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Com’è difficile diventare grandi

Con la laurea breve, la maggioranza dei diciannovenni italiani si è iscritta all’università. Rimarranno ancora più a lungo nella casa dei genitori? Probabilmente sì, se non si adottano politiche che consentano di mantenere una continuità nel tenore di vita ed eguali opportunità anche per chi lascia la famiglia d’origine. Perché studiare e formare una famiglia propria sono scelte poco compatibili in Italia. E’ necessario allentare la rigidità delle sequenze di eventi. Per esempio, con sostegni al reddito generalizzati e agevolazioni sull’affitto. Gianpiero dalla Zuanna commenta l’intervento; la controreplica dell’autore.

Com’è difficile diventare grandi


I dati dell’indagine Istat Famiglia, soggetti sociali, condizioni dell’infanzia del 2003, pubblicati in questi giorni, mostrano che la quota di giovani che ritarda l’uscita dalla famiglia è aumentata dal 1993. Allo stesso tempo, per la prima volta nella storia, dopo la riforma del 3+2, la maggioranza dei diciannovenni italiani si è iscritta all’università. Senza politiche che consentano di mantenere una continuità nel tenore di vita ed eguali opportunità anche per chi compia scelte familiari o di indipendenza abitativa, il 3+2 potrebbe addirittura contribuire a ulteriori rinvii.


Studiare e formare una famiglia


Studiare e formare una famiglia sono scelte poco compatibili, sia per l’esistenza di norme sociali condivise sulla sequenza ideale degli eventi (“prima di tutto prendi il titolo, poi…”), sia perché spesso la società non considera neppure scelte come quelle di formare una coppia o avere figli durante gli studi. In Italia, finire di studiare è nella grande maggioranza dei casi un prerequisito per lasciare la casa dei genitori. Iscriversi all’università, in un paese con una bassa mobilità della popolazione studentesca e uno scarso supporto agli studenti attraverso borse e alloggi, rinvia l’indipendenza abitativa oltre che la formazione di una propria famiglia.
Questa lenta “transizione allo stato adulto” dei giovani italiani è associata alla bassissima fecondità. Con 1,26 figli per coppia nel 2004, l’Italia ha meritato un livello con lo specifico nome di lowest low fertility. Tra i fattori che hanno contribuito a questi livelli di primato, è fondamentale il rinvio del momento in cui si diventa genitori, pur in assenza di statistiche ufficiali aggiornate (la stima dell’età media delle donne alla nascita del primo figlio riportata dal Consiglio d’Europa per il 1997 è di 28,7 anni).


Le possibili risposte politiche


Come si potrebbe invertire la tendenza a rinviare la decisione di diventare genitori? Semplificando, vi sono due possibilità. La prima è quella di politiche che accorcino i tempi della gioventù, ad esempio rendendo più breve la carriera scolastica e universitaria e più agevole l’accesso a un lavoro sicuro e a una casa di proprietà. Questo sembra essere stato l’approccio, non esplicitato, alla base del Libro bianco sul welfare.
La seconda è quella di politiche che allentino la rigidità delle sequenze di eventi durante la transizione allo stato adulto: poter lasciare la casa dei genitori anche se si è ancora studenti, poter scegliere di vivere in coppia o diventare genitori anche se si è studenti, poter diventare genitori anche se non si è sposati, anche se non si ha ancora un lavoro a tempo indeterminato. Le due vie non si escludono a vicenda, ma hanno implicazioni potenzialmente diverse.


Il 3+2: una strada più breve per diventare adulti?


Secondo alcuni studiosi, la leva principale per accorciare i tempi che conducono a diventare adulti è la durata del periodo dedicato all’istruzione. Se aver terminato gli studi “accende le polveri” per l’indipendenza abitativa e la formazione delle famiglie, accorciare la fase di vita dedicata a studiare contribuirebbe a diventare prima autonomi e a formare una famiglia. Un’analisi condotta su dati svedesi ha mostrato che, tra due donne che raggiungono lo stesso titolo di studio a distanza di età di circa un anno, vi è una differenza di circa cinque mesi nell’età alla maternità. (1) La recente riforma universitaria del 3+2, hanno ipotizzato Wolfgang Lutz e Vegard Skirbekk, avrebbe dunque un potenziale effetto di “stimolo” sulle scelte familiari e in particolare sulla fecondità. (2).
Alcuni elementi inducono a essere scettici sui potenziali effetti del 3+2. In primo luogo, non è detto che, in Italia, la durata media degli studi diminuisca. Infatti, è aumentata drasticamente, con la creazione delle lauree triennali, la quota di diciannovenni che si iscrive all’università. Secondo i dati del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, tale quota è passata dal 46,7 per cento nel 2000, prima del passaggio al 3+2, al 59,7 per cento del 2003, solo tre anni dopo l’implementazione della riforma. (3)
La maggiore propensione a studiare all’università, insieme all’innalzamento dell’obbligo scolastico, induce a pensare che la durata media degli studi sarà più elevata per le generazioni influenzate dalla riforma. In secondo luogo, per una questione più tecnica, poiché chi desidera formare una famiglia prima potrebbe scegliere percorsi di istruzione più brevi, le stime sull’impatto di lungo periodo dell’accorciamento degli studi di Lutz e Skirbekk sarebbero esagerate per eccesso.


Un’alternativa: allentare la rigidità delle sequenze di eventi


Come gestire una situazione in cui i giovani italiani sono già “in ritardo” rispetto ai loro coetanei europei, e sono potenzialmente soggetti a un allungamento della durata media degli studi e probabilmente all’aumento dell’età in cui iniziano un lavoro “stabile”? Per i giovani, la strategia più naturale sarebbe quella di rinviare ulteriormente scelte percepite come scarsamente reversibili, come il matrimonio, o di fatto irreversibili, come avere un figlio. Per aiutarli a intraprendere tali scelte, le politiche dovrebbero mirare ad allentare la rigidità delle sequenze di eventi. A garantire, insomma, eguali opportunità anche a coloro che durante le prime età giovanili desiderassero vivere autonomamente dai genitori, vivere in coppia eventualmente senza sposarsi e, perché no, avere un figlio.
Esempi di tali politiche sono sostegni al reddito generalizzati per i giovani, inclusi gli studenti; agevolazioni sull’affitto per giovani single, coppie e coppie con figli (indipendentemente dal fatto che siano sposate), genitori soli, flessibilità della durata delle borse di studio, dei contratti di lavoro, dei momenti di valutazione della carriera. I paesi nordici adottano spesso politiche di questo tipo. E i dati delle indagini comparative Fertility and Family Surveys per gli anni Novanta mostrano come tra le giovani madri di età 20-24, la quota di studentesse fosse pari all’8 per cento in Norvegia e Svezia e al 7 per cento in Danimarca. In Italia tale quota era dell’1 per cento. Insomma, studiare e formare una famiglia sono meno incompatibili.
Se il finanziamento di tali politiche apparisse un problema, occorre ricordare che proprio ora inizia in Italia una finestra di opportunità demografica: i giovani in ingresso sul mercato del lavoro stanno diminuendo rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Forse, per aiutare i giovani a diventare adulti occorre che la società decida effettivamente di aiutarli investendo su di essi, e non solo sul loro capitale umano.

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Per saperne di più


United Nations, 2005. The New Demographic Regime. Population Challenges and Policy Responses. United Nations, New York and Geneva. Accessibile online presso: http://www.unece.org/ead/pau/epf/epf_ndr.htm.


Francesco Billari, 2005, “The transition to parenthood in European Societies”, European Population Conference 2005, Council of Europe, Strasbourg. Accessibile online presso: http://www.coe.int/T/E/Social_Cohesion/Population/EPC_2005_S1.2%20Billari%20report.pdf.


(1) Vegard Skirbekk, Hans-Peter Kohler e Alexia Prskawetz 2004. Birth Month, School Graduation and the Timing of Births and Marriages. Demography, 41 (3): 547-568.


(2) Wolfgang Lutz e Vegard Skirbekk, 2004, “How would “tempo policies” work? Exploring the effect of school reforms on period fertility in Europe”, European Demographic Research Papers 2, Vienna: Vienna Institute of Demography of the Austrian Academy of Sciences. Accessibile presso: http://www.oeaw.ac.at/vid/publications/edrp_2_04.pdf.


(3) Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, 2004. Quinto Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario, ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, Roma. Accessibile presso: http://www.cnvsu.it.

Un commento all’articolo, di Gianpiero Dalla Zuanna


Con riferimento agli articoli apparsi su lavoce.info che pongono l’accento sulla permanenza dei figli in famiglia, dove l’Italia continua a mantenere un primato europeo e – probabilmente – mondiale (Billari e Saraceno). Gran parte delle cose dette sono pienamente condivisibili. Tuttavia, due aspetti sono – a mio avviso – fuorvianti. In primo luogo, la lunga permanenza dei giovani italiani in famiglia è presentata come il segnale di qualcosa che non funziona come dovrebbe, cui bisognerebbe porre rimedio anche con adeguati interventi pubblici. In secondo luogo, viene data per acquisita la relazione fra lunga permanenza in famiglia e bassa fecondità.
I giovani italiani (e spagnoli) da secoli escono di casa più tardi dei loro coetanei del nord e centro Europa. In età moderna, in Italia e Spagna era quasi sconosciuta la pratica della “circolazione dei servi”, ossia la dislocazione dei ragazzi adolescenti presso fattorie o piccole fabbriche di conoscenti, diffusissima invece in paesi come la Danimarca e l’Inghilterra. Inoltre, in molte zone dell’Italia, gran parte dei giovani maschi dalla famiglia non uscivano proprio, perché portavano la sposa nella famiglia dei genitori. La favola dei tre porcellini non sarebbe mai potuta nascere in Italia. Nel corso del Novecento e fino agli anni Settanta, l’età all’uscita di casa è diminuita perché in Italia – come in tutto l’Occidente – è diminuita l’età media al primo matrimonio, giunta a 23 anni per le donne nate attorno al 1955. Ma in Italia e Spagna – a differenza dell’Europa del Centro Nord, per non parlare degli Stati Uniti e dell’Australia – quando ci si sposa si va ad abitare (se possibile) nei pressi di una delle due famiglie di origine: il 90% dei matrimoni celebrati in Italia negli anni Novanta del Novecento ha visto i due coniugi andare ad abitare a meno di un chilometro dalla casa dei genitori di almeno uno dei due coniugi.
Dati questi precedenti storici, quando il matrimonio precoce (in Italia come altrove) passa di moda, è ovvio che i giovani preferiscano restare a casa. Ho usato il verbo “preferiscano” perché – nella quasi totalità dei casi – anche chi potrebbe metter su casa per conto proprio resta con genitori fino al momento del matrimonio (o della prima convivenza, che anche in Italia sta diventando una pratica generalizzata, specialmente nel Centro e nel Nord). Ciò permette loro di avere una miglior qualità della vita, ma anche di accumulare maggiore capitale umano e sociale. Analisi empiriche hanno mostrato che i giovani che stanno a casa più a lungo non sono più egoisti e scioperati dei coetanei che vivono per conto loro (ad esempio, ceteris paribus, fanno attività di volontariato e attività politica come quelli che vanno a stare per conto proprio) (1). Quindi, considerare la lunga permanenza dei giovani a casa come un ennesimo segnale di “ritardo” culturale dell’Italia rispetto ai più civili paesi settentrionali, mi sembra fuori luogo. Piuttosto, siamo di fronte alla “via italiana” (e spagnola) alla modernizzazione dell’ingresso nell’età adulta, rinnovando legami fra padri e figli che già nei secoli passati erano più stretti che altrove.
Gli articoli citati suggeriscono anche l’esistenza di un legame organico fra allungamento della permanenza in famiglia e bassa fecondità. In realtà, questa associazione non sussiste. In Francia e in Olanda l’età media al primo figlio è più o meno la stessa che in Italia, ma in Francia nel 2000 sono nati 1.89 figli per donna, in Olanda 1.72 (contro 1.24 dell’Italia). Inoltre, in Italia negli anni Ottanta e Novanta non è diminuita la propensione delle coppie ad avere il primo o il secondo figlio, ma sono quasi sparite le famiglie con tre o più figli. Quindi – tagliando con l’accetta questioni assai complesse – esistono in Europa paesi dove un’elevata età alla prima maternità convive tranquillamente con una fecondità moderatamente elevata, e la bassa fecondità italiana deriva – fondamentalmente – dalla quasi sparizione delle coppie con più di due figli. Da questa lettura della realtà derivano “ricette” politiche un po’ diverse da quelle proposte o fatte intravedere dai due autori citati. Non credo ci sia spazio per politiche volte a incentivare l’uscita dei figli da casa: perché mai lo stato dovrebbe modificare una situazione che gli stessi interessati (genitori e figli) solo raramente giudicano un problema? Non rischieremmo di agire in nome di un modello di famiglia decisamente minoritario nel nostro paese, dimenticando che lo stato dovrebbe evitare di indicare ai suoi cittadini quale sia il modo “migliore” di organizzare la propria vita familiare? Piuttosto, a mio parere, sono pienamente giustificabili politiche di pari opportunità, perché i giovani che non hanno una famiglia alle spalle non si trovino ad essere svantaggiati nella “corsa al banchetto della vita” (mi sia consentita questa citazione di Malthus). Quindi, vanno bene gli affitti agevolati per i giovani, vanno bene le borse di studio, ma va privilegiato chi di queste cose ha veramente bisogno, ossia chi non può godere di una famiglia ricca e forte (ad esempio gli immigrati, gli orfani, i figli di madri sole).
Condivido invece la proposta di Billari di “rilassare” le sequenze fra gli eventi di ingresso nella vita adulta, in particolare eliminando tutte le discriminazioni verso le famiglie di fatto, che si avviano rapidamente a diventare – anche in Italia – un passaggio normale della vita di coppia, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Trent’anni dopo l’innovativo diritto di famiglia del 1975, è certamente opportuno che la legge recepisca i cambiamenti culturali avvenuti nella formazione delle unioni. Infine, molto brevemente, per quanto riguarda la fecondità, piuttosto che tentare di convincere le coppie ad anticipare la maternità, è opportuno destinare nuove risorse alla tutela delle famiglie con più figli. I dati mostrano chiaramente che i figli unici sono dei privilegiati: ceteris paribus studiano di più e sono più ricchi rispetto ai coetanei con uno o più fratelli. Anche in questo caso, quindi, la giustificazione più solida per un intervento dello stato è garantire pari opportunità ai bambini e ai giovani, a prescindere dal numero di fratelli.

Leggi anche:  Figli a casa o al nido: le ragioni di una scelta

(1) M. Barbagli, M. Castiglioni e G. Dalla Zuanna (2004) Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, il Mulino, Bologna.

La controreplica dell’autore


Gianpiero Dalla Zuanna solleva, con una risposta documentata due questioni trattate (seppur in modo diverso) nel mio intervento e in quello di Chiara Saraceno.
La prima questione è la visione della prolungata permanenza nella famiglia di origine come problema. Tale visione è illustrata soprattutto da Saraceno. Alcuni aspetti sono legati all’idea di allentare la rigidità delle sequenze di eventi nel corso della vita trattata nel mio pezzo. Certamente alcuni giovani preferiscono rimanere a lungo a casa dei genitori. Ciò è connesso sia a ragioni storiche richiamate da Dalla Zuanna, sia alla presumibile introiezione nelle preferenze dei vincoli effettivi alle scelte di formazione delle famiglie. Riconosciamo però il valore sociale di scelte come metter su casa (da soli o con un partner) indipendentemente dal sostegno dei genitori, dalla condizione di studente o dal tipo di contratto di lavoro. Allora, non possiamo dimenticare che alcuni giovani dichiarano invece, esplicitamente, di voler metter su casa ma di non poterlo fare (si veda il Rapporto Annuale ISTAT 2004). Aiutare i giovani che desiderano metter su casa significa dunque metterli in grado di effettuare delle scelte, non certo forzarli a troncare i “legami forti” con i genitori caratteristici del modello Sud Europeo. In particolare, è sempre rischioso a mio avviso connotare negativamente come fa Dalla Zuanna “un modello di famiglia decisamente minoritario nel nostro paese”, proprio perché “lo stato dovrebbe evitare di indicare ai suoi cittadini quale sia il modo “migliore” di organizzare la propria vita familiare” e se possibile aiutare ad avere pari opportunità.
Il secondo aspetto è il legame tra lunga permanenza in famiglia e bassa fecondità. Non basta qui, come fa Dalla Zuanna, guardare semplicemente a misure come l’età mediana all’uscita e l’età media al primo figlio e alle loro relazioni a livello nazionale. Per informare adeguatamente le scelte politiche occorrono simulazioni basate su studi con dati individuali e longitudinali. Sebbene la causalità sia non facile da isolare in tali studi, si può mostrare che in Italia l’età al primo figlio, come anche il numero totale di figli, sono influenzati dall’età in cui si forma una coppia, convivendo o sposandosi. Politiche che aiutassero le coppie che pensano a “metter su casa” assieme avrebbero dunque certamente un effetto “secondario” che innalzerebbe la fecondità (1).


F.C. Billari, A. Rosina, “Italian “latest-late” transition to adulthood: an exploration of its consequences on fertility”, Genus, 2004, LX, 1: 71-88.

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  1. alessandro Figa'Talamanca

    L’articolo sembra attribuire alla riforma cosiddetta del 3+2 la responsabilita’ dell’allungamento dei tempi di studio per i giovani ed il ritardo nell’inizio dell’attivita’ lavorativa. Si osserva infatti che la riforma ha prodotto un aumento degli immatricolati (calcolato in termini di rapporto tra immatricolati e diciannovenni). La realta’ e’ piu’ complessa. Fino a non moltissimi anni fa la scuola secondaria dava accesso a professioni per le quali in molti altri paesi era necessario un titolo universitario: ragioniere, geometra, perito agrario, perito industriale, maestro elementare, ecc. Sono queste le figure professionali che sono state protagoniste dello sviluppo economico degli anni cinquanta e sessanta, e che costituiscono ancora l’asse portante del sistema economico e industriale italiano. La formazione di questo tipo si concludeva prima del compimento di venti anni. Le successive scelte politiche in tema di istruzione e formazione professionale hanno determinato una licealizzazione (al ribasso) degli studi secondari. Ad esempio la riforma dei primi anni settanta dell’esame di maturita’ tecnica ha reso molto difficile la sua caratterizzazione come esame di ingresso in una professione liberale; la politica del personale ha reso difficile l’ingresso di laureati bravi in ingegneria, fisica, chimica industriale, economia, nei ruoli degli insegnanti della scuola secondaria (mentre era ancora possibile reclutare nonostante i lunghi periodi di “precariato” bravi laureati in lettere). Alla fine l’istruzione tecnica e’ stata abbandonata dagli studenti e dalle loro famiglie. Solo dopo l’attuazione di queste politiche distruttive e’ stato necessario l’intervento delle universita’ per rispondere alla domanda di istruzione proveniente da settori crescenti della popolazione.

    • La redazione

      Grazie per il commento. L’innalzamento della propensione a immatricolarsi dipende anche, come nota giustamente Figà Talamanca, da ciò che è accaduto alle scuole superiori. L’introduzione del 3+2 ha tuttavia creato una discontinuità importante, cambiando il tasso di crescita degli immatricolati e innalzando il livello delle immatricolazioni in modo radicale. Nell’articolo non tratto delle motivazioni alla base di tale innalzamento, ma prendo atto che non sarà il 3+2, inserito nell’ambito di una riforma più generale, ad “accorciare” il percorso che conduce a diventare grandi.

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