Dopo un difficile travaglio, questa settimana il Governo potrebbe varare lo schema di decreto legislativo di riforma del diritto fallimentare. Acquisito il parere delle Camere, la bozza potrebbe quindi diventare legge e, all’inizio del prossimo anno, entrare in vigore, svecchiando la nostra decrepita legge fallimentare. Anche se la riforma deve essere giudicata positivamente, è bene sottolineare che costituisce solo una tappa intermedia verso una vera modernizzazione del sistema, ormai impossibile in questa legislatura.

Dopo un travaglio molto peggiore di quanto fosse lecito attendersi, questa settimana il Governo potrebbe varare lo schema di decreto legislativo di riforma del diritto fallimentare. Acquisito il parere di Camera e Senato, la bozza potrebbe quindi diventare legge e, all’inizio del prossimo anno, entrare in vigore, svecchiando la nostra decrepita legge fallimentare. Anche se la riforma deve essere giudicata positivamente, è bene sottolineare che essa costituisce una tappa intermedia verso una vera modernizzazione del sistema, ormai impossibile in questa legislatura.

 

Una legge importante, ma antiquata

 

La normativa fallimentare interessa moltissime categorie (banche e imprese in genere, professionisti, fisco). Influenza il rischio di impresa e l’accesso al credito per le aziende. La nostra legge risale al 1942, quando il sistema economico era infinitamente diverso e più semplice. Allora era ragionevole pensare che, salvo rare eccezioni, un’impresa in crisi dovesse essere chiusa e liquidata. In più, l’impronta autoritaria del regime fascista aveva prodotto una legge che sembrava punire il debitore per il solo fatto di essere in crisi, e prevedeva per la liquidazione dei suoi beni procedure lunghe, macchinose e rigide. Il risultato di ciò sono state molte condanne dell’Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo (1), una generale insoddisfazione di banche e imprese, e una serie di giudizi negativi delle organizzazioni internazionali (Fondo monetario internazionale e Ocse in primis), stupite che persino dopo i disastri Cirio e Parmalat non si fosse stati capaci di modernizzare il nostro antiquato sistema.

Proprio il grande interesse per questa riforma ha fatto sì che, pur mancando in apparenza lobby contrarie, da molti anni qualunque progetto sia stato sommerso dalle critiche di chi, per qualche motivo, lo riteneva non perfetto.

La paralisi sembrava essere stata superata nel marzo 2005, quando il Governo ha inserito nel decreto sulla competitività alcune piccole ma importanti modifiche della legge fallimentare, per poi ottenere dal Parlamento, in maggio, una delega a riscrivere completamente le norme della legge fallimentare. (2) La svolta sembrava vicina, anche se alcune fonti di potere e di rendite (in particolare la procedura di amministrazione straordinaria, riservata alle grandi imprese in crisi) venivano del tutto esentate dalla riforma.

attuazione della delega è stata a dir poco problematica. È infatti subito iniziata una competizione fra i due ministeri incaricati di proporre la nuova legge (Giustizia ed Economia), che lungi dall’innescare una spirale virtuosa, ha creato una corsa al ribasso che più volte ha rischiato di affossare l’intera riforma. I due ministeri hanno insediato distinti gruppi di lavoro, che nel luglio scorso hanno prodotto due diverse bozze.

Benché le due proposte fossero in gran parte coincidenti nelle scelte di fondo, da allora è iniziata una battaglia, formalmente combattuta in nome di grandi principi (il ruolo del giudice, la necessità di liberare l’imprenditore-persona fisica dai debiti che non riesce a soddisfare, eccetera), che però, stranamente, quando si confrontano le due bozze, non risultano messi in discussione da nessuna delle due. Il che induce a pensare che il problema risieda più in uno scontro politico che in una questione di sostanza.

Alla fine, nella battaglia si sono schierate le associazioni di imprenditori (Abi, Confindustria, Assonime, Ania): dopo aver per anni invocato, a ragione, una riforma che salvasse imprese e creditori dall’attuale disastrosa legge, hanno a sorpresa dichiarato che se non verranno fatte alcune modifiche, che pure sembrano incidere marginalmente sui loro interessi, è meglio lasciare  tutto come prima. È prevedibile che il Governo accolga anche queste modifiche.

Nel corso del litigio, parti importanti della riforma sono state stralciate (completamento della riforma del concordato preventivo, regole sulla crisi dei gruppi di società), apparentemente per motivi tecnici. Fra limiti originari e pezzi perduti per strada, la riforma, se si farà, sarà solo un acconto di un lavoro da riprendere al più presto.

 

Evitare un’ennesima perdita di credibilità

 

Alla vigilia della sofferta e incerta approvazione della riforma, il panorama è quindi diviso fra quelli che pensano che a questo punto sia meglio buttare tutto a mare e quelli che pensano che anche poco sia meglio di nulla. Tre ragioni inducono a pensare che i secondi abbiano ragione:

1) in questo periodo il mondo (purtroppo) ci guarda. La riforma delle regole sulla crisi delle imprese, “venduta” per fatta al Fondo monetario internazionale persino poche settimane fa, non può essere ulteriormente rimandata, pena un’ennesima perdita di credibilità;

2) è vero che la riforma incide quasi esclusivamente sulla procedura di liquidazione (il fallimento), ma è d’altra parte vero che le statistiche internazionali dimostrano che oltre il novanta per cento delle imprese in crisi deve essere liquidata. Quindi la riforma non è inutile;

3) il nostro sistema fallimentare, compresa la mentalità degli operatori, è arretrato di decenni. È difficile cambiarlo tutto d’un colpo. Cominciamo quindi a iniettarvi un po’ di novità, che lo “vaccini” in preparazione di una riforma più ampia, da intraprendere ormai nella prossima legislatura.

Si facciano alla bozza di legge le ultime modifiche così prepotentemente richieste e la si approvi. Il meglio è, da sempre, nemico del bene.

 

 * L’autore è stato membro della commissione operante presso il ministero della Giustizia per l’attuazione della legge delega 14 marzo 2005, n. 80, in materia di riforma delle procedure concorsuali. Le opinioni sono espresse a titolo personale.

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(1) La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ritenuto che la durata della nostra procedura di fallimento, nel corso della quale il debitore è privato di alcuni diritti fondamentali (segretezza della corrispondenza, libertà di circolazione, capacità di agire e difendersi in giudizio, eccetera), sia irragionevole e contraria alla Convenzione. Sentenze 20 aprile 2004, 17 luglio 2003, e altre.

 

(2) Decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, “Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale” (se ne veda una valutazione in Fallimenti, riforma a piccoli passi dell’  8 aprile 2005) e legge 14 maggio 2005, n. 80.

La replica di Stefano Micossi

“Vi è, a mio avviso, un difetto nell’interessante articolo di Stanghellini: non si menziona, all’interno del testo (questo fatto era stato segnalato ai lettori da un asterisco di fianco al nome dell’autore, n.d.r.), il fatto che l’autore era membro di una delle due ultime commissioni, quella presieduta dal senatore Giuliano. Commissione che poco ha contribuito a determinare gli aspetti positivi della versione finale del provvedimento che sarà esaminata venerdì dal consiglio dei ministri.
L’autore dovrebbe anche ben sapere che su questa materia l’Assonime ha mantenuto una costante pressione, anche se come sempre discreta, per avere una disciplina più moderna. In particolare sottolineando l’esigenza centrale di ridurre le competenze del giudice al mero controllo di regolarità delle procedure e applicando a tutte le controversie interne alla procedura il rito camerale. Per questo avevamo criticato il prodotto della precedente Commissione Trevisanato, per questo abbiamo considerato inadeguate le proposte della Commissione Giuliano. Dunque, la sorpresa di Stanghellini per le nostre riserve sul prodotto della Commissione Giuliano … mi appare sorprendente.
Il ministero dell’economia, invece, qualche soluzione più moderna l’aveva avanzata; ma inizialmente senza successo. Per questo abbiamo continuato ad insistere che occorreva fare di più. Alla fine, almeno in qualcosa siamo stati forse ascoltati.
Nè aiuta buttare tutto in politica, serie questioni di sostanza erano in discussione. I lettori de lavoce rischiano altrimenti di avere un quadro distorto di ciò che è accaduto.

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La controreplica di Lorenzo Stanghellini

Il Dottor Micossi mi muove una dura critica per il fatto di non aver segnalato la mia passata appartenenza in qualità di tecnico alla c.d. “commissione Giuliano”. In realtà tale appartenenza era ben segnalata in calce all’articolo. Su questo punto, dunque, nulla vi è da replicare.
Mi preme però aggiungere che la segnalazione della mia partecipazione alla commissione Giuliano è stata frutto di uno scrupolo più che di una necessità, perché nell’articolo non veniva in alcun modo elogiata o promossa la bozza redatta dalla Commissione Giuliano, né d’altra parte veniva criticata la bozza redatta dalla Commissione Vietti che Assonime ha pubblicamente sostenuto. Le mie opinioni sulle due bozze sono fra l’altro alquanto neutrali. Basta leggerle per vedere che esse sono molto simili, e sono entrambe insufficienti rispetto ai bisogni del Paese.
A testimonianza della mia indipendenza rispetto ad entrambi i progetti oggi in competizione sta il fatto che molte delle soluzioni contenute anche nella bozza della Commissione Vietti sono state scritte riprendendole (anche testualmente, ma in assenza di un disegno organico) dai progetti di riforma delle procedure fallimentari presentati dai Democratici di Sinistra nel 2000 e nel 2004, di cui sono uno degli autori (come risulta dal mio curriculum disponibile su lavoce.info).
Lì c’erano l’esdebitazione (quella vera, anche per i consumatori sovraindebitati), il controllo dei creditori sull’operato del curatore, la possibilità di ampie ristrutturazioni economiche e finanziarie (incluso il c.d. “piano preconfezionato”, o pre-packaged bankruptcy), le soluzioni stragiudiziali, la riduzione dell’azione revocatoria, la trasparenza degli incarichi e dei compensi, i riti accelerati per le controversie, un equilibrato sistema di sanzioni, e molto altro. Quella è la mia idea di una riforma autentica, che resta valida qualunque sia la parte politica che la promuova.
Assonime ha molto contribuito, in passato. E’ mio auspicio che lo faccia anche in futuro: ce ne sarà bisogno.

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