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Alitalia, una sopravvivenza politicamente garantita

La “privatizzazione” di Alitalia via aumento di capitale è un’operazione molto costosa per lo Stato. Ma tutta l’annosa vicenda è emblematica dei tarli che indeboliscono l’economia italiana. La débacle della compagnia non è dovuta a carenze tecnologiche né a insufficienza di capitali, ma a protezioni clientelari, a una sindacalizzazione corporativa, a scelte d’investimento sbagliate. Il danno per il paese è stato enorme. Non solo per le risorse bruciate, ma anche per la perdita di posti di lavoro qualificati e per i costi imposti al turismo dai prezzi del servizio.

L’aumento di capitale dell’Alitalia viene chiamato “privatizzazione”. Ma il termine non è ovviamente appropriato: dopo questa operazione, un socio, lo Stato, avrà il 49 per cento, mentre il resto sarà sul mercato. Chi continuerà a comandare? Cambierà forse in alcun modo la logica di scambio tra sfera politica, manager e sindacati (molto frazionati e “sponsorizzati”), che è una delle cause all’origine del disastro Alitalia?

L’aumento di capitale

L’operazione in corso è un ennesimo intervento dello Stato per salvare la compagnia, ed è stata organizzata in modo da massimizzare l’esborso dello Stato, con l’unico vincolo di scendere appena sotto il 50 per cento, per soddisfare la condizione imposta dalla Commissione.
Ai soci vengono offerte nuove azioni, in rapporto di tredici ogni due vecchie, al prezzo di 0,8 euro. All’inizio di novembre, prima dello stacco del diritto, l’azione quotava 6,4 euro e la società capitalizzava circa 840 milioni. In teoria, dunque, la quota dello Stato (62,3 per cento) valeva oltre 500 milioni. La decisione di emettere le nuove azioni a un prezzo molto basso facilita il collocamento e riduce i rischi del consorzio di garanzia. Ma accresce potenzialmente la perdita dello Stato, che dovrà vendere diritti per 162,5 milioni di azioni (su 1,2 miliardi di nuove azioni emesse). Lo Stato verserà 489 milioni per scendere al 49 per cento, mentre il mercato, con i 517 milioni garantiti dalle banche, salirà al 51 per cento. In pratica, è come se il valore della partecipazione dello Stato prima dell’aumento fosse stato quasi azzerato, salvo per quanto potrà essere ricavato dalla cessione dei diritti.
Lo Stato ha poi sborsato altri 92 milioni per l’aumento di capitale di “AZ servizi“, sottoscritto da Fintecna. Poiché “AZ servizi” è in sostanza una società “captive” che genera perdite, la prospettiva di collocare successivamente questa quota sul mercato sembra remota, e invero lascia perplessi il fatto che Bruxelles consenta quest’ulteriore “aiuto di Stato” senza obiettare.
Vi sono poi i costi per gli esuberi e per il decreto legge sui “requisiti di sistema”, contestato dai concessionari aeroportuali e i cui benefici netti per Alitalia sono incerti.

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La questione della liberalizzazione

L’Alitalia ha debiti netti per circa 1,7 miliardi; il rapporto debiti/mezzi propri non lascerà quindi molti spazi di manovra, neanche dopo la ricapitalizzazione, tanto più considerata l’urgente necessità di rinnovare la flotta che ha un’età media di più di dieci anni, con conseguenti costi di manutenzione e consumi elevati.
Con l’aumento di capitale, il problema Alitalia viene rinviato a dopo le elezioni. Ma sono in molti a dubitare che la società, con le sue incrostazioni di privilegi e inefficienze, possa ritrovare un suo equilibrio senza finire come Swissair o Sabena. È sintomatico che i dipendenti annuncino nuovi scioperi anche con l’aumento di capitale in corso.
Purtroppo, seppure l’operazione impedisse in qualche modo il fallimento di Alitalia, il persistere di una compagnia “di bandiera”, con un controllo ancora essenzialmente pubblico e una situazione finanziaria pesantissima, implicherebbe ulteriori danni per gli utenti, sotto forma di freni politici alla liberalizzazione.
Non bisogna dimenticare infatti che il settore è molto meno liberalizzato di quanto si voglia far credere: non lo sono i servizi intercontinentali, sui quali, guarda caso, Alitalia sembra puntare. E non lo è l’allocazione della capacità aeroportuale: gli “slot” più redditizi, cioè il diritto di operare tra due aeroporti importanti nelle ore più utilizzate, sono appannaggio gratuito ed eterno delle compagnie che già li detengono (“granfather’s rights”), in gran parte le compagnie di bandiera.
Sui servizi intercontinentali sta per aprirsi a Washington il secondo tentativo di negoziare una graduale liberalizzazione tra Usa e Unione Europea. Se prevarranno una volta di più gli interessi delle compagnie di bandiera, non cambierà molto. Ma se sarà liberalizzazione vera, gli utenti ne avranno grandi benefici, e la posizione di Alitalia sarà giocoforza destinata a diventare ancora più precaria. Se nelle rotte di lungo raggio, infatti, la compagnia sembra aver recuperato almeno parte del traffico perduto nel periodo successivo agli attentati dell’11 settembre 2001, è su quelle nazionali e di medio raggio (cioè continentali) che continua a perdere. Non a caso, sono le rotte dove la pressione della concorrenza si è fatta sentire maggiormente: a partire dal 1993, su quelle continentali, da qualche anno sulle rotte nazionali. (1)
La vicenda dell’Alitalia è emblematica dei “tarli” che erodono e indeboliscono l’economia italiana.
Rispetto alle altre compagnie europee, molte delle quali in utile e con volumi di traffico multipli, la débacle non è dovuta a carenze tecnologiche né a insufficienza di capitali, ma piuttosto a protezioni clientelari, a una sindacalizzazione frazionata e corporativa, a scelte “improprie” negli investimenti, anche questi spesso sponsorizzati politicamente. Il danno per il paese è stato enorme, non solo per le risorse dello Stato bruciate nelle “ricapitalizzazioni” della compagnia, ma anche per la perdita di posti di lavoro qualificati e per i costi imposti all’economia e al turismo dai prezzi del servizio. Un vero campione nazionale, purtroppo in negativo.
Stupisce quindi che sindacati e alcuni politici critichino violentemente le condizioni di favore praticate a compagnie low cost, come nel caso dell’aeroporto di Alghero verso Ryanair.
Grazie al basso costo dei biglietti aerei si sono sviluppati enormi flussi di turismo dall’estero, che si sarebbero altrimenti diretti altrove. Per continuare a tutelare poche migliaia di dipendenti Alitalia, in generale molto ben pagati in relazione al loro carico di lavoro, vogliamo penalizzare le linee aeree low cost e con loro il nostro settore turistico, e le imprese più dinamiche, che trovano oggi nei voli a basso costo “point to point” una economia rilevante?

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(1) Le quote di mercato di Alitalia, nel 2003 erano pari al 47 per cento sulle rotte nazionali, al 30 per cento su quelle intercontinentali e solo al 19 per cento su quelle infra-europee. Si veda Arrigo U., “Alitalia e il mercato europeo del trasporto aereo”, Mercato concorrenza regole, n. 2, 2005, pp. 297-329.

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  1. Italo Balzano

    Ho letto il suo articolo sull’Alitalia e lo trovo parziale nell’analisi.
    La questione è eccessivamente lunga da analizzare in questa sede ma la invito a riflettere sull’etica di far pagare pochi spiccioli, ad una compagnia aerea straniera, di tasse aeroportuali mentre si tartassa la mammella Alitalia.
    E’ questa la concorrenza che lei auspica?.
    La invito ad informarsi sui trattamenti che gli aereoporti fanno alle compagnie Low Cost straniere e confrontarli con quelle fatte ai nostri campioni nazionali.
    Con stima.
    Italo Balzano

    • La redazione

      Gentile sig.Balzano,
      la questione mi sembra questa: il motivo per cui molti aeroporti minori sussidiano le compagnie low cost è semplice. Fanno contratti per avere assicurati in cambio rilevantissimi flussi di traffico per X anni, che queste compagnie gli possono garantire proprio grazie alle basse tariffe. Traffico significa sviluppo economico, e gli enti locali buttano montagne di denaro (spesso) per progetti di sviluppo con risultati molto più incerti. Ma traffico significa soprattutto ricavi “lato terra”: parcheggi, ristoranti ecc. Quindi non hanno nessun motivo di discriminare: fornirebbero quei sussidi a chiunque gli offrisse le stesse garanzie di traffico, e il mercato non viene affatto alterato. Perchè non ci prova anche l’Alitalia (che anzi certamente sarebbe favorita, dato le migliori connessioni di cui dispone….). Quindi l’azione contro i “sussidi” aeroportuali non è che un’ennesima iniziativa delle inefficienti compagnie di bandiera contro la concorrenza (anche per Charleroi è stato così….). Truly MP

  2. Alessandro Abati

    In merito alle misurazioni cui ci si appoggia per supportare e dimensionare correttamente natura e misura dei recenti periodici salvataggi di Alitalia c’è il parametro del numero dei dipendenti, in relazione ad altre compagnie di bandiera. La Quantità.
    Ci si concentra troppo sul costo unitario del dipendente Alitalia e meno sul fattore Qualità, che andrebbe considerato come un “peso specifico” medio positivo capace di alleggerire il rilancio (meglio “decollo”) di un nuovo piano industriale.
    Un parametro che dovrebbe attenere direttamente alla capacità professionale, produttività e motivazione media del personale che rimarrà in azienda e non tanto della % di personale che verrà tagliato.
    In una società di servizi, dovrebbe essere la qualità della spesa (personale=risorsa) a poter trasformare la spesa stessa in un asset/investimento. Per assurdo, se fossero tutti altamente produttivi e motivati la medesima quantità di personale potrebbe risultare un fattore competitivo.

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