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Vogliamo anche noi una politica selettiva dell’immigrazione?

Le politiche dell’immigrazione degli stati dell’Unione Europea stanno diventando sempre più restrittive per i lavoratori poco qualificati, mentre i diversi paesi competono tra di loro nel cercare di attrarre dall’estero lavoratori più istruiti. Da noi, invece, prevale un atteggiamento restrittivo su tutti i fronti. E nel dibattito pre-elettorale si continua a pensare che si possa gestire la politica dell’immigrazione a livello nazionale, ignorando ciò che avviene altrove.

Le campagne elettorali sono, da sempre, un’occasione per disinformare gli elettori sui temi dell’immigrazione.
È una questione molto sentita, che divide l’opinione pubblica. Può essere un facile cavallo di battaglia di movimenti xenofobi e un comodo capro espiatorio per chi vuole scaricare su altri le responsabilità dei propri errori. Paradossale, ma non improbabile, che ciò avvenga anche negli otto mesi che ci separano dalle elezioni politiche.
Paradossale perché in questa legislatura l’immigrazione ha “salvato la faccia” dell’esecutivo in diverse circostanze.
Ad esempio, le poche domande di emersione presentate durante la campagna contro il sommerso di inizio legislatura provenivano quasi tutte da immigrati (per lo più i tanti temuti cinesi). E la crescita dell’occupazione, l’unico dato positivo che il Governo oggi può esibire sull’andamento della nostra economia, è in gran parte il frutto di regolarizzazioni di immigrati che già lavoravano in nero nel nostro paese: la quasi totalità dei nuovi posti registrati dalle statistiche nell’ultimo anno è attribuibile al lavoro di immigrati.

Le interdipendenze fra politiche nazionali

Ogni confronto informato sulle politiche dell’immigrazione non può che partire da una ricognizione di ciò che avviene negli altri paesi dell’Unione e nei principali paesi di origine degli immigrati. La grandezza e la composizione dei flussi migratori diretti da noi dipendono, infatti, in grande misura da come evolvono le politiche migratorie nei paesi di tradizionale destinazione degli immigrati. Basta visitare il sito dell’Home Office britannico (www.homeoffice.gov.uk) per vedere come altrove si monitora attentamente ciò che fanno gli altri paesi. E non è un caso che in occasione dell’allargamento a Est dell’Unione Europea, l’introduzione di restrizioni transitorie all’arrivo di lavoratori dai nuovi stati membri sia stata “contagiata” dalla decisione di Austria e Germania di chiudere le loro frontiere. Questo ha spinto quasi tutti gli altri paesi dell’Unione a 15, compresa l’Italia, a contravvenire al loro iniziale impegno di liberalizzare i flussi, in una vera e propria gara al rialzo delle restrizioni. Come reso esplicito dal dibattito parlamentare in Olanda (da noi queste decisioni vengono prese senza discuterne in Parlamento), si temeva che i lavoratori dell’Est, preclusa la possibilità di entrare in Germania, si sarebbero riversati nei paesi che avessero liberalizzati i flussi. Cosa puntualmente avvenuta: i flussi in provenienza dai nuovi stati membri sono stati complessivamente inferiori alle previsioni, ma sono stati più forti del previsto in Irlanda e nel Regno Unito (fino a cinque volte quelli previsti), paesi che hanno adottato una politica più liberale nei confronti dei lavoratori dei nuovi stati membri, mentre sono stati piu’ contenuti del previsto in Austria e Germania. (1)
La buona performance economica di Irlanda e Regno Unito è in parte attribuibile all’arrivo di lavoratori dall’Est, mediamente più istruiti della popolazione che li accoglie.

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Cosa sta accadendo allora in Europa?

Sono tre le tendenze prevalenti negli altri paesi dell’Unione Europea sulle politiche dell’immigrazione. In primis, si nota un irrigidimento delle norme e delle procedure nei confronti degli immigrati con bassi livelli di istruzione . In secondo luogo, si cerca di attrarre lavoratori molto qualificati. Infine, si investe nell’integrazione degli immigrati, sperimentando nuove misure, come i “contrats d’acceueil et intégrations” francesi. La tendenza prevalente è, dunque, verso un ampliamento delle differenze di trattamento degli immigrati, a seconda soprattutto del loro livello di istruzione. Pragmaticamente, questo si spiega non solo con le esigenze del mercato del lavoro (mancano in Europa anche lavoratori nei segmenti di lavoro non qualificati, come la concia delle pelli o la raccolta dei pomodori, perché nessuno vuole più fare questi mestieri), ma soprattutto col fatto che i lavoratori più istruiti sono più facilmente assimilabili nel nostro tessuto sociale (in genere parlano già le lingue più diffuse, sono più adattabili a svolgere mansioni diverse, sono più informati sul paese che li accoglie, etc.) e creano meno tensioni distributive, dato che competono con lavoratori con redditi medio-alti nei paesi che ricevono gli immigrati. Le restrizioni all’immigrazione servono, dopotutto, per imporre una certa gradualità nei flussi (non per impedirli), in modo tale da evitare tensioni nel processo di integrazione. Nel caso dei lavoratori più istruiti, questa gradualità non è così giustificata. Serve a colmare il gap nell’attrarre lavoro qualificato rispetto a paesi che hanno tratto enormi vantaggi sul piano della crescita economica dall’immigrazione. In Canada e Australia, paesi che hanno adottato politiche selettive dell’immigrazione, un quarto degli immigrati a livelli di istruzione elevati, contro solo il 5% nei paesi dell’Unione Europea.
L’Italia è in controtendenza non solo rispetto ai paesi Ocse, ma anche nell’ambito dell’Unione Europea. Come sottolineato da Adriana Topo da noi le quote vengono allocate solo in base alla data di presentazione delle domande, non tenendo minimamente in conto il livello di istruzione e la precedente esperienza lavorativa degli immigrati. Bene che in campagna elettorale di questo si discuta. Ecco un quesito che bisognerebbe porre ai leader delle due coalizioni: pensate di differenziare anche da noi le politiche dell’immigrazione a seconda del livello di istruzione degli immigrati?

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Vogliamo integrarli?

L’Italia non fa nulla neanche sulla terza strada imboccata in Europa, quella dell’integrazione degli immigrati.
Integrare vuol dire innanzitutto concepire un percorso al termine del quale è possibile acquisire la cittadinanza e avere diritto di voto. Il nostro regime di acquisizione di diritti sulla base della cittadinanza dei genitori (jus sanguinis) ci porta al paradosso di far votare sull’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori persone che sono da due, forse anche tre, generazioni in America Latina e non figli di immigrati che da anni lavorano e pagano le tasse nel nostro paese.
Ma integrazione non vuol dire solo questo. Vuol dire anche certezza e semplificazione del quadro normativo per allontanare gli immigrati e chi offre loro lavoro dall’irregolarità e dal lavoro nero. Significa avere restrizioni realistiche dei flussi e non quote che coprono il 10 per cento della domanda delle imprese e fanno arrivare lavoratori clandestini che si regolarizzeranno alla prossima sanatoria. Significa anche non imporre forche caudine a chi evita di rimanere disoccupato o aspira a migliorare la propria posizione cambiando datore di lavoro.
Come ci spiega Paola Scevi,  le procedure da seguire dall’immigrato e dal suo datore di lavoro in caso di cambio di impiego sono molto onerose, un vero e proprio incoraggiamento attivo al lavoro nero. Bisogna allora proporsi di avere meno procedure ad alto utilizzo di risorse amministrative e più incentivi all’integrazione. Un buon test di quanto siano attuabili le nostre norme consiste nel guardare al lasso di tempo intercorso tra la loro introduzione e la pubblicazione dei regolamenti attuativi. Ci sono voluti quattro anni per avere il regolamento della Bossi-Fini e il tanto decantato Sportello unico per l’immigrazione non è ancora del tutto operativo.

(1) Questo fatto è documentato nel saggio Boeri and Bruecker, “Why Are Europeans Getting so Tough on Migrants?”, che uscirà in ottobre su Economic Policy).

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11 commenti

  1. Claudio Resentini

    Ho trovato molto interessante l’articolo del prof. Boeri e gli altri sull’argomento, ma non condivido appieno la visione selettiva dell’immigrazione che, sulla scorta di esempi stranieri, sembrano voler sostenere.
    Il lato positivo della proposta è senza dubbio il suo “anti-razzismo”:straniero non è sinonimo di “brutto, sporco e cattivo”. Benissimo! Se non fosse per il lato negativo, cioè la visione un po’ pragmatica, un po’, mi si consenta, cinica, per la quale tra gli stranieri esistono i buoni ed i cattivi, visione che traccia la linea di separazione tra gli uni e gli altri, tanto per cambiare, in corrispondenza con la linea di demarcazione determinata dall’ineguale distribuzione di capitale (economico, sociale e culturale), ovvero secondo un criterio di classe.
    Insomma, ben vengano gli stranieri occidentali o “occidentalizzati” (un tempo si sarebbe detto “civilizzati”). “Vade retro” agli altri.
    Sostenibilità sociale ed economica vengono forse salvaguardate (anche se solo a livello nazionale e non globale), ma la giustizia va a farsi benedire. Ne convenite?
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Come ricordava un altro lettore, anche le politiche dell’immigrazione che non sono esplicitamente selettive finiscono per esserlo. Ad esempio, il sistema di quote riempite in base alla data di presentazione della domanda, può favorire chi si arricchisce sulla pelle degli immigrati. Restrizioni troppo forti possono favorire l’immigrazione illegale con restrizioni troppo forti, attraendo più lavoratori con basse qualifiche, creando tensioni col segmento più debole della popolazione. Un’immigrazione più qualificata creerà transitoriamente qualche problema a chi ha redditi più elevati e pagherà di più in termini di contributo alla crescita del nostro paese. Comunque è giusto discuterne senza remore.

  2. Bruno Gotti

    Tutti questi discorsi sull’immigrazione partono da un presupposto: che l’immigrato “sia utile” alla nostra società. E se non fosse così? E se fosse esattamente l’opposto? Perché nessuno valuta i costi ed i benefici che l’immigrato produce? Sia in termini economici che sociali.
    Ad esempio, in termini puramente economici, siamo sicuri che le tasse pagate annualmente da un muratore extracomunitario siano superiori rispetto ai servizi che lo stato italiano fornisce del tutto gratuitamente anche ai suoi familiari, assistenza sanitaria e scolastica in primis?
    Abbiamo bisogno di personale per raccogliere pomodori? E chi l’ha detto che in Italia si debbano produrre pomodori? Questi ultimi costerebbero meno se importati dal nord Africa, se non ci fossero gli assurdi vicoli posti dalla politica agricola della UE. E lo stesso possiamo dire per il latte, per la concia delle pelli e per mille altri prodotti a basso contenuto tecnologico…
    Ci servono lavoratori qualificati, allora? E‘ come dire che le nostre università non sono in grado di fornire un’adeguata formazione ai propri studenti (e in parte è certo vero). Vogliamo infatti contare quanti sono i laureati che non trovano un lavoro adeguato al proprio livello di studio e che sono costretti a sbarcare il lunario con lavoretti saltuari e mal pagati? È solo perché hanno sbagliato corso di laurea, studiando materie che non hanno mercato? Peccato che il fenomeno tocchi anche gli ingegneri, non solo i laureati in storia medievale…
    Sono discorsi poco “politically correct”? Non penso di aver espresso concetti molto distanti da quelli più volte espressi ad esempio da Ronchey sul Corriere in passato.
    Penso semmai sia ora di mettere finalmente in discussione assiomi che hanno portato danni notevoli in paesi di forte immigrazione negli anni passati come UK e Francia.

    • La redazione

      Le sue considerazioni più che legittime. Ma non le condivido. Se gli immigrati vengono da noi è perchè ci sono opportunità di impiego che gli italiani non vogliono o non possono sfruttare. E se c’è disoccupazione intellettuale ion Italia non è certo per via dell’immigrazione. Conta il sistema scolastico e istituzioni del mercato del lavoro che rendono difficile il primo ingresso. Quanto a se bisogna produrre questo o quello, per fortuna non lo decidiamo nè io nè lei. Se qualcuno lo fa significa che è redditizio farlo. Bene comunque rimuovere restrizioni all’importazione di prodotti agricoli dai paesi in via di sviluppo. Aumenterebbe il benessere dei nostri consumatori e dei cittadini dei paesi in via di sviluppo da cui provengono gli immigrati. contribuendo a imporre maggiore gradualità all’immigrazione.

      Cordiali saluti

  3. ricongiungimenti familiari

    Spett.le redazione,

    Io sono residente in italia da 7 anni. Anche mia mamma ,papa,da 17 anni. Vorrei fare ricongiungimento a la mia sorella grande che, si trova alle Mauritius. Grazie per la vostra risposta grazie mille…

    kevin (da catania)

    • La redazione

      Purtroppo la legge Bossi-Fini ha fortemente ristretto la normativa sui ricongiungimenti famigliari. Un’altra indicazione del fatto che non si vuole investire sull’integrazione degli immigrati.

  4. Alberto Lusiani

    In realta’ il sistema Italia ha di fatto una politica selettiva dell’immigrazione, pur non adeguatamente discussa in Parlamento e non chiaramente formulata per legge.
    Innanzitutto sono scoraggiati i profughi, cui vengono offerte condizioni nettamente piu’ sfavorevoli rispetto agli altri paesi europei, oltre ad una burocrazia ostica ben piu’ di altri paesi.
    Sono scoraggiati gli immigrati istruiti, visto che l’offerta di lavoro qualificato in Italia e’ molto ridotta, e insufficiente ad assorbire anche gli stessi autoctoni senza “opportuni” legami amicali e parentali.
    Sono invece incoraggiati gli immigrati con basse qualifiche, a causa della perseveranza degli “imprenditori” italiani ad offrire posizioni lavorative non qualificate e con stipendi miseri rispetto agli standard oltre le Alpi. Complice degli imprenditori e’ ovviamente la pesante esazione fiscale dello Stato.
    Sono infine incoraggiati gli immigrati poco inclini al rispetto della legge, e anche i criminali veri e propri, incentivati dal regolare ricorso alle sanatorie di massa, che con chiarezza mostrano come Stato e partiti politici preferiscano gli immigrati illegali con basse qualifiche ai profughi e agli immigrati qualificati.
    Un ulteriore incentivo agli immigrati con scarso rispetto della legge, peraltro parimenti diffuso tra gli autoctoni, e’ un sistema di giustizia tra i piu’ inefficienti dell’Europa e del mondo.
    Come mostrano tutti gli studi in merito, sarebbe opportuno incentivare l’immigrazione qualificata. Non mi sembra che l’Italia sia nelle condizioni di farlo, per molteplici motivi. Non e’ un caso che invece esportiamo i c.d. “cervelli”. Mi sembra invece che la vocazione italiana ineludibile sia quella di attrarre il segmento meno qualificato e meno incline al rispetto della legge tra gli aspiranti immigrati. Questo dovrebbe far riflettere in minimo i fautori dell’immigrazione senza limiti: nel gioco l’Italia, come in molti altri ambiti, risulta perdente.

    • La redazione

      Grazie per il suo contributo. Non siamo certo noi a proporre l’immigrazione senza limiti. Ci vuole gradualismo nell’immigrazione. Le politiche selettive possono servire a facilitare l’arrivo di immigrati piu’ qualificati. Ma ci vogliono per questo anche riforme del sistema universitario e un sistema di contrattazione che offra di più a chi ha qualifiche più alte.

  5. Mario Brambilla

    Discutere sull’opportunità di politiche selettive dell’immigrazione non può prescindere dal considerare concretamente il funzionamento del mercato del lavoro nazionale, lo specifico strumento di governo dei flussi e la sua capacità effettiva di regolare gli ingressi. Oggi l’immigrazione in Italia è quasi del tutto spontanea, avviene al di fuori dei canali ufficiali e viene legalizzata con ripetute sanatorie. Anzi, stagionali a parte, le stesse quote annuali sono in gran parte utilizzate dai datori di lavoro per assumere stranieri che stanno o hanno già lavorato irregolarmente in Italia. Quote più realistiche e procedure di ingresso più adeguate farebbero certo diminuire l’immigrazione irregolare, ma temo che la loro efficacia ritornerebbe bassa se si adottassero criteri eccessivamente selettivi. Peraltro, viene sempre più confermato che è la domanda di lavoro ad essere tragicamente livellata su posizioni dequalificate, mentre il capitale umano degli immigrati risulta tutt’altro che basso! Ciò contribuisce a dare una rappresentazione dell’immigrazione attuale appiattita su un profilo di qualificazione più basso di quello che in realtà possiede in termini soggettivi. Cosa selezionare quindi all’ingresso? Le competenze possedute dal lavoratore oppure sulle posizioni lavorative per cui vengono richiesti? Bel problema! Mi sembra che il vero nodo, quando il lavoratore è ancora all’estero, continui ad essere quello del luogo e delle modalità in cui possa avvenire realisticamente l’incontro domanda/offerta di lavoro immigrato. Nondimeno, se l’obiettivo è “favorire un’immigrazione qualificata che potrebbe anche meglio integrarsi nella nostra realtà” forse dovremmo partire proprio dagli immigrati che sono già qui da noi. Ad esempio, è forse tempo di pensare all’introduzione di misure, dispositivi e percorsi istituzionali (oggi totalmente assenti) di certificazione e valorizzazione delle competenze dei lavoratori stranieri. Ne trarremmo vantaggio reciproco.

  6. said khailat

    L’Italia potrà risolvere il problema dell’immigrazione adattandosi alle leggi della comunità europea in materia d’immigrazione e dire a tutto il mondo senza ipocrisia ne vergogna che ci sono 62millioni d’italiani sparsi in tutto il mondo il che significa che nel bel paese non si stava e non si sta bene politicamente, amministrativamente e socialmente….! e che la gente che vieni da voi prima o poi rimarra’ delusa……

  7. said khailat

    La cosa strana che ho notato in Italia e’ che gli immigrati sono perfettamente integrati nel tessuto socio-famigliale del paese..accudiscono gli anziani, guardano i bambini fanno i lavori che neanche quegli italiani di basso livello culturali vogliono fare ,ma non hanno nessuna voce politica come nel resto d’europa, che gli puo’ rendere liberi e parte attiva in questa società…conosco immigrati che vivono in Italia da trent’anni ma non sono cittadini italiani!!!.conosco bambini nati sul territorio del bel paese ma sono sempre considerati cittadini di serie B o piutosto ( extracomunitari!)…non vi sembra che l’integrazione in Italia e’ solo una finzione e che l’italiano ha bisogna sempre dell’inferiorita’ sociale e politica degli immigrati extracomunitai per sentirsi comunitario ( edEuropeo )!

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