Lavoce.info

La faticosa riforma dei servizi idrici

Il servizio idrico integrato su area larga promette più efficienza e più equità, perché permette di sfruttare le economie di scala e tende verso una tariffa uniforme all’interno dell’ambito territoriale ottimale. Restano da superare però alcune difficoltà. In particolare, preoccupano le recenti fusioni tra aziende multi-servizio. Il problema sta nell’incoerenza tra l’idea del legislatore, che porta al superamento dei confini comunali e al passaggio di poteri da ciascun comune a un’entità superiore, e la permanenza dei singoli comuni come attori del processo.

Sono passati oltre undici anni dalla promulgazione della legge n. 36 del 5 gennaio 1994 che ha cercato di riformare i servizi idrici. A che punto siamo? Dove stiamo andando? Per rispondere, occorre ricordare il punto di partenza, le ragioni e le fasi della riforma.

La situazione

Il punto di partenza era l’estesa frammentazione del settore, derivante dalla legge Giolitti di un secolo fa che attribuiva ai comuni la responsabilità del servizio: una soluzione che ha prodotto molti effetti sociali positivi, ma che è apparsa sempre più inadeguata quando sono cresciute le esigenze di un approccio industriale. È proprio per superare la frammentazione, sfruttare le economie di scopo e di scala, che la legge 36/94 ha imposto il servizio idrico integrato (ossia l’integrazione funzionale di tutto il ciclo dell’acqua – distribuzione, raccolta e depurazione delle acque reflue) da sviluppare su un’area più vasta di quella comunale, il cosiddetto Ambito territoriale ottimale (Ato), con tariffe fissate da una Autorità di ambito seguendo regole elaborate a livello nazionale dal comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche.
Le fasi della riforma sono così sintetizzabili: configurazione degli Ato da parte delle Regioni; insediamento delle rispettive autorità nominate dalle assemblee delle province e dei comuni interessati; svolgimento delle “ricognizioni” sullo stato dei servizi; approvazione di un piano di ambito con l’indicazione degli interventi e del modello gestionale; scelta della modalità di affidamento della gestione; scelta del gestore. Ed ecco i risultati al 31 dicembre 2004. Su novantuno Ato previsti, ottantasette hanno già avuto l’insediamento dell’Autorità, ottantuno hanno realizzato la ricognizione dello stato delle reti e degli impianti, sessantotto hanno approvato il Piano d’ambito e quarantadue, che rappresentano il 58 per cento della popolazione, hanno già realizzato l’affidamento del servizio. Di questi quarantadue affidamenti, ventisei contemplano una società mista tra pubblico e privato, quattordici una società interamente pubblica e due soltanto, Frosinone ed Enna, sono passati attraverso la gara per la concessione del servizio.
Un quadro insoddisfacente in assoluto a undici anni dalla promulgazione della legge. Ma positivo se si considera che nel 2000 erano solo due gli Ato con il gestore unico. La paralisi iniziale si spiega con la resistenza dei comuni a una riforma che li spossessava di un servizio rilevante sul piano politico ed economico. L’accelerazione si è invece manifestata nel 2001, nell’attesa della Finanziaria 2002 che annunciava l’introduzione del principio della gara come unico metodo di affidamento del servizio: ci fu la corsa alla costituzione di società pubbliche per evitare la nuova disciplina, e subito dopo la corsa continuò per sfruttare la possibilità della società pubblica come soluzione transitoria. In effetti le forze locali, soprattutto al Centro e al Nord, sono contrarie a concedere il servizio tramite gara e hanno quindi salutato come una vittoria la modifica normativa del 2003, che ha riammesso la società mista e la società interamente pubblica, sanando inoltre gli affidamenti diretti in capo a società quotate in Borsa.
Spazi di concorrenza rimangono anche all’interno delle forme di affidamento diretto, perché il socio privato va scelto mediante gara e perché i lavori vanno appaltati con gara. Ma in questi casi il beneficio della concorrenza tende a premiare gli azionisti (diventa socio chi paga di più) o il gestore (fa i lavori chi chiede di meno) e non necessariamente il consumatore, come sarebbe invece se la gara per il servizio fosse vinta dal concorrente disposto a garantire il servizio alla tariffa più bassa. Le forti soddisfazioni degli azionisti delle utility quotate in Borsa sono un campanello d’allarme da questo punto di vista. Il fatto poi che il gestore monopolista e il suo controllore, ossia l’Autorità di ambito che fissa la tariffa, siano espressione della medesima realtà politica, non rassicura circa la tutela del consumatore. Tanto più che in questi anni i sindaci di ogni colore sono spinti a esaltare le entrate da tariffa a fronte della crescente difficoltà di aumentare il prelievo tributario (il che meriterebbe una profonda riflessione politica, dato che, a differenza del sistema tributario, mancano criteri generali sulla finanza tariffaria).

Leggi anche:  Alptransit in Svizzera: perché non fu vera gloria ferroviaria

Le difficoltà che restano

Resta la soddisfazione che il servizio idrico integrato su area larga, comunque si realizzi, promette più efficienza e anche più equità rispetto alla situazione pre-riforma, vista la possibilità di sfruttare le menzionate economie di scala e vista la tendenza verso una tariffa uniforme all’interno dell’ambito. L’auspicio è dunque che la riforma proceda, superando le residue difficoltà che tuttavia appaiono rilevanti. In particolare, preoccupano le recenti fusioni tra aziende multi-servizio, ciascuna delle quali opera in parte di un Ato. Nulla di male in astratto: le aziende multi-servizio sono infatti contemplate nella legge, né si può escludere che alla fine il disegno della legge si realizzi con imprese che siano allo stesso tempo multi-servizio e multi-ambito. In pratica, però, sono evidenti le complicazioni tecniche. Ma soprattutto è intuibile il rischio che i comuni coinvolti in tali fusioni rifiutino il disegno di aggregazione territoriale e di devoluzione dei poteri voluto dalla riforma. In effetti, se un comune ha trovato conveniente operare con altri comuni fuori dell’Ato, condividendo con loro e non con gli altri comuni dell’Ato le responsabilità di gestire o controllare l’azienda comune e di trovare le regole di convivenza circa la divisione dei costi e dei benefici della sua attività, non è detto che accetti poi di aggregarsi con quei comuni dell’Ato inizialmente trascurati o rifiutati.
Il problema di origine, già presente nella legge 36/94, è l’incoerenza tra il l’idea del legislatore, che porta al superamento dei confini comunali e al passaggio di poteri da ciascun comune a un’entità superiore, e la permanenza dei singoli comuni come attori del processo. Sono infatti i comuni che devono formare l’assemblea di ambito in cui approvare il programma degli interventi e le tariffe, nominare l’Autorità, scegliere la forma di gestione. La storia della legge 36/94, con la paralisi dei primi anni e il faticoso procedere in quelli più recenti, conferma che nessun ente si priva volentieri di un potere con rilevanti contenuti politici ed economici. Al contempo, l’avanzamento avvenuto sta a testimoniare che il processo è attuabile, solo che ci sia un sufficiente grado di fermezza, tenacia e abilità in sede legislativa ed esecutiva.

Leggi anche:  Per le concessioni balneari il "G20 delle spiagge"

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'energia di Poste è da posizione dominante*

Precedente

Decentramento contrattuale? No, grazie

Successivo

La battaglia sul bilancio

  1. Baldi Davide

    Sono in piena sintonia con quanto riportato nell’articolo, in particolare sul problema del conflitto di interessi che si viene a creare tra organo di controllo (Ato) e gestore del servizio. La presenza degli stessi enti locali in entrambi i comparti gioca a sfavore dell’interesse dell’utenza. Prendiamo per esempio i periodici tagli delle finanziarie alle amministrazione locali, le quali si trovano a dover far fronte ad un sempre maggior fabbisogno finanziario. Come sappiamo, nel calcolo della tariffa del s.i.i. possono essere inserite voci quali “canoni per concessione” come rimborso ai Comuni, propietari degli impianti, per la cessione di questi al nuovo gestore unico. In questo scenario, il conflitto di interessi gioca una leva al lievitamento di questi “canoni”, per reperire risorse da utilizzare poi nella normale amministrazione. Canoni più alti uguale prezzi più salati. Non mi sento di colpevolizzare i Comuni che agiscono in questo modo, purtroppo hanno le loro ragioni, ma non si può negare la necessità che qualcosa deve cambiare, soprattutto se ciò che si ricerca è la tutela dell’utenza.

  2. giorgio

    Sarei curioso di sapere se esistono altri casi di questo genere:
    Sulla mia cartella per il pagamento del consumo di acqua esiste la voce (depurazione) che incide quasi il doppio del costo dell’acqua cosumata,il grave è che questo prezzo lo paghiamo da oltre 12 anni e il depuratore non esiste.
    Grazie

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén