Arrivano nuove certezze sul fenomeno del riscaldamento globale. Nel frattempo, a luglio, c’è stato il vertice dei G8 e la presa di posizione ufficiale sul problema dei cambiamenti climatici. Ma, a sorpresa, anche il “contro-accordo” di alcuni paesi sviluppati, tra cui gli Usa. Secondo tale patto la riduzione delle emissioni si ottiene attraverso lo sviluppo di tecnologie pulite. Non vi è bisogno di impegni vincolanti di riduzione delle emissioni, come vuole il protocollo di Kyoto. In Italia, invece, il dibattito sul clima vola molto più in basso.

In questo ultimo scorcio d’estate, arrivano nuove certezze sul fenomeno del riscaldamento globale.

La nuova evidenza

Se la temperatura al suolo viene registrata in aumento, lo stesso fenomeno dovrebbe verificarsi nella troposfera, lo strato più basso dell’atmosfera, quello più a contatto con la superficie terrestre. Tuttavia, dagli anni Settanta a oggi le rilevazioni effettuate con i consueti strumenti hanno evidenziato una sostanziale stabilità delle temperature della troposfera. Ora, tre articoli pubblicati nel numero di Science dell’11 agosto 2005 hanno rilevato errori nella misurazione e registrazione dei dati di temperatura di quello strato. (1)
Una volta corretti, allineano la tendenza a quella rilevata per la superficie terrestre: il trend degli ultimi decenni è crescente e in accelerazione. Cosicché un ulteriore piccolo pezzo di incertezza sembra essere stato risolto. Naturalmente, va posta la consueta domanda: è l’aumento della temperatura terrestre una conseguenza del riscaldamento del pianeta originato da attività umane?

Il summit di Gleneagles e gli Stati Uniti

Qualche delucidazione in merito alla risposta e a quanto passa nella mente dei leader dei principali paesi del mondo sviluppato è venuta dal summit dei G8 svoltosi in terra di Scozia, a Gleneagles, il 6-8 luglio scorsi. Le premesse non erano state incoraggianti. Nonostante Tony Blair fosse determinato a far sì che dal summit uscisse una dichiarazione congiunta sulla serietà del problema dei cambiamenti climatici e il riconoscimento che la scienza obbliga il mondo ad agire per contenere le emissioni di gas-serra, il presidente americano George W. Bush aveva ancora una volta spinto sul pedale del freno. Niente tagli alle emissioni, ma investimenti in nuove tecnologie: questo era il consueto leit-motif, ripetuto anche a ridosso dell’evento. Il presidente ribadiva poi la sua opposizione a qualsiasi accordo che assomigli a Kyoto perché riduzioni vincolanti delle emissioni affosserebbero l’economia americana.
Con qualche sorpresa il vertice si è invece concluso con una dichiarazione in cui tutti – Stati Uniti compresi e, per l’occasione, leader di Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa – riconoscono che il riscaldamento globale si sta davvero verificando, che le attività umane vi stanno contribuendo e che potrebbe influenzare qualsiasi parte del globo. I presenti hanno dichiarato altresì di voler passare urgentemente all’azione con l’obiettivo di sviluppare tecnologie pulite, aumentarne la disponibilità per i paesi in via di sviluppo e aiutare le comunità più vulnerabili ad adattarsi all’impatto del cambiamento climatico.
Più significativamente da un punto di vista politico e diplomatico, nelle parole dei leader presenti l’incontro marcava l’inizio di un “nuovo dialogo” sulla politica del clima tra paesi del G8 e quelli con rilevante fabbisogno di energia, in linea con lo spirito e i principi della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici dell’Onu (Unfccc).
Molti osservatori hanno salutato questa dichiarazione come un successo: indurre gli Stati Uniti a riconoscere una responsabilità dell’uomo nel fenomeno del riscaldamento globale è stato visto come un significativo progresso realizzato dal vertice. (2)
In qualche misura il successo c’è stato, visto che il mondo era dapprima più interessato alla questione degli aiuti al terzo mondo e poi concentrato sulle bombe di Londra. Essere riusciti a mantenere il clima al centro della discussione e aver prodotto una simile dichiarazione è sicuramente un merito dei partecipanti e del primo ministro britannico in particolare. Sotto il profilo della sostanza si tratta di ben poca cosa.
Bush figlio non ha fatto altro che rinfrescarsi la memoria andando a rileggere le gesta del padre che aveva apposto anche la sua firma alla convenzione concordata all’Earth Summit di Rio de Janeiro nel 1992. (3) Forse pressato dalle rivelazioni della stampa sulle alterazioni e censure apportate dal suo staff a rapporti scientifici che mettevano in evidenza la serietà del fenomeno dei cambiamenti climatici e l’urgenza di correre al riparo con opportune politiche o più probabilmente indotto dall’orientamento crescente del grande business non energetico a invocare azione contro il fenomeno: sono questi i due motivi che probabilmente hanno portato su una posizione nuova il presidente Bush, che alla fine si è presentato quasi protagonista in positivo del summit. In realtà, la sua determinazione a contrastare le posizioni europea e russa e la netta preferenza del Vecchio Continente per vincoli quantitativi alle emissioni anche nel periodo post-2012 si è concretizzata in un colpo a sorpresa, un po’ all’insegna del “divide et impera”.

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Un accordo alternativo?

È così che, alla soglia delle vacanze estive, il 27 luglio scorso rimbalzava dall’Australia la notizia che Usa, Australia, Cina, India, Corea del sud, cui si aggiunge all’ultimo momento anche il Giappone, hanno siglato un patto di collaborazione per sviluppare nuove tecnologie pulite: riguardano in particolare il carbone pulito, le energie rinnovabili (eolica soprattutto) e il nucleare di nuova generazione. L’intento dell’accordo è di consentire la riduzione delle emissioni di gas-serra senza la necessità di porre limiti vincolanti. (4)
Molti hanno letto in questa operazione la volontà di superare il protocollo di Kyoto e significativa è l’adesione di un paese come il Giappone che quel protocollo ha ratificato. In realtà, il gruppo dei sei paesi non boicotta né mina Kyoto, ma cerca di fare qualcosa di parallelo. Uguale l’obiettivo, diverso lo strumento. Con in più il fatto che tetti alle emissioni presentano sulla carta maggiore certezza di tempi e di risultati rispetto all’innovazione tecnologica.
Ma il significato più rilevante del patto è politico. Voluto soprattutto dall’Australia, nasce come il suo tentativo di superare l’isolamento internazionale rispetto agli altri paesi sviluppati che si sono vincolati a un accordo. Questa esigenza era forte anche nell’amministrazione Usa, che quindi ha prontamente aderito. Allo stesso tempo questi paesi, che rappresentano una fetta rilevante di popolazione mondiale e di emissioni globali, intendono forse dare vita a un’alleanza strategica nell’area Asia-Pacifico, capace di opporsi all’Unione europea e alla Russia in vista dei giochi sul clima post-2012. Il tutto con buona pace del “New Dialogue” sbandierato a Gleneagles.
Vedremo quali implicazioni per la politica del clima avrà tutto questo in autunno, dal 28 novembre al 9 dicembre, quando a Montréal si svolgerà l’undicesima Cop (Conferenza delle Parti) e contestualmente il primo Mop (Meeting delle Parti), riunione riservata ai soli paesi che hanno ratificato il protocollo di Kyoto.

E l’Italia?

L’Italia viaggia intanto su altri livelli. L’evento di queste settimane è rappresentato dal discusso (e discutibile) inserto pubblicitario a pagamento che il ministero dell’Ambiente ha fatto pubblicare su Famiglia Cristiana. (5) Si tratta di un comunicato che riprende i contenuti di un convegno organizzato a Roma sui cambiamenti climatici. Come si evince dal comunicato, in quel convegno, che brilla per l’assenza degli scienziati italiani maggiormente esperti di cambiamenti climatici, si manifesta un profondo scetticismo circa l’esistenza del fenomeno. Il tutto con l’intento di scaricare sulla scienza e le sue mancate certezze l’incapacità del potere politico di imboccare speditamente e decisamente la strada del controllo delle nostre emissioni e del rispetto dei vincoli che ci siamo assunti. È in fondo la posizione nota del ministro Matteoli, in linea con l’orientamento al di là dell’Atlantico. È tuttavia ironia della sorte che nel frattempo gli Usa abbiano già mutato orientamento.

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(1) All’indirizzo http://www.sciencemag.org/sciencexpress/recent.shtml si trova l’indice del numero di Science in parola. L’accesso al testo degli articoli è a pagamento. Un riassunto è tuttavia disponibile in “Heat and light”, The Economist, 11 agosto 2005.
(2) Nonostante il giudizio immancabilmente negativo sull’esito del vertice degli ambientalisti, questa posizione è autorevolmente adottata per esempio da The Economist nell’articolo “More than hot air” del 14 luglio 2005.
(3) Per rinfrescarsi la memoria sul summit di Rio si veda il breve riassunto all’indirizzo http://www.un.org/geninfo/bp/enviro.html.
(4) Un ricco assortimento di comunicati relativi a questo patto si trova, alla data del 29 luglio 2005, nell’archivio del sito http://www.climatewire.org.
(5) Il testo del comunicato è consultabile all’indirizzo http://www.bo.cnr.it/documenti/stampa/convegno-clima.pdf

 

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