Pur nascendo come una pattuizione fra soggetti privati, il contratto collettivo funziona di fatto come una legge. Il sindacato che lo stipula costituisce un soggetto distinto dal singolo lavoratore e i loro interessi possono anche divergere. Se il legislatore individua un interesse tipico del lavoratore, per esempio poter scegliere il gestore del contributo di previdenza complementare, il suo intervento è giustificato. E la libertà di scelta sarà protetta con una norma non derogabile, come quella delineata nella legge delega sulla previdenza complementare.

La “portabilità” tra diritto civile e antitrust, di Pietro Ichino

La richiesta dei sindacati confederali non è affatto irragionevole. Essi dicono: da che mondo è mondo, due soggetti privati hanno sempre avuto la possibilità di accordarsi per creare un fondo da loro controllato (con finalità di previdenza, di assistenza, di solidarietà, o di qualsiasi altro genere) e di destinarvi il proprio contributo, senza rischiare che questo venga in seguito dirottato per volontà altrui a vantaggio di un altro fondo, controllato da terzi. Dunque, sta bene che il lavoratore possa affidare a chi gli pare la gestione del suo trattamento di fine rapporto, poiché quel trattamento è roba sua, è un diritto che gli deriva dalla legge, di cui egli deve poter fare quel che gli pare. Ma se noi sindacati ci accordiamo con gli imprenditori per porre a loro carico un contributo di previdenza complementare, della destinazione di quel contributo dobbiamo poter essere unici arbitri noi con gli imprenditori. In altre parole, poiché il contributo nasce esclusivamente dal contratto collettivo, sulla sua destinazione il contratto stesso è sovrano. Lo è sempre stato fin qui e deve rimanere tale.

I contenuti della legge delega

Sul piano del diritto civile, questo ragionamento fila alla perfezione; e fino a oggi le cose sono sempre andate così.
Ora, però, la legge n. 243/2004 che delega il Governo a riformare la disciplina della materia dispone altrimenti: stabilisce, cioè, che la riforma dovrà attribuire al lavoratore non soltanto la facoltà di scegliere il gestore del trattamento di fine rapporto (retribuzione differita prevista da una norma del codice civile), ma anche la facoltà di scegliere il gestore dell’eventuale contributo di previdenza complementare (beneficio nascente esclusivamente dal contratto collettivo), e non soltanto per la parte del contributo già versata, ma anche per la parte che maturerà in futuro.
Con questa disposizione la legge delega sostanzialmente prevede che alle parti stipulanti del contratto collettivo sia consentito soltanto di destinare una porzione del monte-salari alla previdenza complementare e di disporre inizialmente – ma non di imporre ai singoli lavoratori sine die – che questa sia gestita da un certo fondo.
Armando Tursi, nell’articolo che compare qui accanto, dà atto di questa scelta compiuta dal legislatore delegante, ma ne sottolinea il carattere paradossale dal punto di vista giuridico, la rottura rispetto al diritto comune dei contratti che siamo abituati ad applicare da due millenni e oltre. Sennonché questo carattere paradossale, di rottura rispetto agli schemi giuridici civilistici tradizionali, non basta, mi pare, perché questa scelta sia bocciata come inopportuna e tanto meno come impraticabile. I meccanismi antitrust presentano sovente degli aspetti di rottura rispetto al diritto civile classico: basti pensare al caso in cui l’authority competente impone alla società titolare di un’impresa monopolistica di spezzarsi in due, o di cedere un pezzo della propria azienda a terzi.
Viceversa, a favore della scelta compiuta dal legislatore delegante nel 2004 si può portare un argomento molto robusto. La garanzia della “portabilità” del contributo di previdenza complementare impone al fondo aziendale o di settore eventualmente creato di comune accordo fra sindacati e imprese di offrire ai lavoratori interessati condizioni di affidabilità e prospettive di redditività almeno pari a quelle proposte dai fondi “aperti” nel libero mercato. Se è vero ciò che oggi i sindacati confederali affermano, ovvero che i fondi contrattuali sono più vantaggiosi per i lavoratori rispetto a quelli “aperti”, non si vede che cosa i primi abbiano da temere dalla concorrenza aperta con i secondi. Per altro verso, un programma previdenziale può durare per decenni; e la maggiore affidabilità o redditività per gli iscritti di un fondo contrattuale può venire meno col passare del tempo. La regola della “portabilità” del contributo può costituire la garanzia migliore per i lavoratori contro questa eventualità.
La replica dei sindacati è questa: “se imporrete quella regola, la previdenza complementare non decollerà, poiché noi non avremo più interesse a negoziare programmi di previdenza complementare con gli imprenditori; perché mai dovremmo farlo, con la prospettiva che la gestione del contributo negoziato venga affidata a terzi (i fondi “aperti”, gestiti dalle compagnie assicuratrici) e non ai fondi controllati da noi?”.
Questa replica è davvero sorprendente. Dovrebbe supporsi che la finalità essenziale cui tende la contrattazione collettiva sia l’interesse dei lavoratori: di tutti e di ciascuno di essi. Ora, appare indiscutibile che l’interesse di un lavoratore sia di avere la più ampia possibile facoltà di scelta tra diversi gestori del contributo di previdenza complementare negoziato dal sindacato. L’intero ordinamento antitrust si basa su questo presupposto: che l’esistenza della pluralità più ampia possibile di fornitori del servizio in concorrenza tra loro rechi, di regola, vantaggio all’utente del servizio. Alla domanda che oggi pongono Cgil, Cisl e Uil – “perché mai dovremmo negoziare il contributo a carico delle imprese se la sua gestione potrà essere affidata a terzi?” – la risposta appare dunque ovvia: “voi negoziate il contributo essenzialmente nell’interesse dei lavoratori; e quel contributo per i lavoratori vale di più se essi possono scegliere il fondo da cui farlo gestire; buon per voi se sceglieranno il fondo da voi istituito e controllato, ma per loro è meglio poter scegliere”.
Qui però viene l’obiezione più forte dei sostenitori della “non portabilità” del contributo. Il sindacato – essi dicono – è un’associazione di lavoratori; se i lavoratori, in forma associata, compiono con il contratto collettivo la scelta della “non portabilità”, essi evidentemente hanno i loro buoni motivi per farlo (ad esempio, una maggiore facilità di organizzazione del fondo chiuso). La pretesa del legislatore di “proteggerli contro se stessi”, impedendo loro di compiere quella scelta, non può che fare danni. Quanto ai lavoratori non associati, il contratto si applica loro soltanto in quanto essi lo accettano; anch’essi, dunque, accettando i vincoli posti dal contratto collettivo esercitano un’autonomia negoziale che non deve essere inibita o distorta da regole legislative inderogabili come quella contenuta nella legge-delega n. 243/2004.

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La natura del contratto collettivo di lavoro

Questa obiezione porta il discorso al cuore della questione della natura del contratto collettivo di lavoro, della sua collocazione sistematica nell’ordinamento. Se davvero potessimo considerarlo esclusivamente come un “fascio di contratti individuali”, attribuendogli pertanto in tutto e per tutto la natura di un atto di autonomia privata ordinaria, l’obiezione sarebbe difficilmente superabile. Il fatto è, però, che il contratto collettivo, pur nascendo come una pattuizione fra soggetti privati, funziona di fatto in larga parte come una legge. In altre parole, rispetto ai rapporti individuali esso ben può considerarsi come fonte di una disciplina eteronoma, più simile alla legge che al contratto. Si pensi a un contratto collettivo nazionale di settore: il meccanismo negoziale che lo produce non è molto più “vicino” alla volontà negoziale del singolo lavoratore interessato di quanto lo sia il meccanismo di produzione di una legge statuale o regionale. Nella misura in cui il sindacato costituisce un soggetto distinto dal singolo lavoratore, il contratto collettivo deve considerarsi come fonte di una disciplina eteronoma del rapporto individuale. Questo, poi, risulta evidentissimo quando il campo di applicazione del contratto collettivo si estende ai lavoratori non iscritti al sindacato stipulante; il fatto che l’estensione venga spiegata dai giuristi in termini di “adesione” tacita o esplicita del singolo non toglie che il lavoratore, accettando il contratto collettivo, non sceglie affatto tra un regime di “portabilità” e un regime di “non portabilità” del contributo di previdenza complementare: se vuole godere del beneficio deve accettare la disciplina della materia che “passa il convento”, alla cui determinazione egli non ha in alcun modo partecipato.
Se dunque il contratto collettivo è stipulato da un sindacato il cui interesse può, per uno o più determinati aspetti, divergere da quello del singolo lavoratore cui il contratto stesso si applica, non può più considerarsi come un’anomalia l’intervento del legislatore che individui un interesse tipico di quest’ultimo (nel nostro caso: l’interesse a poter scegliere il gestore del contributo di previdenza complementare) e protegga la sua libertà di scelta con una norma non derogabile, come quella delineata nella legge-delega n. 243/2004.

Il commento di Vincenzo Ferrante

La possibilità di prevedere imperativamente per legge la possibilità di un conferimento ai fondi aperti dei contributi aggiuntivi (adesso corrisposti dai datori ai soli lavoratori iscritti ad un fondo integrativo di origine negoziale) sta tenendo banco nella convulsa fase di attuazione della delega previdenziale prevista nella legge dell’agosto del 2004.
La necessità che la legge delegata preveda la “portabilità” dei contributi (come viene ormai definita la questione, sulla stampa specializzata) è stata, infatti, sostenuta da Ichino sulla scorta di un duplice argomento: per un verso si è detto che, se – come si afferma – i fondi negoziali sono quelli a più elevato rendimento, la previsione della portabilità dei contributi aggiuntivi corrisposti dai datori non viene in alcun modo a danneggiare sindacati e associazioni industriali.
Per un altro verso, si è affermato che il principio della libera circolazione dei capitali prevale in questo caso sulla soluzione che deriverebbe dalla applicazione delle norme in tema di contratti, che deporrebbero, invece, nel senso della illiceità di una disposizione imperativa che imponesse la portabilità (dovendosi lasciare alla volontà delle parti collettive una scelta siffatta).
Si è suggerito, quindi, da parte di Tursi, di ricercare una soluzione mediana capace di soddisfare entrambi gli interessi in campo, garantendo ai datori un controllo sulla destinazione delle quote di retribuzione corrisposte e assicurando ai lavoratori di poter decidere con maggiore libertà le sorti del capitale accumulato.
In verità, l’argomento avanzato per negare in linea teorica la portabilità appare del tutto convincente, in forza della origine contrattuale dei contributi conferiti al fondo integrativo: nella misura in cui ci si trova dinnanzi a obblighi contributivi non previsti da disposizioni di legge, ma che discendono dalla regolamentazione prevista dalla contrattazione collettiva, le parti collettive sono libere di determinarne la destinazione. Ed, in effetti, il controllo che viene ad essere esercitato sulle componenti della retribuzione appare elevato, anche in altri sistemi giuridici. Ciò in considerazione del fatto che il diritto del lavoratore viene ad esistenza come conformato dalla contrattazione collettiva, di modo che riesce difficile immaginare una scissione fra un diritto di credito, spettante al lavoratore, e un atto di disposizione, operato dal sindacato.
In questo senso, anzi, non mancano esperienze di controllo sul contenuto dei diritti riconosciuti ai singoli ancora più avanzate, come nel caso dell’esperienza statunitense, dove la giustiziabilità dei diritti previsti dal contratto collettivo è assicurata da organi arbitrali, costituiti congiuntamente da associazioni imprenditoriali e sindacati, ritenendosi, in quell’ordinamento, che il contratto collettivo estenda la sua efficacia sino al punto di coinvolgere nel sistema delle relazioni sindacali la sua attuazione, secondo le cc. dd. grievance procedures.
La preoccupazione di controllare maggiormente l’azione dei fondi negoziali non appare però infondata: troppe volte le attese dei risparmiatori italiani sono andate deluse per poter ritenere che debbano sussistere area esenti da quello straordinario meccanismo di garanzia di efficacia che è la libera concorrenza. In questa prospettiva, però, le soluzioni proposte non sembrano essere le sole a garantire l’esposizione dei fondi negoziali agli stimoli concorrenziali.
In questo senso, non si deve dimenticare come la libertà di circolazione dei capitali sia, in buona misura, garantita dal fatto che la legge istitutiva dei fondi prevede, già da ora, una scissione fra soggetto che gestisce il fondo ed ente che provvede ad investire i capitali raccolti (Sim, Fondi comuni di investimento etc.): i capitali dei fondi negoziali sono liberi di collocarsi negli impieghi che il gestore ritiene più proficui, senza che per questo le imprese che finanziano quei fondi abbiano a trarne un qualche vantaggio in termini competitivi.
In secondo luogo, la garanzia della concorrenza fra i fondi non viene ad essere assicurata solamente attraverso la portabilità dell’intera posizione previdenziale individuale: l’analisi economica ci ha abituato a riconoscere l’importanza della informazione individuale, quale garanzia per controbilanciare le asimmetrie del mercato In questo senso non si vede perché, oltre che sul versante della portabilità, non si debba sviluppare nel decreto da emanare altresì l’aspetto del controllo sui costi di gestione, riconoscendo, ad es., a gruppi di lavoratori, organizzati su base spontanea, di poter sollecitare una indagine nei confronti dei fondi stessi.
Fondi che, non è inutile osservare, sono soggetti giuridicamente distinti dalle organizzazioni sindacali e dunque non beneficiano di quelle esenzioni dal diritto della concorrenza che, già all’alba del secolo XIX, hanno consentito il sorgere del moderno diritto del lavoro.

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