Nel mercato concorrenziale l’interazione tra i soggetti economici si svolge a partire da decisioni decentrate. E’ contraddittorio ed erroneo sostenere che una politica della concorrenza come decisione collettiva che si sostituisce o anche soltanto si accompagna a decisioni private, offra i presupposti per la piena trasparenza, la chiarezza e la certezza circa i criteri con i quali le norme antitrust vengono applicate. Mentre la concezione che vede nell’autonomia decisionale di un’impresa un valore in sé, sarebbe fonte di “opacità” e di “ingiustificati formalismi”.

L’ultima relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato stimola a un confronto tra modelli alternativi di politica della concorrenza. In materia di intervento pubblico visioni alternative sono ovviamente ammissibili, ma i pregi e i difetti di ciascuna devono essere conosciuti, e riconosciuti, obbiettivamente; e non ignorati o, addirittura, inversamente attribuiti.

Il decentramento decisionale

Nel mercato concorrenziale l’interazione tra i soggetti economici si svolge a partire da decisioni decentrate. La storia delle idee offre giustificazioni diverse a sostegno del decentramento decisionale. Alcune di queste possono avere implicazioni difformi e talvolta contrastanti per l’intervento pubblico a tutela del mercato.
Una prima giustificazione del decentramento decisionale deriva dal principio che ciascun individuo è il miglior giudice del proprio benessere e delle proprie azioni, quando queste ultime non producono “effetti esterni” sulle funzioni di profitto o di utilità di ogni altro soggetto. Questa condizione è approssimata quando la dimensione efficiente degli operatori economici è trascurabile rispetto al volume complessivo degli scambi. Il decentramento decisionale nel mercato è allora giustificato se le condizioni tecnologiche favoriscono industrie frammentate; la giustificazione però viene meno se quella condizione “strutturale” non è verificata.
Una seconda giustificazione ha radici diverse e, in ampia misura, indipendenti da condizioni strutturali: il decentramento decisionale è desiderabile quando consente, a ciascun soggetto economico, di veicolare, a beneficio collettivo, la propria informazione “privata” (i suoi “gusti”, se è un consumatore; la “tecnologia” o, ancor di più, la sua capacità di “innovare”, se è un produttore). La concorrenza, in questa prospettiva, consiste essenzialmente nell’assenza di impedimenti, naturali o artificiali, alla libertà dei soggetti di offrire o di domandare beni.
Diversamente dalla seconda giustificazione, che vede nell’autonomia decisionale di un’impresa un valore in sé, la prima giustificazione può essere talvolta piegata a una visione “interventista” della politica della concorrenza. Se le condizioni strutturali non sono verificate, si ritiene necessario un intervento pubblico, cioè la sostituzione di una decisione collettiva alle decisioni decentrate. In tali casi, inoltre, si guarda all’efficienza, come criterio che guida la decisione, non come esito ultimo e, in qualche modo, impalpabile dell’operare del sistema di mercato, ma come esito specifico della specifica decisione.

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La decisione pubblica

Paradossalmente, questa visione può rivelarsi più vicina al corporativismo e al dirigismo che ai principi del mercato. La decisione pubblica può sovrapporsi alle decisioni decentrate in modi diversi; non escluso quello, più volte richiamato nei commenti alla relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, di “concertare soluzioni con le stesse imprese”. Ma è, alla fine, inevitabile che perseguire una politica della concorrenza in questa accezione porti con sé tutte le difficoltà e i problemi delle politiche pubbliche di intervento diretto: l’inefficienza dei meccanismi con cui vengono prese le decisioni collettive; tutte le conseguenze dell’asimmetria informativa tra decisore pubblico e soggetto privato, dalla potenziale inadeguatezza dell’intervento diretto anche quando affidato a soggetti pubblici “benevoli”, fino alla cattura, alla collusione, alla corruzione.
Va da sé che, quando una “politica economica” è davvero necessaria in un’economia di mercato, le difficoltà della sua attuazione non possono essere, in principio, impedimenti. Sembra tuttavia peculiare che tale necessità venga chiamata in causa quando si tratta, alla fine, di esaltare assetti sociali decentrati. E, in ogni caso, quelle difficoltà devono essere tenute ben presenti quando si disegnano le istituzioni o se ne modella l’intervento.
Per contro, la visione della politica della concorrenza che scaturisce dalla seconda giustificazione si identifica essenzialmente in un diritto della concorrenza.
Il diritto della concorrenza utilizza criteri generali stabiliti a priori per delimitare l’insieme delle strategie lecite di impresa entro confini più ristretti di quelli definiti da un “codice di commercio”. (1) Esso interviene in circostanze, stabilite anch’esse a priori, nelle quali il contesto concorrenziale – ossia l’assenza di impedimenti alla libertà dei soggetti di offrire o di domandare beni – è lontano dalla sua immagine ideale. L’obiettivo ultimo del diritto della concorrenza è però quello di esaltare l’autonomia decisionale delle imprese, proprio per consentire a ciascuna di esse, sia pure nei limiti di un insieme di scelta più ristretto, di veicolare la propria informazione privata in un contesto più adatto a favorirne le ricadute positive per la società. Il diritto della concorrenza consente così anche di minimizzare le conseguenze della dipendenza informativa del decisore pubblico dai soggetti privati; una dipendenza che è illusorio ritenere di poter superare attraverso una “condivisione” delle specifiche decisioni di impresa.
Anche la costruzione e l’applicazione di un diritto della concorrenza pongono problemi e difficoltà. Errori del primo e del secondo tipo sono sempre dietro l’angolo ogniqualvolta una decisione specifica deve ricondurre la fattispecie concreta a una fattispecie generale. Spesso, il vincolo del “precedente” può venire in contrasto con la flessibilità ideale della valutazione.
Ciò che tuttavia non è possibile affermare è che la politica della concorrenza che scaturisce dalla seconda concezione è ostile nei confronti delle imprese e ingiustificatamente severa; mentre quella che scaturisce dalla prima concezione è rispettosa e garantista.
È, al contrario, scopo intrinseco della seconda, e non lo è della prima, dare il massimo risalto all’autonomia delle decisioni di impresa. Ancora meno fondato è che il prevalere del primo modello abbia alcunché a che fare, se non forse con effetti negativi, con la qualità e la speditezza dell’azione amministrativa, con la snellezza delle procedure, con l’eliminazione dell’eccessiva burocrazia, in ultima analisi con la semplificazione e l’efficienza dell’intervento pubblico.
Ma, soprattutto, è internamente contraddittorio e, infine, erroneo che la prima visione – una politica della concorrenza come decisione collettiva che si sostituisce o anche soltanto si accompagna, modificandole e plasmandole, a decisioni private – offra i presupposti per la piena trasparenza, la chiarezza e la certezza circa i criteri con i quali le norme antitrust vengono applicate; mentre la seconda sia fonte di “opacità” e di “ingiustificati formalismi”.

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(1) Le due norme generali del diritto della concorrenza concernono il divieto di intese restrittive e la cosiddetta “responsabilità speciale” che grava sulle scelte delle imprese che si trovano in posizione dominante nel mercato.

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