Lavoce.info

Ferrovie e dintorni

Le ferrovie sono uno dei punti cardine del sistema infrastrutturale e dei servizi di trasporto del paese. E da sempre purtroppo sono un punto di
“sofferenza” del sistema paese, martoriato da carenze di fondi, grandi investimenti statali in direzioni dubbie, rapporti sindacali molto
complessi, inefficienze. Un maggiore coordinamento del sistema trasporti e una maggiore attenzione anche alle “piccole cose” sembra forse più utile di progetti faraonici.

Questo tunnel s’ha da fare?, di Francesco Ramella

La chiusura temporanea del traforo autostradale del Fréjus dopo l’incidente dello scorso mese ha fatto sì che da più parti si levasse la richiesta di un’accelerazione dei tempi di realizzazione della linea ferroviaria ad alta capacità fra Torino e Lione. Due ostacoli sembrano però frapporsi alla costruzione della nuova infrastruttura: da un lato, la contrarietà di una parte rilevante degli abitanti della Val Susa; dall’altro la difficoltà a reperire le risorse pubbliche per il finanziamento dell’opera.
Vediamo in breve le motivazioni a sostegno della realizzazione dell’opera. E come possono essere confutate.

Pro e contro il tunnel ferroviario

Si è sostenuto che la fattibilità di un’infrastruttura non può essere valutata con gli stessi criteri adottati per un investimento privato. Vero. Infatti, gli studi trasportistici realizzati non si limitano all’analisi finanziaria dell’intervento, ma fanno ricorso alla consolidata metodologia dell’analisi costi-benefici che consente di valutare le ricadute positive e negative per l’intera collettività. Ma, secondo quanto riportato nel documento “Relazione del gruppo di lavoro economia e finanza” redatto dalla commissione intergovernativa franco-italiana per la nuova linea ferroviaria Torino-Lione” (Cig), qualora non si prendano in considerazione gli aspetti ambientali, i benefici complessivi attualizzati della linea ferroviaria Torino – Lione sono negativi, pari a -2.378 milioni di euro (con tasso di attualizzazione del 5per cento; -3.734 con un tasso di attualizzazione dell’8 per cento).
Questa conclusione non dovrebbe stupire se si considera che la realizzazione dell’opera non comporterà alcun trasferimento di traffico merci dalla strada alla ferrovia, ma esclusivamente un “dirottamento” di traffici ferroviari che, in assenza della linea, sarebbero istradati via Svizzera (vedi Tavola 1). Il trasferimento potrebbe avvenire solo in presenza di interventi politici volti a ostacolare o vietare il traffico stradale.
Si è sostenuto che per decidere in merito alla realizzazione della infrastruttura non è possibile fare esclusivo affidamento a studi trasportistici. Sembrerebbe di poter dedurre che tali analisi sottostimino i benefici della realizzazione di un’opera. La realtà è però diversa. Come documenta un recente studio del danese Bent Flyvberg, le stime contenute negli studi trasportistici sono ottimistiche sia relativamente alle previsioni di traffico (in media sovrastimato del 100 per cento) che per quanto concerne i costi di realizzazione (in media sottostimati del 50 per cento). Il rapporto fra i benefici e i costi di un’opera viene quindi in via approssimativa stimato pari a quattro volte quello reale. Si è evidenziata la possibilità di attrarre i traffici fra l’Europa orientale da un lato e la Francia centro-meridionale e la penisola iberica dall’altro: in assenza della nuova infrastruttura, verrebbero instradati a nord delle Alpi. I traffici di transito sono in realtà pressoché inesistenti. Gli attuali interscambi commerciali fra i paesi dell’Est e le regioni dell’Europa sud-occidentale sono pari a circa 1,5 milioni di tonnellate per anno che equivalgono a un traffico medio giornaliero di trecento Tir. Si stima che nell’arco dei prossimi trent’anni, gli scambi fra questi paesi possano triplicare: il flusso di mezzi pesanti si dovrebbe quindi attestare intorno alle mille unità. Un valore del tutto marginale rispetto agli attuali traffici sull’asse Trieste–Torino, pari in media a svariate decine di migliaia di veicoli al giorno con punte superiori ai centomila veicoli sulle tangenziali e non può avere alcuna rilevanza sulla decisione di realizzare o meno una qualsiasi infrastruttura.
È stato ripetutamente detto che i trafori esistenti sono prossimi alla saturazione. L’affermazione non trova riscontro nella realtà. Per quanto riguarda la ferrovia, transitano oggi al Moncenisio circa dieci milioni di tonnellate all’anno a fronte di una capacità stimata (prudenzialmente) da Rfi pari al doppio (Tavola 2). Qualora l’evoluzione dei flussi registratasi finora dovesse proseguire nel futuro, il traforo non sarebbe saturato fino a dopo il 2050. Per quanto riguarda i traffici stradali, al Monte Bianco e al Fréjus, si può ritenere che, indicativamente, la capacità disponibile sia utilizzata per non più del 50 per cento, mentre il numero di veicoli pesanti in transito nel 2003 è stato pressoché identico a quello registrato dieci anni prima. Si è affermato che il miglioramento dei collegamenti ferroviari è condizione necessaria per il rilancio economico del Piemonte il cui PIL è cresciuto nel periodo 2001-2004 di un misero 0,2% a fronte del pur modesto 2,4% a scala nazionale. Per dubitare di tale affermazione è utile confrontare la crescita economica recente della Francia, che dispone della migliore rete ad alta velocità in Europa, e quella di Regno Unito e in Irlanda, due paesi “periferici” e dotati di reti ferroviarie di livello qualitativo assai modesto (tra l’altro, il sistema ferroviario francese di alta velocità movimenta oggi solo lo 0,3 per cento del traffico totale di quel paese, a fronte di enormi investimenti).

Un’alternativa ragionevole

È dunque opportuno valutare attentamente la possibilità di adottare una soluzione alternativa al traforo ferroviario, che potrebbe meglio contemperare la necessità delle merci italiane di accedere ai mercati esteri in condizioni ottimali pur in presenza di eventi eccezionali e l’esigenza di limitare l’impatto sulla popolazione locale oltre che quello sul bilancio statale. Questi tre obiettivi potrebbero essere conseguiti qualora si procedesse al raddoppio del tunnel stradale.
L’investimento richiesto sarebbe in tal caso pari a circa il 20 per cento di quello necessario per la realizzazione del tunnel ferroviario e il costo potrebbe essere interamente sopportato dagli utenti dell’infrastruttura che si gioverebbero di un miglior livello di servizio e di un più alto grado di sicurezza rispetto a oggi. La ricaduta sul territorio sarebbe assai più limitata. Non sarebbe infatti necessario realizzare nuove opere lungo la Val Susa: l’autostrada è infatti in grado di assorbire un flusso di traffico assai più elevato di quello attuale. Il mancato trasferimento del traffico pesante dalla strada alla ferrovia non comporterebbe inoltre un impatto negativo molto forte sotto il profilo dell’inquinamento atmosferico. Le emissioni inquinanti dei veicoli di recente costruzione sono assai più contenute di quelle dei mezzi più vetusti. Basti pensare che le emissioni di un solo mezzo a norma Euro 0 equivalgono a quelle di circa dieci mezzi Euro 5. Sebbene fortemente attenuato, l’impatto ambientale del traffico non sarebbe tuttavia annullato. Appare quindi corretto prevedere che gli abitanti delle zone attraversate dell’autostrada vengano compensati economicamente per tale danno. Le risorse da destinare a tale fine dovrebbero essere raccolte tramite un incremento dei pedaggi che sia proporzionale alle emissioni inquinanti dei veicoli. Si tratta di un principio che sarebbe peraltro opportuno applicare non solo in questo al caso: far pagare chi inquina è assai più equo e più efficace (in termini di incentivazione dell’innovazione tecnologica) che non tassare gli inquinati per sussidiare chi inquina meno.

Tavola 1 – Stima dei traffici giornalieri veicoli pesanti al 2015 con e senza la linea ferroviaria Torino – Lione

Fonte: elaborazione su dati CIG

Tavola 2 – Traffico e capacità del traforo ferroviario del Moncenisio

Fonte: elaborazione su dati RFI

Quel tunnel tra Torino e Lione, la replica di Giuseppe Pennisi

L’articolo di Francesco Ramella sul collegamento ferroviario Torino-Lione, ed in particolare sul tunnel per attraversare la catena alpina, nella “Newsletter” de La voce.Info del 29 luglio, ha un titolo apodittico: “Quel tunnel non s’ha da fare”. Il contenuto è parimenti apodittico in quanto l’analisi costi benefici- Acb (dicotomica per sua natura) viene presentata in una sua accezione molto semplice senza specificare né di quale tipologia di analisi si tratti (se finanziaria, dal punto di vista dei vari soggetti coinvolti oppure unicamente dal punto di vista di chi dovrà gestire l’investimento, o se economico-sociale, ossia dal punto di vista della collettività) e senza specificare metodo e tecniche per la derivazione di funzione obiettivo e di prezzi ombra. In breve, ci viene mostrata la punta dell’iceberg (un valore attuale netto negativo) senza delinearne il resto e senza suggerire i risultati di un’analisi di reattività e di rischio (tramite, ad esempio, una simulazione di Montecarlo). Qualche decennio di esperienza con la materia mi hanno consigliato ad essere molto più cauto prima di giungere alla formulazione di un giudizio così netto, specialmente quando si è alle prese con un investimento di grandi dimensioni e con caratteri di irreversibilità.

Due opzioni reali

Ad una Acb “tradizionale” economico-sociale probabilmente il valore attuale netto risulterebbe negativo anche ove venissero specificati correttamente sia funzione obiettivo sia metodi e tecniche di derivazione dei prezzi ombra. Tuttavia, proprio le dimensioni e la natura irreversibile dell’investimento impongono di chiederci se il calcolo nudo e crudo dell’indicatore di convenienza (il valore attuale netto) sia sufficiente o se si debba invece tenere anche conto delle opzioni reali che il progetto apre e chiude per le numerose parti in causa (gli stakeholder). Un’Acb estesa alle opzioni reali è, senza dubbio, più complessa, ed anche più costosa, di un mero computo secondo tecniche tradizionali. E’ anche, però, molto più ricca, sotto il profilo delle informazioni che fornisce a chi ha l’onere di decidere se effettuare l’investimento, se posticiparlo (in attesa di studi più approfonditi), se allestirlo in modo differente dallo schema iniziale e via discorrendo.
Proprio del tunnel per la linea ferroviario tra Torino e Lione esistono due Acb estese alle opzioni reali. La prima è uno dei casi di studio nel libro Giuseppe Pennisi e Pasquale Lucio Scandizzo “Valutare l’incertezza- L’analisi costi benefici nel XXI secolo” Giappichelli 2003; la seconda è uno studio di Massimo Centra in corso di pubblicazione nel n. 32 della Rassegna Italiana di Valutazione. Pur seguendo tecniche leggermente differenti, i due lavori arrivano a conclusioni simili: se si tiene conto delle opzioni reali (specialmente di quella di flessibilità, anche per valori moderati della volatilità), il valore attuale netto esteso, diventa positivo ed il progetto merita di essere accettato.
Con ciò non si vuole dire che i calcoli di Ramelli sono errati, ma che prima di giungere a conclusioni occorre un’Acb maggiormente articolata. Il caso del tunnel, anzi, potrebbe il punto di avvio per un dibattito, nella professione, sulle nuove frontiere della valutazione.

Grandi infrastrutture e granitiche certezze, di Marco Ponti

Uno dei cardini del programma dell’attuale governo sono stati, e sono tuttora, i grandi progetti infrastrutturali, quasi tutti di trasporto. Per accelerarne l’iter, è poi stata varata la “Legge Obiettivo”.

Grandi, costose e inutili

Le risorse finanziarie pubbliche disponibili sono apparse da subito largamente insufficienti, quindi si è molto puntato sul ruolo dei privati (“Project Financing”). Ma anche su questo versante sono sorti immediatamente gravi problemi, poiché i traffici (reali) previsti sono risultati modesti.
Si è ricorso allora a “privati” che tali non sono, come Fs o Fintecna, e ad ampie garanzie pubbliche per gli investitori, garanzie che di fatto rappresentano una spesa pubblica “mascherata”. Oppure si sono tassati in modo occulto tutti gli utenti, come nel caso degli investimenti di Autostrade per l’Italia, attraverso il rialzo generalizzato delle tariffe su tutta la rete.
Che in tutto il mondo i “grandi progetti” cari ai politici abbiano generato risultati economici generalmente disastrosi, è d’altronde cosa nota agli studiosi del settore. (1)
Tuttavia, nessuno nel governo ha preso spunto da queste vicende per mettere in dubbio la necessità di molte di queste opere (pur essendo lo scarso traffico un forte segnale in tal senso). Gianfranco Miccichè, viceministro per il Mezzogiorno, è stato l’eccezione quando ha dichiarato alla stampa che “(…) il ponte sullo stretto di Messina non è prioritario (…)”, ma solo per il breve spazio di un mattino.
Alcune Regioni, come Umbria e Toscana, non vogliono le opere che le riguardano, perché le giudicano inutili. Le ferrovie hanno tentato invano di proporre al Cipe una soluzione meno costosa del prolungamento dell’alta velocità fino alla Sicilia, perché ritengono che non ci sarà mai abbastanza domanda.
I francesi hanno acconsentito a partecipare alla linea alta velocità Torino-Lione solo dopo che l’Italia, molto generosamente, si è accollata il 63 per cento dei costi (hanno valutato insufficiente il traffico). L’Europa ha accettato di includere il ponte sullo Stretto tra le opere prioritarie solo dopo straordinarie pressioni politiche. Il motivo del diniego era ancora una volta il traffico insufficiente.

Alcuni studi indipendenti fatti dal Politecnico e dall’Università Cattolica hanno dimostrato che per molte opere il rapporto tra costi e benefici è fortemente negativo. Una recente indagine tra gli imprenditori del Mezzogiorno ha confermato il loro scarso interesse per le grandi infrastrutture.
Negli ultimi tempi, però, al governo si è affiancata Confindustria, richiedendo che per le grandi opere non valgano i vincoli di Maastricht (la cosiddetta “golden rule”). Incredibilmente anche l’Ulivo si è unito al coro: per bocca dell’ex ministro dei Trasporti, Pier Luigi Bersani, ha tacciato di inefficienza il governo, e ha promesso molte più grandi opere in caso di vittoria.

Una tentazione irresistibile

La tentazione del cemento si dimostra irresistibile non solo in Italia: la Commissione Van Miert ha presentato uno studio “rigoroso”, da cui risulta che qualsiasi opera è giustificata purché piaccia ai promotori politici.
Perché la tentazione del cemento è così irresistibile? Cerchiamo di capirlo.

· Nessuno saprà che l’opera è uno spreco di preziose risorse: ci vogliono anni a finirla, poi si inaugurerà, e qualcuno la userà (magari il governo è cambiato eccetera). Cioè: visibilità politica immediata, e problemi di efficienza occultati o comunque dilazionati nel tempo. Basta definire “strategica” qualsiasi sciocchezza tecnica.
· Anche i politici locali in genere son contenti (le eccezioni citate confermano la regola). E così le banche che costruiscono i programmi finanziari garantiti, e ovviamente le imprese di costruzione, spesso “vicine” ai politici locali (il settore non è “foot loose”, non si possono acquistare ferrovie o strade già pronte).
· Gli utenti sono comunque contenti (anche se sono troppo pochi per giustificare la spesa).
· Il settore è uno dei pochissimi rimasti in cui si possono spendere molti soldi per il consenso politico, senza incappare in quei noiosi vincoli europei agli aiuti di Stato.

Ma è poi così grave costruire un po’ di opere di dubbia utilità? Prima o poi serviranno comunque. Non sarebbe grave se i soldi pubblici fossero abbondanti, o non vi fossero destinazioni alternative della spesa. O se questa spesa avesse un importante impatto anticiclico, oppure incentivasse straordinariamente il progresso tecnologico del paese, o ne valorizzasse le preziose risorse ambientali.
Ma non esiste nessuna di queste condizioni. I soldi sono scarsissimi, le destinazioni alternative molto più promettenti anche in termini strettamente economici (ricerca, patrimonio artistico-ambientale, e così via). I “picchi” di spesa e di occupazione arriveranno tra molti anni (quando, si spera, il ciclo non continuerà a essere negativo). Il settore delle opere civili è tecnologicamente maturo, molte grandi opere hanno impatti ambientali perlomeno discutibili.
C’è infine il rischio di cantieri aperti con fondi insufficienti a finire le opere con devastanti “stop and go” (cantieri chiusi e riaperti) per anni a venire.
La distruzione di ricchezza realizzata da opere di scarsa utilità economica vanifica ogni contenuto reale di eventuali ricorsi alla “golden rule”.
Ma nessuno lo saprà. L’opposizione apra almeno un confronto serio sulle priorità di spesa e sui modi per valutarle, invece di riproporsi in sciagurati “inseguimenti”.


(1)
Vedi per esempio due recenti ricerche, una tedesca di Werner Rothengatter e una americana di Alan Altshuler. Ma le stesse traversie finanziarie del tunnel della Manica, fallito di fatto due volte per traffico insufficiente, sono un caso emblematico.

Torino-Lione: 13 miliardi spesi bene?, di Andrea Prat

Andrea Prat
13 Maggio 2004

Dopo una serie di false partenze, i Governi di Francia e Italia hanno finalmente firmato l’accordo per la ferrovia ad alta velocità tra Torino e Lione.
Sarà un’opera faraonica con un tunnel di cinquantadue chilometri sotto le Alpi.
Il costo previsto è di tredici miliardi di euro. Ne vale la pena? (1)

Chi userà la nuova linea?

Il risultato principale della nuova linea sarà di fare risparmiare un paio di ore a chi si sposta tra Torino e Lione. Il tempo di percorrenza previsto sarebbe di 1 ora e 45 (anziché le 3 ore e 50 attuali). Per andare a Parigi, ci si metterà circa 3 ore e 30 da Torino e più di 4 ore da Milano
Proviamo a fare un paio di calcoli mettendoci nei panni di un utente che debba scegliere tra aereo e treno. Utilizziamo come confronto l’Eurostar, che collega Londra con Parigi (in 2 ore e 45) e con Bruxelles (in 2 ore e 20).
Se guardiamo al totale dei viaggi aerei o ferroviari, Eurostar controlla una quota del 60 per cento della tratta Londra-Parigi e meno del 50 per cento su Londra-Bruxelles. È ragionevole supporre che, se il tempo di percorrenza del treno è intorno alle 2 ore e 30, alcuni utenti sceglieranno la ferrovia, altri l’aereo.
Ipotizziamo che per tempi di percorrenza minori gli utenti scelgano la ferrovia e optino invece per l’aereo se il collegamento ferroviario è più lento.
Vediamo cosa succederebbe sulla Torino-Lione sotto tali ipotesi.
Con i tempi di percorrenza dell’alta velocità, chi deve spostarsi tra Torino e Lione sceglierà senz’altro il treno. Invece sulle tratte Torino-Parigi e Milano-Lione, treno e aereo si divideranno il mercato, mentre presumibilmente chi va da Milano a Parigi continuerà a prendere l’aereo.
Proviamo a quantificare la domanda potenziale. (2)
Al momento attuale non esiste un collegamento aereo tra Torino e Lione – segno che la domanda di spostamento tra queste due capitali regionali è trascurabile.
Esistono invece trentatré collegamenti aerei settimanali tra Torino e Parigi, per un totale di 188mila passeggeri all’anno (fonte Sagat). I passeggeri tra Milano e Lione sono invece circa 200mila. (3) Se metà dei passeggeri di queste due tratte comincia a utilizzare il treno, avremmo meno di 200mila passeggeri all’anno. Se prendiamo un tasso di sconto del 5 per cento, questo significa spendere 3.750 euro per ogni viaggio di sola andata. E questo solo di investimento fisso. (4)

Leggi anche:  Per la casa non c'è un euro

Questo risultato non va preso alla lettera, ma può farci riflettere sull’ordine di grandezza. Moltiplichiamo pure per dieci il numero di passeggeri previsto sopra: ipotizziamo che la Torino-Lione attiri 2 milioni di passeggeri (quando la Londra-Bruxelles ne ha solo 1.500.000!). Sono ancora più di 350 euro a passeggero per sola andata – una cifra che non ha nessun senso economico in tempi in cui RyanAir ci porta in giro per l’Europa a poche decine di euro.

Meglio una galleria o una università?

Ma allora perché si vuole fare la Torino-Lione?
Le parole chiave sono “prestigio” e “rilancio”. Si pensa che un’infrastruttura di queste dimensioni sia destinata a ridare prestigio a Torino e contribuire al rilancio dell’economia piemontese.
Il fine è lodevole (almeno dal mio punto di vista di torinese), ma siamo sicuri che il modo migliore di ottenere questo risultato sia scavare una galleria di cinquanta chilometri? E se usassimo i tredici miliardi (o anche solo la quota di sei miliardi dell’Italia, più alta del fondo in dotazione al Mit) per creare a Torino un’università a vocazione internazionale?
Con una somma di quel genere, potremmo attirare a Torino i migliori ricercatori europei e ottenere ricadute immense sia in termini di prestigio internazionale che di rilancio economico.


(1)
Si vedano anche i dubbi espressi su lavoce.info a proposito del corridoio Lisbona-Kiev e delle grandi infrastrutture in generale.
(2) La nuova linea potrebbe essere utilizzata anche per il trasporto merci, ma è difficile vedere che differenza possano fare in questo caso due ore in più o in meno.
(3) Dati estrapolati dai primi tre mesi del 2004, fonte Aeroporto di Lione. Per “passeggero” si intende un viaggio di sola andata. Un passeggero che fa andata e ritorno conta doppio.
(4) A giudicare dalle difficoltà finanziarie di Eurotunnel, anche il costo di gestione non è trascurabile.

Torino- Lione: Un po’ di metodo e quattro conti, la replica di Giuseppe Pennisi

L’articolo di Andrea Prat sulla ferrovia ad alta velocità Torino-Lione (La voce.info del 14 maggio 2004) suscita perplessità di metodo e di quantizzazioni . Sotto il profilo del metodo, è difficile comprendere come e perché raffrontare i 13 miliardi (costo stimato della ferrovia) con un ipotetico impiego alternativo delle risorse quale l’istituzione a Torino di un’università a vocazione internazionale tale da attirare i migliori ricercatori internazionali. Tale raffronto può essere, al più, una mera boutade giornalistica priva di fondamento di analisi economica. Come è noto, infatti, l’analisi costi benefici (l’approccio a cui Prat fa riferimento) è dicotomica: fornisce risposte o negative o positive nei riguardi di un progetto (od una politica specifica) oppure (con alcune varianti tecniche) di alternative di disegno progettuale. Non può essere utilizzata – è un limite dello strumento- per raffrontare progetti o politiche alternative in settori differenti.

Altre perplessità sorgono ad un esame delle quantizzazioni “economiche” ipotizzate da Prat: le cifre paiono riferirsi ad un’analisi finanziaria relativa ad una sola categoria di utenza non ad un’analisi economica basata su calcoli (più o meno elaborati) del soprappiù del consumatore per differenti categorie di utenti. Lo conferma il fatto che i calcoli non includono voci pertinenti quali le esternalità tecnologiche e le interdipendenze.

Altre perplessità vengono dal fatto che Prat pare non conoscere la vasta letteratura sulla materia ed in particolare le analisi della ferrovia Torino-Lione effettuata tramite il metodo delle opzioni reali – ossia un approccio che tiene conto delle opportunità di lungo periodo derivanti dal progetto. Secondo stime pubblicate da Pasquale Lucio Scandizzo e da me nel libro “Valutare l’incertezza” , Giappichelli 2003 (a pp. 346-355) , mentre gli indicatori di convenienza economica risultano negativi ad un’analisi costi benefici tradizionale, essi risultano molto positivi ad un’analisi estesa alle opzioni reali; i calcoli sono disponibili, oltre che nel libro, in articoli ed interviste apparsi sulla stampa quotidiana (ad esempio, “ItaliaOggi”, “Avvenire”, “Il Giornale”). Seguendo un percorso leggermente differente, arriva a conclusioni analoghe uno studio dell’economista Massimo Centra, presentata al recente Congresso Scientifico dell’Associazione Italiana di Valutazione (Aiv) e disponibile sia al sito dell’Aiv sia a quello della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (Sspa).

E’ di certo auspicabile un dibattito sui meriti economici delle grandi infrastrutture: a mia memoria l’ultimo che ha interessato i media risale al lontano 1987 e riguardava la conversione della centrale termonucleare di Montalto di Castro. Se si confondono i lettori con battute prive di fondamento metodologico, non si fa un servizio utile a nessuno.

Ai trasporti serve un piano, di Silvia Maffii e Patrizia Malgieri

Mai come ora occorre dare centralità alla pianificazione dei trasporti. Molti sono gli elementi che ne indicano la necessità. Ne citiamo solo alcuni: l’aumento del prezzo dei carburanti, la scarsità delle risorse finanziarie, ma anche una visione “emergenziale” del settore che si dimostra controproducente.

Le difficoltà della Legge obiettivo

È di questi giorni la notizia della prossima apertura della linea Alta Velocità Torino-Novara, realizzata a tempi record per collegare Malpensa con Torino in occasione delle Olimpiadi 2006. Peccato che i tempi complessivi per raggiungere Torino da Malpensa saranno di cinque minuti superiori a quelli attuali garantiti da Intercity e Ferrovie Nord. Problemi di interconnessione tra la nuova linea e quella esistente, che non è stata oggetto di nessun miglioramento, un sistema di segnalamento innovativo da testare, non consentono per ora, secondo Rete Ferroviaria Italiana, risultati migliori. Non solo, ma non si ha nessuna idea del tipo di servizio che verrà fornito a Olimpiadi concluse. Sarà valutato a seconda della risposta del pubblico, anche tenuto conto dei vincoli finanziari con cui Trenitalia dovrà misurarsi in previsione dei canoni di pedaggio che dovrà riconoscere a Rfi per l’uso dell’infrastruttura. Certo, le speranze sono deboli, se si tiene conto che lo scorso anno la promozione in “Eurostar con un euro” tra Milano e Torino non ha riscosso grande successo. Forse, una più attenta pianificazione delle priorità di investimento avrebbe privilegiato tratte più frequentate.
Non è solo questo caso a richiedere una “maggiore” capacità di piano. La reclamano più in generale le difficoltà della Legge obiettivo.
Le conclusioni del rapporto della Corte dei conti sullo stato di attuazione della legge sono abbastanza impietose nel mettere in luce il suo fallimento. (1) La relazione infatti parla di “carenze pianificatorie di origine”, di “insufficiente definizione progettuale” di alcune opere, di conflittualità in ordine alle alternative tecniche, ambientali e sociali. Ma non solo, il documento sottolinea il sostanziale fallimento dell’ipotesi di project financing, “non conforme alle aspettative legislative”, l’incertezza delle risorse e addirittura l’incompleta conoscenza delle attività in corso. Una distribuzione di risorse a pioggia si è rivelata “insufficiente al raggiungimento dei singoli obiettivi” della legge 443/01.
La Legge obiettivo non ha certamente avuto gli esiti attesi, pur essendo divenuta lo strumento “principe” del settore. (2) Al contrario, ha messo in luce i limiti intrinseci di un approccio per “progetti” non coordinati e privo di un contesto strategico che ne indichi l’utilità, le priorità, i tempi di realizzazione e che si avvalga di strumenti di monitoraggio e di valutazione.

Il prezzo del petrolio

Vi è inoltre l’aumento del prezzo del petrolio a introdurre una variabile nuova nel panorama. Carburanti molto più cari potrebbero costituire un forte incentivo alla riduzione dell’autotrasporto, e quindi orientare il settore verso una maggiore sostenibilità: meno auto, meno camion, meno inquinanti, meno incidenti. Si avrebbero infatti impatti simili a quelli di una politica di pricing (fuel tax), fortemente auspicata anche dall’Unione Europea. (3)
Vale a dire un riequilibrio tra i modi di trasporto e una probabile accelerazione dell’innovazione tecnologica nel campo della propulsione. Tra l’altro, forse, alcune delle “grandi opere”, che già ora si affidano a previsioni di domanda quantomeno fragili, con una contrazione della mobilità stradale, potrebbero risultare del tutto ingiustificate e ingiustificabili anche agli occhi dei loro più convinti sostenitori.
Al contrario di una razionale politica di pricing, l’aumento del prezzo del petrolio non genera nessuna risorsa aggiuntiva da destinare ai modi di trasporto alternativi alla strada e al loro miglioramento qualitativo. In un contesto di progressiva riduzione delle risorse destinate ai servizi di trasporto collettivo, le aspettative di riequilibrio tra i modi di trasporto sembrano poco fondate. (4) Un aumento dei costi di trasporto stradale e un ulteriore degrado della qualità del trasporto collettivo, in molti casi già al di sotto degli standard europei, rischia di tradursi in un peggioramento complessivo del comparto.
Occorrerebbe una visione strategica per evitare questi esiti negativi.
Ma l’esigenza di una pianificazione strategica viene anche dai (pur lenti) processi di trasformazione del “mercato dei trasporti”, con l’aumento di operatori “privati” o che comunque si muovono in una logica privatistica e la progressiva separazione tra aziende erogatrici di servizi di trasporto e pubblica amministrazione.

Livelli di governo e competenze

È necessario quindi riprendere a pianificare, ma per farlo con successo occorre superare le debolezze della Pubblica amministrazione, che è ancora impreparata ai compiti che ha di fronte. La revisione dell’ordinamento dello Stato, avviato negli anni Novanta e culminato con la riforma costituzionale del 2001, non ha ancora risolto questioni quali l’attribuzione dei poteri tra i diversi livelli di governo, tra lo Stato e le Regioni e tra queste ultime e gli enti locali. Il conflitto permane sia in materia di pianificazione che di attribuzione delle risorse per la “gestione” delle infrastrutture (vedi ad esempio la regionalizzazione della rete stradale) trasferite dal Governo centrale alle Regioni e da queste delegate agli enti territoriali per la loro manutenzione.
Ma pesa anche la fragilità delle strutture tecniche: non a caso la formazione e la ricerca erano due temi “forti” del Piano generale dei trasporti e della logistica.
Riprendere il cammino di una pianificazione razionale, appena intrapreso cinque anni fa e subito interrotto per inseguire la chimera delle grandi opere, sarà tutt’altro che facile.

(1) Corte dei conti, Sezione di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, Indagine sullo stato di attuazione della Legge obiettivo (legge 21 dicembre 2001, n. 443) in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici, Magistrato istrutture Cons. A. Carosi, 2005

(2) Tant’è che è praticamente scomparsa dal sito web del ministero delle Infrastrutture la documentazione relativa al Piano generale dei trasporti e della logistica approvato nel 2001 e tuttora vigente.

(3) Libro Bianco Trasporti, 2001

(4) Vedi le previsioni della Finanziaria 2006

Quando è il diritto sindacale a fermare i trasporti, di Pietro Ichino

Il problema della frequenza anomala e irragionevole degli scioperi oggi, in Italia, riguarda quasi esclusivamente il settore dei trasporti pubblici. Nell’industria il ricorso all’astensione dal lavoro per la soluzione delle vertenze sindacali nell’ultimo trentennio è andato riducendosi notevolmente: nel settore metalmeccanico, per esempio, si è passati dai 155,2 milioni di ore perse per sciopero nel 1969 (l’anno dell’”autunno caldo”) ai 2,7 milioni del 2003 (nell’ultimo periodo la quantità degli scioperi nell’industria ha registrato di nuovo un aumento, ma per motivi prevalentemente legati al quadro politico generale). Nel settore dei trasporti pubblici le cose sono andate molto diversamente. Per avere un’idea dell’entità del problema, vediamo alcuni dati. (1)

I dati sugli scioperi

Nelle ferrovie italiane, nel sessennio 1999-2004, gli scioperi proclamati sono stati in media 166 all’anno, dei quali 23,7 al livello nazionale e gli altri al livello regionale o locale; nello stesso periodo gli scioperi effettivamente attuati sono stati in media 86 all’anno, dei quali 16 – cioè mediamente più di uno al mese – al livello nazionale.
I controllori di volo italiani – le cui astensioni dal lavoro paralizzano l’intero comparto del trasporto aereo – hanno attuato mediamente 38 scioperi all’anno, tra nazionali e locali, nel settennio 1998-2004 (per un confronto: fra il 1998 e il 2000 in Gran Bretagna, Germania e Spagna gli scioperi dei controllori di volo sono stati zero, in Francia due). A questi si aggiungono gli scioperi dei piloti e degli assistenti di volo delle compagnie aeree, del personale aeroportuale, dei vigili del fuoco, che nello stesso periodo contribuiscono a bloccare i trasporti aerei mediamente due volte al mese. Però questi ultimi sono scioperi “seri”, nei quali i lavoratori perdono la retribuzione; non così nel caso dei controllori di volo, i quali sono per la maggior parte retribuiti anche durante lo sciopero, perché per normativa internazionale molto rigida devono garantire comunque assistenza ininterrotta agli aerei che sorvolano l’Italia: questo spiega perché essi possono bloccare decolli e atterraggi negli aeroporti italiani senza subire perdite di reddito.
Nel settore dei trasporti municipali negli ultimi anni si assiste a una vicenda singolare. Dopo la riforma del settore della fine degli anni Novanta, che ha trasferito alle Regioni la competenza in questa materia, non sono stati disposti i corrispondenti trasferimenti di risorse; le Regioni, senza soldi, mandano a dire ai rappresentanti degli autoferrotranvieri di rivolgersi al Governo; quest’ultimo, dichiarandosi privo di competenza, li rimanda alle Regioni.
Si ha la sensazione che le Regioni lascino deliberatamente aumentare la tensione sindacale, perché il Governo sia costretto ad allargare i cordoni della borsa; che la vertenza sindacale, cioè, venga utilizzata da un’istituzione come strumento di pressione per la soluzione di una vertenza di natura politica con un’altra istituzione. È questo il contesto nel quale si collocano i nove scioperi nazionali che nel 2003 precedono il rinnovo del contratto collettivo di settore, stipulato nel dicembre di quell’anno. Nel corso del 2004 ne vengono poi attuati altri dieci sostanzialmente senza soluzione di continuità (in aggiunta a quelli locali, assai più numerosi in ciascuno dei due anni); e lo stesso sta accadendo nel 2005.

Il modello di relazioni sindacali

In tutti questi settori il rinnovo del contratto sembra non avere un effetto apprezzabile sulla frequenza delle astensioni dal lavoro, neppure nel periodo immediatamente successivo. Qui, dunque, il sistema delle relazioni sindacali funziona malissimo, dal punto di vista degli interessi dei datori di lavoro, come dei lavoratori. Conservarlo così com’è non è né “di sinistra” né “di destra”: è semplicemente una sciocchezza. Oltr’Alpe un fenomeno analogo si registra, ma in misura molto più ridotta, soltanto nei trasporti pubblici francesi. Esso è, certo, favorito dal regime di monopolio nel quale il servizio di trasporto pubblico è sovente gestito; ma questo dato non basta a spiegarlo, dal momento che in molti altri paesi alla gestione del servizio in regime di monopolio non corrisponde un aumento marcato della conflittualità sindacale.
Alla radice di questa anomalia quasi esclusivamente italiana stanno probabilmente l’elevata frammentazione della rappresentanza sindacale e alcuni dati istituzionali che sembrano fatti apposta per favorire al tempo stesso tale frammentazione e il modello conflittuale di relazioni sindacali. In ogni comparto dei trasporti pubblici, oltre ai tre sindacati confederali maggiori, si annovera una decina di altri sindacati, di varia natura e tendenza. Questi, indipendentemente dalla rispettiva consistenza, se hanno partecipato alla stipulazione anche di un solo contratto applicato in un’unità produttiva, hanno diritto allo stesso numero di rappresentanti aziendali, di permessi retribuiti, di ore retribuite di assemblea, nonché agli stessi spazi per le affissioni e agli stessi locali per le riunioni, rispetto ai sindacati maggiori. La riforma di questa materia, esclusa dall’agenda parlamentare in quest’ultima legislatura, appare quanto mai auspicabile, anzi urgente. Va osservato in proposito che gran parte degli scioperi nei trasporti è proclamata da sindacati minoritari in funzione di una loro maggiore visibilità. Questo non sarebbe consentito in paesi come la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania, o la Grecia, dove la proclamazione dello sciopero è condizionata al consenso della maggioranza dei lavoratori interessati.
Un altro dato istituzionale che sicuramente concorre con la vecchia disciplina delle rappresentanze aziendali al funzionamento anomalo delle relazioni sindacali nei trasporti pubblici è costituito dall’orientamento della dottrina e della giurisprudenza giuslavoristiche nel senso di ritenere che la clausola di tregua contenuta nei contratti collettivi vincoli soltanto i sindacati che la stipulano, ma non anche i singoli lavoratori. Così accade che il sindacato confederale stipuli un contratto collettivo impegnandosi a non proclamare scioperi per la sua durata; che i lavoratori interessati godano dei benefici previsti da quel contratto; ma che gli stessi lavoratori possano aderire allo sciopero proclamato da un qualsiasi sindacato autonomo dissenziente. Anche quando le adesioni si rivelano, alla prova dei fatti, poco numerose, basta la sola incertezza circa la loro quantità per ingigantire gli effetti dello sciopero proclamato dal sindacato minoritario.
Questa svalutazione degli effetti della clausola di tregua non ha alcun fondamento giuridico positivo: sarebbe perfettamente compatibile con la nostra legge anche la tesi – ragionevolissima e corrispondente a quanto accade nella maggior parte dei paesi europei – secondo la quale la clausola di tregua vincola tutti i lavoratori a cui si applica il contratto collettivo che la contiene. Questo gioverebbe anche al sindacato che fa bene il suo mestiere, poiché aumenterebbe il valore della “moneta di scambio” a sua disposizione. Ma nella cultura giuslavoristica italiana questa tesi è oggi del tutto minoritaria.
Sono, del resto, gli stessi sindacati confederali maggiori a svalutare la clausola di tregua, come moneta di scambio da spendere nelle trattative con la controparte, acconciandosi a stipularla soltanto se proprio vi sono costretti. E sono essi medesimi i maggiori difensori dell’orientamento giurisprudenziale oggi dominante in proposito. Cgil Cisl e Uil si sono mostrate per lo più capaci di praticare la moderazione nel ricorso allo sciopero nei servizi pubblici, ma non di liberarsi di vecchi tabù ideologici che proteggono chi non la pratica. Hanno garantito così ai loro concorrenti autonomi un vantaggio competitivo di cui si vedono quotidianamente gli effetti. E sovente, come nel comparto dei trasporti municipali, si sono ridotti a fare da mediatori tra gli autonomi e la controparte.

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(1) Per un quadro più ampio rinvio al mio libro, che uscirà tra due settimane per i tipi di Mondadori, A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa per uscirne.

Gli errori che cementano le infrastrutture, di AndreaBoitani

I dati Eurostat sulle infrastrutture di trasporto ci dicono che la densità della rete stradale italiana, misurata dal rapporto tra chilometri di strade e 100 chilometri quadrati di territorio, è superiore alla media dei paesi dell’Unione Europea a 15 e inferiore solo a quella di Francia e Inghilterra. Nel rapporto tra chilometri di strade e mille abitanti, invece, l’Italia fa registrare un indice inferiore a quello della media europea, di Francia, Spagna e Austria, ma superiore a quello di Germania e Inghilterra. Se però si guarda soltanto alle strade “superiori”, cioè autostrade e strade nazionali, scopriamo che il nostro paese ha una densità più elevata della media europea, anche rispetto alla popolazione.

Il mito delle carenze infrastrutturali

Le carenze sembrano dunque riguardare soprattutto le strade regionali. Ma l’Italia ha un’estensione enorme di strade provinciali e comunali, spesso di ottimo livello, per il 50 per cento destinate al traffico extra-urbano. Guarda caso, la stragrande maggioranza del traffico è costituito da percorrenze inferiori ai 50 chilometri, per le quali strade provinciali e comunali sono particolarmente adatte. Non esistono dati affidabili sulla congestione stradale, ma è ragionevole pensare che sia assai differenziata nelle diverse aree del paese e che, perciò, qualsiasi discorso “aggregato” sia fuorviante. Nel caso della rete ferroviaria, i due indici di densità sono rispettivamente uguale (quello per territorio) e inferiore (quello per popolazione) alla media europea ed entrambi inferiori a quelli registrati nei grandi paesi (a esclusione della Spagna). D’altra parte, le ferrovie tedesche portano 1,7 volte i passeggeri-km trasportati dalle ferrovie italiane, quelle francesi 1,6 volte. Anche il traffico merci risulta più intenso di quello registrato sulla rete italiana che, dunque, nel complesso non può definirsi congestionata. Assai più preoccupante è però la situazione delle reti ferroviarie regionali, soprattutto quando in una Regione siano presenti una o più grandi aree metropolitane.
Quanto agli aeroporti, in Italia se ne contano quarantaquattro (per uso civile), di cui solo diciassette hanno un traffico superiore al milione di passeggeri l’anno. Nel complesso (nel 2000) in Italia il traffico aereo interno e diretto ad altri paesi europei era di soli 24 miliardi di passeggeri-km l’anno, contro 50 dell’Inghilterra, 39 della Germania, 59 della Spagna e 29 della Francia. Quindi le potenzialità di crescita sono ancora molto ampie e, se si esprimeranno, la carenza della nostra capacità aeroportuale emergerà.

Le grandi opere sono sempre le più utili?

I problemi di congestione vanno risolti caso per caso. In alcune situazioni è necessaria la grande opera, in altre è molto più utile il piccolo intervento. Soltanto un esame preciso dei flussi di traffico presenti e di accurate previsioni su quelli futuri consente di impostare un’attendibile analisi dei costi e dei benefici dei vari progetti. (1)
A ciò va aggiunto che i tempi di realizzazione delle grandi opere sono, quasi sempre, molto lunghi: le soluzioni finiscono per essere disponibili dopo troppo tempo, quando i problemi potrebbero essere diventati altri. Indipendentemente dal rapporto tra costi e benefici nel lungo periodo – che pure dovrebbe contare qualcosa in un mondo di risorse scarse – è evidente il pregio delle “piccole opere”, capaci di migliorare presto la qualità dei servizi, per le attività economiche che dipendono maggiormente dalle infrastrutture (come la logistica). Dunque, la Legge obiettivo, che si concentra quasi esclusivamente sulle grandi opere, non renderà un buon servizio al paese.
Mentre la “Legge obiettivo per le città” – inserita dal Governo nel disegno di legge per la competitività (articolo 5) – non sembra destinata ad avere effetti apprezzabili, per la prevedibilmente scarsa dotazione di risorse finanziarie.

Il debito che verrà

La storia delle opere pubbliche nel nostro paese, da circa quindici anni, è anche la storia della favola del project financing all’italiana. In Italia, purtroppo, il project financing ha finito per identificarsi con il “modello Tav“, un complesso sistema messo in piedi nel 1991 per realizzare “rapidamente” le linee per l’alta velocità ferroviaria. La “Legge obiettivo” lo ha interamente recepito per tutte le grandi opere, escluse quelle realizzate dai concessionari autostradali. Non è il caso di entrare qui nei dettagli del modello Tav e nella sua storia. (2) Vale solo la pena di ricordare che, come osservava l’Antitrust già nel 1996, attribuisce di fatto tutti i rischi allo Stato (direttamente o tramite Fs spa) e tutti i profitti ai cosiddetti general contractor (e alle banche creditrici). Un simile meccanismo è, di per sé, tale da far emergere rilevanti esigenze finanziarie pubbliche negli anni a venire. Inoltre, i contratti con i general contractor non creano alcun incentivo alla riduzione dei costi. Anzi, ne creano di significativi al loro incremento ben al di sopra del tasso di inflazione. Il costo previsto nel Dpef 2003-2005 per le ventuno opere prioritarie della Legge obiettivo era di 77,5 miliardi di euro. Nel Dpef 2005-2008 era già salito a oltre 85 miliardi (+ 9,75 per cento). Il costo previsto nei contratti del 1991 per le tratte ad alta velocità era di 5,67 miliardi di euro. Nei contratti rinnovati nel 2003, per le stesse tratte, arrivava a 23,4 miliardi di euro, con un incremento del 410 per cento. Per gli interventi nei principali nodi ferroviari il costo previsto è aumentato del 325 per cento. E ci sono fondati motivi per pensare che, in realtà, le previsioni siano molto sottostimate, anche perché non sembrano tener conto degli interessi intercalari. (3)
Estrapolando queste tendenze, si può ragionevolmente prevedere l’effetto sul debito pubblico del modello Tav applicato ai più rilevanti progetti della Legge obiettivo.

Contro la strategia dell’inseguimento

Spesso l’opposizione accusa il Governo di essere incapace di realizzare le opere pubbliche approvate, lasciando intendere che, ove fosse messa dagli elettori nelle condizioni di governare, le realizzazioni sarebbero molto più rapide e numerose. Assai meno convinta sembra essere, l’opposizione, nella critica alla strategia delle grandi opere, mentre la stessa contrarietà alla Legge obiettivo è apparsa spesso più orientata a tutelare i poteri di veto delle Regioni e degli enti locali che non a svelarne i meccanismi di incentivazione perversa e il potenziale di devastazione dei conti pubblici. Si sono sentite critiche perché gli stanziamenti per investimenti pubblici non sono aumentati o sono stati ridotti per l’anno corrente. Meno voci si sono levate per opporsi alle opere che si intendevano finanziare, la cui utilità non è mai stata correttamente valutata. Del resto, anche nell’attuale opposizione la cultura della valutazione stenta ancora a farsi strada, nonostante l’approvazione, nel 2000, di un Piano generale dei trasporti che rappresentava una significativa innovazione sotto questo profilo. E il centrosinistra, quando era maggioranza, impiegò oltre quattro anni per rendersi conto che il modello Tav era potenzialmente molto dannoso, arrivando troppo tardi alla cancellazione dei contratti per le opere non cantierate, disposta solo con la Legge finanziaria per il 2001 (e immediatamente annullata dal governo Berlusconi I).
Una riflessione seria sul tema delle infrastrutture è invece necessaria. Soprattutto, l’alleanza guidata da Prodi dovrebbe evitare la tentazione di promettere qualcosa in più e di più mirabolante di quanto annunciato dal Governo in carica. Agli elettori (e agli operatori) si dovrebbe dire chiaramente che le scarse risorse disponili saranno concentrate su poche opere essenziali: grandi o piccole, volte, però, ad affrontare la crisi delle grandi aree metropolitane e le esigenze della logistica. E da realizzare in tempi brevi con finanziamenti trasparenti, sotto responsabilità amministrative precise e inderogabili. Sui guasti del modello Tav si impone una onesta “operazione verità”, con la promessa di una nuova cancellazione dei contratti, per salvare la finanza pubblica.

(1) È utile ricordare che gran parte delle previsioni sui flussi di traffico su nuove infrastrutture risultano inaccurate: quelle relative alle linee ferroviarie quasi sempre per eccesso, quelle sulle strade sia per eccesso che per difetto. Si veda “How (in)accurate are demand forecasts in public works projects? The case of transportation” di B. Flyvbjerg et al., in Journal of the American Planning Association, n. 2, 2005.

(2) Una lettura istruttiva a questo proposito è Le grandi opere del Cavaliere, di I. Cecconi, Roma, KOINè Nuove Edizioni.

(3) Nella Legge finanziaria del 2001 gli interessi intercalari pesavano per 170 milioni di euro, saliti 230 nel 2002 e a 350 nel 2003.

Il punto sul ponte, di Salvatore Modica

Il 12 ottobre la Stretto di Messina spa nomina, scegliendolo fra i due concorrenti rimasti in lizza nella gara d’appalto, il general contractor che si impegna a realizzare il ponte sullo Stretto.
Fra il dire e il fare c’è come sempre di mezzo il mare, ma qui oltre il mare ci sono di mezzo anche altri problemi.
Se tutto va bene problemi di governance; se qualcosa va storto il problema del completamento dell’opera, in pratica il problema di rimanere con Messina devastata, due piloni di quattrocento metri e niente ponte. Tra i due estremi, un ulteriore pesante carico per la finanza pubblica, senza che se ne sia discusso apertamente.
Alla luce della recente esperienza del Tunnel della Manica questi dovrebbero essere problemi ben noti: quello della governance è indicato in un recente editoriale sul Financial Times come il problema centrale del Tunnel. Quello del completamento è stato superato soltanto grazie alla determinazione di Margaret Thatcher. (1) Ma chissà, forse perché è sott’acqua e non si vede.

Costi e finanziamenti

Torniamo al nostro ponte. Il suo costo previsto è di 6 miliardi, di cui 2,5 (circa 40 per cento) già sottoscritti da società pubbliche azioniste della Stretto di Messina e 3,5 ancora da reperire sul mercato. Su questo l’amministratore delegato della Stretto di Messina spa, Pietro Ciucci, dichiara: “Per quanto riguarda l’aumento di capitale, sottoscritto dagli azionisti Fintecna, Anas, Rete Ferroviaria Italiana (di cui una prima tranche è già in esecuzione), coprirà le spese fino ai primi anni di cantiere. La società si rivolgerà solo a partire dal 2008 ai mercati”. (2)
Dunque, la società intende portare avanti i lavori con i 2,5 miliardi di cui dispone, per poi ricorrere al mercato per il reperimento degli altri 3,5 miliardi occorrenti a completare l’opera quando ciò si renderà necessario.
I dettagli sulle modalità di raccolta di questo ulteriore 60 per cento, e in particolare sulla possibilità di interventi a carico di risorse pubbliche che si potrebbero prospettare in conseguenza di eventi imprevisti, sono contenuti in una convenzione del dicembre 2003 che non è attualmente di dominio pubblico perché ritenuta “documentazione sensibile”. (3)
La società scrive che quel restante 60 per cento è da reperire sui mercati internazionali senza garanzie da parte dello Stato. (4) Nel sito www.messinasenzaponte.it si asserisce invece che nella convenzione il ministero garantisce “il 100 per cento dei costi imprevisti e la totalità dei rischi di gestione senza alcun tetto di spesa”.

Un percorso che porta solo guai

Sicché manca un pezzo di informazione importante; ma qualunque sia il suo contenuto, il corso di azioni che si sta seguendo è subottimale, se va bene. Se va male, molto peggio.
Gli scenari possibili sono tre: nel primo il mercato risponde bene e sottoscrive il capitale necessario; nel secondo non lo fa, ma subentra lo Stato attingendo a risorse pubbliche; nel terzo i fondi non si trovano e l’opera resta incompiuta. Se si verifica lo scenario più ottimistico, la società si trova comunque a operare dal 2004 al 2008 in assenza di azionariato di controllo (perché i 2,5 miliardi degli azionisti presenti costituiscono il 40 per cento del capitale, o ancora meno se i costi superano i 6 miliardi). Sarebbe allora meglio interpellare subito i mercati evitando questo problema di “blurred accountability”. Nel caso in cui il mercato non risponde, ma al suo posto risponde lo Stato (l’unico che razionalizza l’operato della società se anticipato con certezza), il piano d’azione è insoddisfacente dal punto di vista delle procedure decisionali democratiche: staremmo impegnando risorse pubbliche future, ma senza discuterne, perché formalmente stiamo approvando un progetto privato. In questo caso, sarebbe opportuno discutere delle possibili destinazioni alternative di tali risorse e organizzare, se si decidesse di procedere alla realizzazione del ponte, una struttura di management pubblico. Se infine il mercato non dovesse rispondere e il Governo di turno avesse altro a cui pensare, la situazione sarebbe ovviamente disastrosa. Si noti che questa non è un’ipotesi del tutto irrealistica: per completare il Tunnel c’è voluta la volontà di ferro della Thatcher; per il ponte tutto questo accanimento non lo si vede affatto, né a destra né a sinistra. (5)
Questo “Poi vedremo, intanto cominciamo”, dunque, può solo generare guai, l’unica incertezza è sulla loro entità. Il punto è che sono “guai accattati“, come si dice in siciliano: guai comprati, che si potrebbero ben evitare. Toccherebbe allo Stato – cioè al Parlamento, non al Governo che non dispone ovviamente dei fondi che si renderebbero necessari nelle legislature a venire – far chiarezza: se si vuol costruire il ponte con finanziamenti statali, si discuta di questa scelta; se si decide che o lo fa il mercato o niente, si renda nota l’indisponibilità dell’operatore pubblico e si proceda subito ad appurare se il mercato ci sta o no. Perché restando voltati dall’altra parte si rischia di cacciarsi in un brutto pasticcio.

(1) L’editoriale è di John Kay, 13 settembre (leggibile anche su www.johnkay.com). Per la cronaca, nel caso del Tunnel non andò affatto tutto bene: i costi di realizzazione furono quasi doppi del previsto, e i flussi di traffico, a dispetto delle stime iniziali, non consentirono successivamente di coprire neanche le spese di gestione. Ulteriori approfondimenti sul caso sono contenuti nello “in depth” dedicato del FT.

(2) In P. Busetta, Un collegamento per lo sviluppo, Liguori 2005, p. 144.

(3) Questa convenzione, firmata dalla Stretto di Messina e dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti il 30 dicembre 2003, regola svariati aspetti della realizzazione e gestione del ponte, come prescritto dal Dl n. 114 del 24 aprile 2003. Io ho chiesto, per telefono, una copia sia alla società che al ministero: la prima mi ha risposto che avrei dovuto avere una motivazione giuridicamente rilevante, il secondo che si trattava di documentazione sensibile.

(4) Di questo “prende atto” il Cipe nell’agosto 2003, nell’approvare il programma preliminare della società (delibera n. 66). La società parla di project finance nel suo sito, www.strettodimessina.it.

(5) Per inciso, ho cercato documenti sul perché la sinistra ha cambiato idea sul ponte, ma non ne ho trovati. Ho chiesto per email al responsabile Mezzogiorno dei Ds se ce ne fossero, ma non ho ricevuto risposta.

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Miti e realtà sulla tassazione delle rendite

  1. Davide

    Una piccola osservazione a Giuseppe Pennisi: lei critica le analisi costi/benefici dei colleghi ma non riporta nessun valore che possa confutare tali analisi rimandando il lettore alle letture di vecchi articoli di giornale e di un libro da lei scritto. Aspetto con ansia sue delucidazioni.
    Distinti saluti .

  2. Lucilio Cogato

    Contesto al sign. Pennisi che le analisi costi-benefici possano essere impiegate solo per dire sì o no ad un singolo progetto. Opzioni di investimento diverse possono benissimo essere utilmente confrontate tra loro in base al CBR ottenuto per ciascuna di esse.
    D’altra parte a cosa potrà mai servire la valutazione dei progetti pubblici se non a indirizzare le scarse risorse su quelli impieghi che a parità di costi promettono i maggiori vantaggi?
    Sarebbe inoltre interessante sapere, visto che i siti citati da Pennisi non contengono le informazioni promesse, quali sono in concreto, per Pennisi le “opzioni reali” che è opportuno considerare nel progetto Torino-Lione.

    • La redazione

      L’analisi completa è nel libro Pennisi – Scandizzon “Valutare
      l’Incertezza” Giappichelli 2003 che illustra la metodologia. Un’analisi aggiornata è nel saggio Centra Massimo “Analisi costi benefici con opzioni reali: un’applicazione al settore dei trasporti ferroviari” nel periodico “Rassegna Italiana di Valutazione” a. IX n. 32 pp. 63-78. Suggeriscano che
      questi testi vengano letti prima di entrare in un dibattito più ideologico che tecnico.

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