circa doppi rispetto alla Germania. Oggi i tassi sui nostri mutui sono addirittura più bassi. In termini reali (cioè aggiustando per l’inflazione) lo spread nel 1996 si riduce da 6 punti percentuali a circa 4 punti e mezzo, comunque un margine notevole.

Lira, volatilità dei cambi e “bolletta energetica”

È vero che l’euro ha aiutato l’Italia a proteggersi dalle turbolenze internazionali degli ultimi anni, rispetto alle quali la lira avrebbe palesato tutta la sua fragilità? Questa è forse la domanda a cui è più difficile rispondere. Innanzitutto perché prevedere l’andamento dei tassi di cambio è comunque arte/scienza di enorme complessità, a fortiori se vogliamo prevederne l’andamento in senso controfattuale.
In secondo luogo: quali “turbolenze internazionali”? La crescita del prezzo del petrolio? Lo scoppio della bolla speculativa negli Stati Uniti? L’ampliarsi della voragine nel deficit di bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti? L’11 settembre? A molti piace pensare che la impetuosa crescita del prezzo del petrolio da novembre 2003 a oggi (da circa 30 dollari al barile a oltre 51 dollari) sarebbe stata disastrosa per la nostra bolletta energetica in assenza dell’euro. È lecito chiedersi: esiste quanto meno una correlazione tra andamento del prezzo del petrolio e tasso di cambio?
Tra l’inizio del 1979 e la metà del 1982 il prezzo del greggio raddoppia, passando da 15 a 30 dollari circa. Nello stesso periodo (vedi figura qui sotto) il cambio lira-dollaro si deprezza fortemente. Possiamo trarne una qualche relazione di causalità? Molto difficile. Basti pensare che una ragione dell’apprezzamento relativo del dollaro è molto probabilmente la politica monetaria fortemente restrittiva condotta dalla Fed dal 1979 in poi sotto l’egida del governatore Paul Volcker, proprio in reazione alla fiammata inflazionistica indotta dallo shock petrolifero.

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Guardiamo allora a un altro esempio storico, forse ancora più vicino agli eventi dell’ultimo anno e mezzo: la prima guerra del Golfo (agosto 1990 – febbraio 1991, vedi figura qui sotto). In pochi mesi (da giugno a ottobre 1990) il prezzo del greggio schizza da 17 a 35 dollari. Eppure, nello stesso periodo, e almeno fino a febbraio 1991, la lira addirittura si apprezza rispetto al dollaro (salvo deprezzarsi in seguito).

Possiamo alternativamente chiederci: in presenza delle turbolenze internazionali successive al 2001, le monete di paesi che hanno optato per non entrare nell’euro hanno subito pressioni svalutative?
Prendiamo il caso della Svezia, una cosiddetta “economia piccola”, che importa circa un quarto dei barili di petrolio rispetto all’Italia (553.100 contro 2 milioni 158mila – dato 2001) a fronte di un Pil (espresso in miliardi di dollari) che è circa un settimo di quello dell’Italia (perciò la Svezia è “più intensiva” nel greggio di quanto lo sia l’Italia). Inoltre la Svezia è un paese molto aperto al commercio, in cui la trasmissione internazionale degli shock ha importanza cruciale per il ciclo economico. La figura qui sotto illustra l’andamento del cambio corona svedese-dollaro dal 2001 ai giorni nostri. Come risulta chiaramente, la tendenza è stata in tutto il periodo a un apprezzamento della corona rispetto al dollaro.


In realtà dal 2001 a oggi, la dinamica dei cambi relativi col dollaro (compreso quello dell’euro) è stata influenzata da un gigantesco fenomeno strutturale, l’ampliarsi del deficit di bilancia dei pagamenti americano, che ha spinto la valuta americana ad un costante deprezzamento. È ragionevole quindi pensare che, paradossalmente, la necessità di porre un argine a questo squilibrio avrebbe posto al riparo la lira dalle turbolenze dei mercati petroliferi.

Lira e scandali finanziari

Secondo l’opinione di alcuni, gli eventi che avrebbero seriamente messo a rischio la stabilità del cambio della lira sarebbero stati gli scandali finanziari Cirio-Parmalat. È certamente plausibile pensare che eventi di questo genere avrebbero comportato fuoriuscite di capitali dal paese innescando una possibile crisi di credibilità del nostro sistema finanziario. Da questo punto di vista l’appartenenza alla moneta unica ha certamente rappresentato uno scudo di protezione. Ma è impossibile prevedere in che misura la lira avrebbe potuto deprezzarsi. Né ci aiuta l’osservazione di dati passati in questo, poiché non rammento esempi di scandali finanziari simili durante il regime valutario precedente l’Unione monetaria.

Moneta unica e commercio internazionale

Gli economisti dibattono molto su un aspetto in realtà poco presente nel dibattito corrente sull’euro: l’effetto positivo sul volume di commercio internazionale indotto dalla formazione di aree valutarie comuni. Esistono autorevoli stime, applicate a una serie di unioni monetarie nel mondo, che indicano come i paesi che decidono di adottare una moneta comune finiscano per aumentare il volume di commercio intra-area fino al 300 per cento. (1)
Alcuni economisti ritengono queste cifre eccessive, ma pochi dubitano sulla robustezza della relazione di causalità. In particolare, ciò che sorprende è il fatto che non basta che gli stessi paesi decidano semplicemente di adottare tassi di cambio bilaterali fissi. La stabilità definitiva indotta dalla moneta unica (quindi dalla eliminazione dei tassi di cambio tout court) e la drastica riduzione nei costi di transazione sembra essere un formidabile volano per la crescita del commercio. È lecito quindi chiedersi se un effetto positivo sul volume di scambi internazionali si sia già osservato dopo l’adozione dell’euro. Uno studio recente sull’Unione monetaria europea conclude che l’introduzione dell’euro ha mediamente già incrementato la quota di commercio internazionale dei paesi aderenti tra l’8 e il 16 per cento quando confrontata con la quota di commercio tra paesi non-aderenti all’Ume. (2)
Queste cifre sono certamente più contenute rispetto al 300 per cento di prima, ma comunque molto significative se teniamo conto del fatto che si riferiscono a un campione di soli cinque anni.
Qual è in particolare l’evidenza per l’Italia? La figura qui sotto illustra l’andamento della quota di commercio internazionale dell’Italia all’interno dell’Ocse dal 1990 al 2003, raffrontata al Regno Unito. Si noti il trend decrescente per l’Italia fino alla fine del 1999, anno di introduzione dell’euro. Dal 2000 in avanti, però, la quota di commercio ricomincia a crescere (passando dal 3,7 al 4 per cento) in controtendenza con l’opinione comune che l’Italia stia perdendo quote di commercio internazionale.

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Ciò che sorprende ancora di più è proprio il confronto con un paese come il Regno Unito, che ha scelto di rimanere fuori dall’euro. Si vede chiaramente che la quota di commercio intra Ocse per il Regno Unito è andata in flessione dopo il 1999, passando dal 5,7 al 5,2 per cento. Ma c’è di più. Il recupero di quote di commercio intra-Ocse dell’Italia avviene nonostante gli indicatori di competitività nel periodo 1999-2003 segnalino un chiaro peggioramento per il nostro paese. Dalla figura qui sotto vediamo l’andamento del costo unitario relativo del lavoro nel settore manifatturiero nei due paesi. Mentre nel Regno Unito questo indicatore è rimasto stabile (con una flessione recente), in Italia è andato nettamente aumentando a partire dall’anno 2000.

Quanto di questa evidenza è ascrivibile all’effetto euro? Per rispondere avremmo bisogno di una analisi econometrica più sofisticata. Il rapporto Ice 2003-2004, per esempio, attribuisce una certa enfasi, almeno tra il 2003 e il 2004, alla crescita degli scambi commerciali tra l’Italia e i paesi europei non appartenenti all’Unione europea (per esempio quelli dell’Europa centrale). (3)
Guardiamo però, come primo passo, ai dati qui sotto. La figura riporta l’evoluzione della somma totale di importazioni ed esportazioni dell’Italia, tra il 1999 e il 2003, in due casi: i) da e verso paesi Ume; ii) da e verso paesi dell’Unione europea che non hanno aderito all’euro (nella fattispecie Svezia, Regno Unito e Danimarca). È interessante notare che mentre il totale degli scambi commerciali con i paesi non-Ume è rimasto sostanzialmente inalterato, quello con i paesi Ume è andato invece crescendo.


Con questa analisi non si nega che l’effetto della cosiddetta “globalizzazione” possa aver reso l’Italia più vulnerabile sui mercati internazionali mondiali (per esempio quelli asiatici). Ma si intende suggerire l’ipotesi che l’effetto euro e la crescita del commercio intra Ume abbia rappresentato quantomeno un argine importante al deterioramento della capacità competitiva e delle quote di commercio globale dell’Italia.
Per finire, una prevedibile obiezione alla nostra analisi. Dietro all’ipotesi che la crescita della quota di commercio intra-Ocse dell’Italia possa essere dovuta all’effetto euro, potrebbe esserci semplicemente una dinamica molto più vivace delle importazioni rispetto alle esportazioni.
In effetti, scomponendo la dinamica totale di import ed export verso Ume e non Ume (dati non riportati), si riscontra che il maggior impulso nella direzione Ume è dovuto a una crescita delle importazioni più accelerata rispetto a quella delle esportazioni. È rilevante tutto questo? Qualsiasi economista di commercio internazionale risponderebbe di no. Se infatti il volume di scambi complessivi tra due paesi aumenta, indipendentemente da quale sia la dinamica relativa di importazioni ed esportazioni, entrambi i paesi ne beneficiano. Su questo, per una volta, tutti gli economisti sono d’accordo.

(1) Si veda A. Rose, “The Effect of Common Currencies on International Trade: where do we stand”, URL: haas.berkeley.edu/~arose. Esistono molte più aree valutarie nel mondo di quanto si creda comunemente. Per esempio l’area del franco francese a cui partecipano quattordici paesi del Centro Africa.

(2) Si veda Micco A., E. Stein e G. Ordonez, “Trade Effects of EMU”, Economic Policy, October 2003.

(3) Si veda http://www.ice.gov.it/edi

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Imposte, una questione di famiglia

  1. Stefano Bono

    Giuste ed appropriate le argomentazioni esposte a proposito dell’euro ma mi consento di scriverVi poche righe di miei personali e non condivisibili commenti. Non mi sento di condividere totalmente l’improbabile raffronto Italia-Svezia. Due Stati profondamente diversi per fondamentali economici. Vere le cifre ma altrettanto vere sono le differenze di due economie che, se non agli opposti, sicuramente non vedo andare a braccetto. Per quanto riguarda poi gli scandali finanziari aggiungerei che la probabile reazione dei risparmiatori italiani avrebbe potuto essere, con la lira, quella di un sostanziale trasferimento di capitali da un orizzonte ad un altro. Transumanze di questo tipo sono ricorrenti nel nostro risparmio essendo il risparmiatore italiano talvolta più sensibile alla sicurezza dell’investimento e talvolta più attirato dal facile guadagno in barba ad ogni logica di oculata e ponderata scelta di investimento in accordo con i propri obiettivi futuri. La fuga di capitali all’estero o il ritiro di capitali dall’estero sarebbe stato più marcato mentre più sensibile sarebbe stata la diminuzione dell’ingresso di capitali stranieri nel nostro Paese (non che abbiamo mai attirato grandi capitali, ma…), per poi assistere ad una ripresa all’aumentare dei tassi sui bond italiani (governo stabile a parte). In tema di commercio internazionale poi l’europeizzazione dello scenario valutario di riferimento dell’impresa, che passa quindi da nazionale ad europeo, eliminando le problematiche di oscillazione dei cambi consente all’impresa di tagliare costi (ma anche aleatori guadagni) spingendo i propri sforzi nella direzione di una maggior produttività. Fatto che in Italia non è avvenuto per le ragioni esposte nell’articolo di F. Daveri sul manifatturiero. Ciò detto e letti anche l’articolo “False colpe e veri vantaggi” di M. Sarcinelli in apertura e l’Amarcord a pag. 4 sul Sole 24 ore del 03/06 mi sento di aggiungere che il ritrovarsi a fine mese senza 1 lira non può essere attribuito alla valuta in corso ma, come sempre avviene in economia, alle scelte di politica economica decise (o affrontate) dai vari governi. Ed i votanti possono scegliere quale governo avere. Così come possono scegliere quali consumi prediligere e quali evitare. A patto di essere cittadini responsabili…..

  2. Luigi Sampaolo

    Ho un dubbio: molto spesso come principale vantaggio dell’introduzione dell’euro per la gente comune si citano i minori tassi di interesse sui mutui. Addirittura “La repubblica” titolava “comprare casa costa meno”. Invece, come sa chi ha comprato casa negli ultimi 3 anni, comprare casa costa di più che nei precedenti 5 anni, molto di più. E credo che ciò sia dovuto in larga parte ai bassi tassi di interesse sui mutui. Il che non vuol dire che l’euro sia un male ma che i benefici, se ci sono, sono altri.

  3. Stefano Ivaldi

    L’analisi riportata, per quanto possa rilevare un occhio poco esperto, sembra piuttosto oggettiva e ponderata.
    La questione che mi preme sollevare riguarda le “strategie” addottate dai commercianti in seguito all’avvento della nuova moneta. Mi è parso di ravvisare che questi abbiano, furbescamente, cercato di trarre vantaggio dalla situazione di confusione creata dalla transizione da una moneta all’altra. Inoltre, non mi sembra (ma posso sbagliarmi, visto che non ho fatto un’accurata analisi sui dati) che ci siano stati molti controlli in questo senso. Quindi il mio quesito è:
    è probabile che tali scelte impiegate abbiano inciso (anche in parte) sulla situazione del sistema economico italiano successiva all’ingresso dell’euro? ovvero se ci fossero state più limitazioni a tali “strategie”, non si sarebbe potuto godere di qualche beneficio in più della nuova moneta?

  4. tommaso sinibaldi

    Sia pure con qualche cautela Monacelli ritiene che la riduzione dei tassi di interesse in Italia (o. più precisamente, dello spread col “best performer”) sia da ricondursi alla adesione all’Euro.
    La tesi controfattuale è naturalmente quella che se l’Italia non avesse aderito all’Euro, i tassi sarebbero assai più alti, drammaticamente più alti : per molti addirittura saremmo andati alla bancarotta.
    Eppure oggi nel mondo paesi come la Tunisia, la Romania, la Croazia etc. presentano spread modesti : avrebbe un Italia fuori dall’Euro necessariamente fatto di peggio?
    Mi sembra assai più ragionevole dire che negli ultimi anni c’è stata una generale riduzione dei tassi a livello mondiale e che anche l’Italia – Euro o non Euro – ne ha beneficiato.

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