Per ridare credibilità al nostro sistema bancario e per renderlo affidabile agli occhi dei risparmiatori è necessario che a Fazio succeda un Governatore davvero autorevole e competente. Ma non basta. Ci vogliono nuove regole che evitino in futuro una gestione monocratica dell’istituto, impongano un termine al mandato del Governatore e attribuiscano la tutela della concorrenza bancaria all’antitrust. Riproponiamo ai nostri lettori il confronto apertosi su questi temi sul sito sperando che il Parlamento sappia rapidamente varare le nuove norme.

Gli emendamenti che vorremmo, de la redazione lavoce.info

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Quando la moral suasion non basta

Con Antonio Fazio la “moral suasion” non sembra bastare, come riconosciuto ex-post dallo stesso ministro dell’Economia. Ce ne eravamo già accorti da tempo.
Non era bastato a indurlo a dimettersi lo sconcerto dei colleghi del direttivo della Bce, né il rischio di una censura alla luce del codice di condotta del sistema delle banche centrali europee o la preoccupazione espressa dalla Commissione Europea. E neppure i danni di immagine testimoniati dai numerosi articoli del Financial Times e dell’Economist. Non erano bastate le evidenti fratture interne a Bankitalia, né l’indignazione per il contenuto delle intercettazioni, né un arbitro che si schiera dalla parte di chi è accusato di avere violato regole fondamentali per la solidità del nostro sistema bancario. E nemmeno, infine, era bastata l’opinione unanime degli economisti, il loro chiedere in tutti i modi di salvare un’istituzione simbolo del risanamento del nostro paese.
Siamo contrari a cambiare le regole in funzione dell’attuale Governatore e siamo contrari alle leggi ad-personam. Ad esempio, ci pare sbagliato introdurre un limite massimo d’età di settant’anni per i componenti del direttorio e per lo stesso Governatore, un escamotage per forzare Fazio a lasciare. Una regola di questo tipo escluderebbe dal novero dei candidati alla carica persone di comprovata esperienza che potrebbero pregevolmente svolgere il mandato, mentre accrescerebbe il rischio che i soggetti nominati, nell’esercizio delle proprie funzioni, tengano indebitamente conto delle prospettive professionali successive.
Bisogna invece cambiare le regole per cambiare il ruolo del Governatore e ridare credibilità all’istituzione. Queste regole sono state lasciate così come sono dagli emendamenti cosmetici al disegno di legge sul risparmio decisi al Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Non vogliamo che i principi generali di riforma sul modello Bce si traducano in leggi cosmetiche. E c’è tempo solo fino all’8 settembre per presentare emendamenti al Ddl sul risparmio o comunque per inserire nell’agenda parlamentare un disegno di legge specifico sulla governance di Banca d’Italia.
Per questo, a scanso di equivoci, abbiamo provato a tradurre le nostre proposte in un vero e proprio articolato che affronti i nodi cruciali: collegialità nelle decisioni, accountability, mandato a termine e nomina dei componenti del direttorio, concorrenza, trasparenza nei procedimenti di vigilanza e norme transitorie.

1. Collegialità nelle decisioni

Non vogliamo più un monarca assoluto. La normativa vigente assegna al Governatore tutti i poteri non espressamente riservati dallo Statuto al Consiglio superiore e al Comitato del consiglio superiore che in realtà non hanno competenze in materia di tutela del risparmio e di esercizio del credito e, quindi, sull’attività di vigilanza della Banca. (1)
Non è oggi prevista alcuna funzione collegiale del direttorio. La via più diretta per rendere collegiale l’esercizio delle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia, consiste nel prevedere che esso spetta al direttorio, che come organo collegiale decide a maggioranza semplice. Il testo liquidato dal Consiglio dei ministri prevede invece solo un parere preventivo del direttorio.
Attualmente l’articolo 5, lettera c, dello Statuto della Banca d’Italia prevede che il direttorio sia composto da quattro membri (governatore, direttore generale e due vicedirettori generali). Per operare efficacemente come organo collegiale, occorre che i componenti del direttorio siano in numero dispari.
Queste disposizioni dovrebbero entrare in vigore all’atto di approvazione della legge, ponendo fine immediatamente alla gestione monocratica della banca.

Proposta

Aggiungere all’articolo 4 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) il seguente comma:

Articolo 4, comma 1-bis
“I poteri della Banca d’Italia in materia di vigilanza sono esercitati dal direttorio, organo collegiale costituito dal governatore, dal direttore generale e da tre vicedirettori generali. Il direttorio decide a maggioranza secondo le norme stabilite dallo Statuto della Banca d’Italia. Lo Statuto determina anche le modalità per rendere pubbliche le sue decisioni. Queste disposizioni entrano in vigore all’atto di approvazione di questa legge”.

2. Accountability

La Banca d’Italia sinora non è formalmente tenuta a presentare periodicamente al Parlamento una relazione sull’attività di vigilanza. Il Testo unico bancario si limita a prevedere l’obbligo della pubblicazione della relazione annuale (articolo 4, comma 4).
Per uniformare il modello a quello previsto per le altre Autorità indipendenti, occorre che la legge preveda espressamente la trasmissione della relazione annuale al Parlamento. Gli emendamenti approvati dal Consiglio dei ministri indicano solo un generico “riferire al Parlamento del suo operato” che rischia di tradursi in un doppione della relazione sulla vigilanza già oggi presentata all’Assemblea annuale. Utile anche fissare i contenuti della relazione da trasmettere al Parlamento: questa deve soffermarsi sui risultati dello svolgimento delle funzioni istituzionali e deve essere l’oggetto di una pubblica discussione nelle commissioni parlamentari competenti.

Proposta

Aggiungere al comma 4 dell’articolo 4 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, le seguenti parole:
“e la trasmette ai presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, per la pubblica discussione davanti alle commissioni parlamentari competenti”.

3. Mandato a termine e nomina dei componenti del direttorio

In linea con il modello della Bce e delle altre Autorità indipendenti italiane, riteniamo opportuno prevedere un mandato a termine per i componenti del direttorio. Per il Governatore tale mandato, non rinnovabile, potrebbe essere di otto anni, come nel caso del presidente della Bce. Per gli altri componenti la durata del mandato, comunque non inferiore a cinque anni, può essere disciplinata dallo Statuto della Banca d’Italia. Lo Statuto può anche prevedere meccanismi volti a garantire che la conclusione del mandato dei vari membri non sia contestuale, per evitare che ci possa essere un rinnovamento completo del direttorio a scadenze fisse.
Le regole per la nomina del Governatore e degli altri componenti del direttorio attualmente sono contenute nello Statuto della Banca d’Italia. L’articolo 19 dello Statuto prevede che la nomina spetta al Consiglio superiore della Banca d’Italia, e deve essere approvata con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal presidente del Consiglio dei ministri di concerto con il ministro dell’Economia, sentito il Consiglio dei ministri. Questo meccanismo è peculiare, per il fatto di essere disciplinato nello Statuto (anche se lo Statuto è approvato con decreto del Presidente della Repubblica) e per il fatto che, indirettamente, la nomina è riconducibile alle banche che detengono il capitale della Banca d’Italia. È infatti l’assemblea dei partecipanti, nelle tredici sedi territoriali della Banca d’Italia a nominare i componenti del Consiglio superiore che a loro volta nominano i componenti del direttorio. (2)
Se si intende uniformare i meccanismi di nomina dei componenti del direttorio a quelli di altre Autorità indipendenti, non è necessario modificare l’assetto proprietario della Banca, così come previsto dagli emendamenti approvati dal Consiglio dei ministri. È infatti sufficiente separare le funzioni gestionali amministrative, che possono rimanere in capo al Consiglio superiore, dalle funzioni di nomina dei componenti del direttorio, da attribuire alle autorità pubbliche.
La riforma deve, in ogni caso, evitare il rischio di una lottizzazione politica, che potrebbe comportare un peggioramento rispetto all’attuale sistema. Il meccanismo che meglio consente un severo scrutinio politico sui requisiti dei candidati è quello della nomina governativa previo parere vincolante delle commissioni parlamentari a maggioranza qualificata, da approvare con decreto del Presidente della Repubblica. Appare opportuno introdurre a livello normativo per i componenti del direttorio gli stessi requisiti professionali che sono previsti per i componenti del comitato esecutivo della Bce, nonché previsioni sulle incompatibilità successive alla scadenza del mandato.

Proposta

Articolo ….

(Nomina e durata della carica dei componenti del direttorio della Banca d’Italia)

“1. Il Governatore e gli altri componenti del direttorio della Banca d’Italia sono nominati dal presidente del Consiglio dei ministri di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, sentito il Consiglio dei ministri e previo parere vincolante delle commissioni parlamentari competenti, espresso a maggioranza qualificata all’esito di un’audizione pubblica. La nomina è approvata con decreto del Presidente della Repubblica. I componenti del direttorio sono scelti tra persone di notoria indipendenza e di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nei settori monetario, bancario o finanziario.
2. Il Governatore dura in carica per otto anni e non può essere riconfermato. Gli altri componenti del direttorio sono nominati per un numero di anni non inferiore a cinque, stabilito nello Statuto della Banca d’Italia.
3. Per almeno quattro anni dalla cessazione del mandato i componenti del direttorio non possono intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese soggette alla vigilanza della Banca d’Italia.”.

4. Concorrenza

Nel testo unificato del disegno di legge sul risparmio era contenuto un articolo 23 volto a trasferire all’Autorità garante della concorrenza e del mercato le competenze sull’antitrust bancario. (3)
La formulazione era complessivamente soddisfacente. Quindi lo riproduciamo qui sotto. Gli emendamenti approvati dal Consiglio dei ministri mantengono, invece, le competenze sull’antitrust bancaria a Banca d’Italia.

Proposta

Articolo …

(Competenze in materia di concorrenza)

1. All’articolo 20 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) alla rubrica, le parole “Aziende ed istituti di credito” sono sostituiti dalla seguente: “Banche”;

b) i commi da 1 a 8 sono sostituiti dai seguenti:

“1. L’applicazione degli articoli 2, 3, 4 e 6 nei confronti delle banche spetta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Essa adotta i provvedimenti di propria competenza sentito il parere della Banca d’Italia, la quale si pronunzia entro trenta giorni dal ricevimento della documentazione posta a fondamento del provvedimento medesimo. In tali casi sono prorogati di eguale durata i termini per la conclusione dei procedimenti dell’Autorità. Decorso il termine di cui al secondo periodo, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può adottare comunque i provvedimenti di propria competenza.

2. Se l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ritiene che si sia verificata un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza o un’ipotesi di abuso di posizione dominante vietate ai sensi degli articoli 2 e 3, procede a norma dell’articolo 14 informandone la Banca d’Italia. Se a seguito dell’istruttoria di cui al precedente periodo ravvisi infrazioni agli articoli 2 o 3, ne informa la Banca d’Italia per l’espressione del parere di cui al comma 1.

3. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato può autorizzare, per un tempo limitato, intese in deroga al divieto dell’articolo 2 per esigenze di stabilità del sistema monetario, sulla base del parere della Banca d’Italia di cui al comma 1, tenendo conto dei criteri di cui all’articolo 4, comma 1.

4. Le operazioni di concentrazione di cui all’articolo 16 riguardanti banche sono comunicate alla Banca d’Italia e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

5. Se l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ritiene che l’operazione di concentrazione di cui al comma 4 sia suscettibile di essere vietata ai sensi dell’articolo 6, procede a norma dell’articolo 16 informandone la Banca d’Italia.

6. La Banca d’Italia, ricevuta la comunicazione prevista dal comma 4, procede ai sensi dell’articolo 57 del Testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.

7. Qualora la Banca d’Italia non accordi l’autorizzazione prevista dall’articolo 57 del Testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, comunica il provvedimento adottato anche all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ove questa abbia aperto un’istruttoria ai sensi del comma 5. Qualora la Banca d’Italia, nell’autorizzare l’operazione, rilevi che essa è necessaria per assicurare la stabilità di una banca in essa coinvolta, comunica il provvedimento adottato anche all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ove questa abbia aperto un’istruttoria ai sensi del comma 5, motivandolo in relazione a tale circostanza. Il termine per la conclusione dell’istruttoria dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato è prorogato in questo caso fino al quindicesimo giorno successivo alla comunicazione del provvedimento motivato da parte della Banca d’Italia.

8. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato può autorizzare un’operazione di concentrazione tra i soggetti di cui al comma 4 che determini o rafforzi una posizione dominante sul mercato nazionale, qualora la Banca d’Italia, nel provvedimento motivato ai sensi del comma 7, secondo periodo, dichiari che l’operazione è necessaria per assicurare la stabilità di una banca in essa coinvolta. L’autorizzazione non può comunque consentire restrizioni della concorrenza non strettamente necessarie al raggiungimento della finalità di cui al presente comma.

8.bis. Nel caso di operazioni che coinvolgono imprese assicurative, i provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sono adottati sentito il parere dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e d’interesse collettivo (ISVAP), che si pronunzia entro trenta giorni dal ricevimento della documentazione posta a fondamento del provvedimento. Decorso inutilmente tale termine, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può adottare il provvedimento di sua competenza”;

c) al comma 9 sono premesse le seguenti parole: “Salvo quanto disposto dal presente articolo,”.

2. All’articolo 57 del Testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

“4-bis. Per le operazioni di concentrazione di cui all’articolo 16 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, le quali riguardino banche, si applicano le disposizioni dell’articolo 20 della medesima legge.

4-ter. La Banca d’Italia pubblica periodicamente i criteri di vigilanza prudenziale ai quali si attiene nella valutazione delle operazioni di concentrazione tra i soggetti sottoposti alla sua vigilanza e disciplina con proprio regolamento il procedimento per l’istruttoria, con disposizioni che assicurino agli interessati la piena conoscenza degli atti istruttori, il contraddittorio e la verbalizzazione”.

3. Dopo l’articolo 155 del Testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, è aggiunto il seguente:

“Art. 155-bis. –(Disciplina transitoria per i procedimenti relativi alle operazioni di concentrazione).

1. Fino all’adozione del regolamento della Banca d’Italia, previsto dall’articolo 57, comma 4-bis, per la disciplina del procedimento relativo all’istruttoria sulle operazioni di concentrazione si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1998, n. 217″.

5. Trasparenza nei procedimenti di vigilanza

Il Testo unico bancario già prevede che la Banca d’Italia determini e renda pubblici preventivamente i principi e i criteri dell’attività di vigilanza, motivi le decisioni, individui i termini per provvedere, pubblichi i provvedimenti aventi carattere generale e applichi in quanto compatibili le disposizioni della legge sulla concorrenza. Il testo del disegno di legge sul risparmio approvato il 3 marzo 2005 dalla Camera e attualmente all’esame del Senato prevede un rafforzamento delle garanzie procedurali in materia di autorizzazioni. (4)
Un ulteriore provvedimento che potrebbe contribuire ad accrescere la trasparenza nei procedimenti individuali della Banca riguarda la disciplina delle acquisizioni di partecipazioni al capitale delle banche di cui agli articoli 19 e 20 del Testo unico bancario. Infatti, il regime di autorizzazione preventiva previsto dall’articolo 19 del Tub, pur essendo compatibile con la direttiva comunitaria (che consente agli Stati membri di adottare regimi più stringenti di quello minimo richiesto), può favorire un esercizio eccessivamente discrezionale dell’attività di vigilanza, che può risultare discriminatorio e quindi in contrasto con i principi della libertà di stabilimento. (5)
Proponiamo che la valutazione sostanziale delle acquisizioni di partecipazioni bancarie da parte dell’Autorità di vigilanza si esplichi tramite un potere di opposizione all’operazione a essa notificata.

Proposta

L’articolo 19 del decreto legislativo n. 385/1993 è sostituito dal seguente:

Articolo 19

(Partecipazione qualificata in una banca)

1. Chiunque intenda acquisire a qualsiasi titolo una partecipazione che, tenuto conto delle azioni o quote già possedute, supera il 5 per cento del capitale della banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto e, indipendentemente da tale limite, quando la partecipazione comporta il controllo della banca stessa, ne dà comunicazione preventiva alla Banca d’Italia.
2. La comunicazione preventiva deve essere effettuata anche quando le variazioni della partecipazione comportano partecipazioni al capitale della banca superiori ai limiti percentuali stabiliti dalla medesima Banca d’Italia e, indipendentemente da tali limiti, quando le variazioni comportano il controllo della banca stessa.
3. La comunicazione preventiva è necessaria anche per l’acquisizione del controllo di una società che detiene una partecipazione superiore al 5 per cento del capitale di una banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto o che, comunque, comporta il controllo della banca stessa.
4. La Banca d’Italia individua i soggetti tenuti alla comunicazione quando il diritto di voto spetta o è attribuito a un soggetto diverso dal socio.
5. La Banca d’Italia può opporsi all’acquisizione comunicata quando non ricorrano le condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente della banca. Essa può altresì imporre la cessione della partecipazione qualora vengano meno tali condizioni.
6. I soggetti che, anche attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari non possono acquisire azioni o quote che comportano, unitamente a quelle già possedute, una partecipazione superiore al 15 per cento del capitale di una banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto o, comunque, il controllo della banca stessa.
7. La Banca d’Italia può altresì opporsi all’acquisizione comunicata in presenza di accordi, in qualsiasi forma conclusi, da cui derivi durevolmente, in capo ai soggetti indicati nel comma 6, una rilevante concentrazione di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori della banca, tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa. Essa può altresì imporre la cessione della partecipazione qualora tali condizioni si verifichino in un momento successivo.
8. Le operazioni indicate nei commi 1 e 3 a cui partecipano soggetti appartenenti a Stati extracomunitari che non assicurano condizioni di reciprocità sono soggette ad autorizzazione. La domanda di autorizzazione, presentata alla Banca d’Italia, è da questa trasmessa al ministro dell’Economia e delle Finanze, su proposta del quale il presidente del Consiglio dei ministri può vietare l’autorizzazione.
9. La Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, emana disposizioni attuative del presente articolo.

6. Norme transitorie

La collegialità nelle decisioni, come si è visto, entrerebbe in vigore subito. Occorrerebbe anche prevedere disposizioni transitorie per la nomina dei componenti del direttorio. (6)
Il Governo ha proposto di lasciare tutto com’è fino a quando il Governatore abbandonerà. Non c’è bisogno di “cacciarlo per legge”, basta ridurre i suoi poteri imponendo fin da subito la collegialità e il rinnovo del direttorio in carica nei tempi minimi necessari per applicare le nuove disposizioni.

Proposta

Entro sei mesi dall’entrata in vigore di questa legge si procede alla nomina del direttorio, nelle modalità previste dall’articolo….

(1) In virtù dell’articolo 5 del Dl c.p.s. 691/1947, ancora in vigore non essendo stato abrogato dal Testo unico bancario.

(2) In realtà, il sistema vigente già pone alcuni correttivi a possibili distorsioni. Infatti l’articolo 60 dello Statuto prevede stringenti incompatibilità per i componenti del Consiglio superiore, che sono proprio volte a garantire l’indipendenza della Banca dall’influenza politica e dei soggetti regolati. In particolare, non possono fare parte del Consiglio superiore le persone che rivestono cariche politiche, i dipendenti e coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso banche o altri soggetti operanti nel settore dell’intermediazione finanziaria, dirigenti e impiegati della pubblica amministrazione nonché, in ogni caso, tutti coloro che si trovano in situazione di conflitto di interessi con la Banca in considerazione della posizione personale o delle cariche ricoperte.

(3) Il testo adottato come testo base dalle Commissioni riunite VI e X della Camera, approvato il 25 novembre 2004.

(4) Ci riferiamo alla disposizione specifica che ai procedimenti individuali di Banca d’Italia si applicano i principi sulla partecipazione al procedimento e sull’accesso agli atti amministrativi di cui alla legge n. 241/1999. Sono previste particolari garanzie per i procedimenti a carattere contenzioso e per i procedimenti sanzionatori. L’obbligo di motivazione è previsto non solo per i provvedimenti individuali, ma anche per i provvedimenti aventi natura regolamentare o di contenuto generale.

(5) La direttiva comunitaria 2000/12/CE che ha codificato la preesistente normativa comunitaria in materia di accesso all’attività degli enti creditizi e al suo esercizio, all’articolo 16 disciplina espressamente l’acquisizione di partecipazioni qualificate in un ente creditizio. Stabilisce che gli Stati membri prevedano una procedura di informativa preventiva all’autorità competente la quale dispone di un termine massimo di tre mesi dalla data della comunicazione per opporsi al progetto “se, per tenere conto della necessità di garantire una gestione sana e prudente dell’ente creditizio, non sono soddisfatte della qualità” degli acquirenti. La direttiva non impone quindi agli Stati membri di prevedere un procedimento autorizzatorio: essa consente in linea di principio anche di prevedere un mero obbligo di comunicazione preventiva accompagnato dal potere dell’Autorità di vigilanza di vietare ex post l’acquisizione entro un dato termine se non soddisfa determinati requisiti.

(6) Non essendo questi membri del Governing Council della Bce, non si applicherebbe loro il parere contrario della Bce a mutare la durata del mandato del Governatore in carica.

Il futuro della Banca d’Italia, di Luigi Spaventa

Continua stancamente la recita parlamentare sulla legge per la tutela del risparmio. La Camera, se basteranno i tre giorni di cui dispone, modificherà il testo ricevuto dal Senato.
In almeno un caso si tratterà di una modifica fortemente peggiorativa: la restaurazione del regime sanzionatorio per false comunicazioni sociali del 2002, con il ritorno alla “modica quantità”, alla querela di parte e a tutte le clausole che degradano il falso in bilancio a un peccadillo minore.
Altre e più desiderabili modifiche, quali un ritorno al testo della Camera per le disposizioni in materia di operazioni con parti correlate, opportunamente riscritte, e per la divisione di poteri fra Consob e Banca d’Italia, sono invece improbabili. È comunque indispensabile la revisione dell’articolo 19 sull’organizzazione della Banca d’Italia, aggiunto al Senato dal Governo, nella vana speranza che tanto bastasse a far dimettere il governatore.
Le disposizioni contenute in quell’articolo non rimuovono le cause delle degenerazioni che si sono manifestate nell’operato dell’autorità di vigilanza e prestano il fianco a obiezioni di merito, sollevate anche dalla Banca centrale europea nel suo parere. Non sarà un caso se il Senato, ove si arrocca il nucleo duro dei difensori dello status quo, ha approvato quel testo senza discussioni.

Poteri e assetto della Banca d’Italia

Un rapporto dell’associazione Astrid, già presentato in bozza (www.astridonline.it) e di prossima pubblicazione in versione definitiva, elenca due insiemi di questioni che dovrebbero essere affrontate: poteri della Banca d’Italia; assetto e governance dell’istituto.
Il primo insieme (che, per ragioni procedurali, non può essere affrontato nel disegno di legge ora in discussione) include due temi. In caso di fusioni e acquisizioni la disciplina comunitaria considera l’autorizzazione un atto dovuto quando ricorrano i requisiti previsti. Il Testo unico bancario e ancor più le istruzioni di vigilanza sono stati invece scritti in modo da consentire alla Banca massima discrezionalità e da estendere l’ambito di intervento ben oltre il perimetro della vigilanza di stabilità. Anche ad ammettere che i comportamenti del governatore fossero tutti legittimi, proprio da ciò discenderebbe la necessità di modificare le legge che li hanno consentiti, come ci chiederà la Commissione europea, in un’annunciata procedura d’infrazione. Occorre pertanto intervenire sul Testo unico per trasformare il potere di approvazione in potere di opposizione (come già proposto su
www.lavoce.info); per ricondurre il criterio di sana e prudente gestione nei limiti del diritto comunitario; per disciplinare il potere regolamentare.
Il secondo tema riguarda le competenze in materia di concorrenza. È questione delicata, che non può essere risolta con il semplice trasferimento di tutta la materia all’Autorità garante della concorrenza, poiché nel caso di fusioni e acquisizioni si pongono problemi sia di concorrenza sia di stabilità. Astrid prevede di assegnare le competenze all’Autorità, ma di consentire alla Banca d’Italia di opporsi con provvedimento motivato a un’operazione ritenuta pregiudizievole per la stabilità.
Per la sua governance la Banca d’Italia rappresenta un unicum. È tempo di renderla normale, anche perché tanto ci chiede la Bce. In luogo dell’accentramento di tutti i poteri nelle mani del governatore, occorre dunque prevedere collegialità delle decisioni nell’ambito del direttorio, auspicabilmente con tre vicedirettori generali, per avere un collegio di cinque membri. Ad evitare tentazioni lottizzatorie, converrebbe che questi fossero scelti fra i funzionari generali della Banca. Se vi è collegialità di decisioni, occorre poi introdurre un termine di mandato non solo per il governatore, ma per tutti i componenti del direttorio, con modalità iniziali atte a evitare una scadenza contemporanea.

L’assetto proprietario

La questione della procedura di nomina, sia del governatore sia degli altri membri del direttorio, si intreccia con quella dell’assetto proprietario.
Oggi le quote del capitale di Banca d’Italia sono di proprietà delle banche. Queste designano un Consiglio superiore, che, oltre ad avere competenza formale su alcune materie di amministrazione interna, è uno dei tre soggetti (con il presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica) coinvolti nella nomina e revoca del governatore e dei membri del direttorio. Vi sono in questo disegno due anomalie: la prima, più di forma che di sostanza, si rinviene nel possesso da parte dei controllati del capitale del controllante; la seconda è la competenza del Consiglio nella procedura di nomina e revoca, che in ogni altro ordinamento appartiene al potere politico.
L’articolo 19 risolve malamente il problema, trasferendo le partecipazioni allo Stato o ad altri enti pubblici e non occupandosi del Consiglio superiore. In tal modo si creano le condizioni per una più sostanziosa lesione dell’autonomia della Banca: il Consiglio superiore sarebbe designato dal ministero dell’Economia, il quale, come partecipante, interverrebbe anche nella ripartizione degli utili. Si apre inoltre uno spinoso problema di valutazione delle quote da trasferire dalle banche allo Stato. Quella disposizione dell’articolo 19 deve essere certamente soppressa, anche per evitare la altrimenti certa censura della Bce.
Le soluzioni alternative sono tre: Banca d’Italia riacquista (o converte in obbligazioni) le quote delle banche, sostituendo il Consiglio superiore con un organo simile, ma di nomina esterna (proposta Agostini – Ds); le partecipazioni restano in mano delle banche, ma si elimina l’inutile architettura del Consiglio superiore (proposta Astrid); le cose restano come stanno (probabile proposta governativa in sostituzione della precedente).
Una previsione? Se su Banca d’Italia la Camera approverà modifiche incisive, è improbabile che l’intero disegno di legge veda la luce, a motivo dell’opposizione del Senato: una disastrosa brutta figura del legislatore e del Governo. Un’alternativa? Approvare il disegno di legge stralciando l’articolo su Banca d’Italia; rinviare perciò alla prossima legislatura una riforma più organica, che comprenda anche una revisione della legislazione sui poteri e sulle competenze dell’autorità di vigilanza.

Risparmio una riforma da buttare,di Marco Onado

L’ultima versione della legge che viene pomposamente battezzata riforma per la tutela del risparmio, e già approvata dal Senato, è una risposta assai parziale alle questioni che sono drammaticamente emerse negli ultimi anni. La struttura complessiva rivela, da un lato, l’affanno di varare sul filo di lana un provvedimento che consenta ai partiti della maggioranza di presentarsi fra qualche mese agli elettori dicendo “qualcosa abbiamo fatto”. Dall’altro, porta chiari i segni delle lacerazioni che si sono manifestate a partire dalla proposta di legge del ministro Tremonti (nella sua prima incarnazione).

Quattro gravi difetti

Il testo ha quattro inconvenienti gravi. In primo luogo, non affronta alcune questioni fondamentali. È privo di un disegno efficiente delle autorità di vigilanza, non scalfisce in alcun modo la disciplina assolutamente discrezionale e nemica del mercato in campo bancario e non uniforma il modus operandi della Banca d’Italia al modello europeo basato su trasparenza, collegialità, accountability.
Il secondo difetto è nella parte relativa ai controlli societari, quella per intenderci che dovrebbe evitare nuove truffe come Parmalat: soluzioni valide e innovative si alternano ad altre che paiono troppo blande oppure tanto dirigistiche nella forma quanto prive di reale efficacia. Il terzo limite concerne la Banca d’Italia. Almeno quattro dei vari aspetti critici sono stati chiaramente indicati nel parere della Banca centrale europea che (il particolare non è irrilevante) ne ha fatto oggetto di interventi sia in seminari specializzati sia sulla stampa da parte di Lorenzo Bini Smaghi, membro del direttivo di Francoforte. (1)
Il quarto è il pericolo, concreto viste le recenti dichiarazioni all’interno della maggioranza, che venga cancellato il ritorno a norme un po’ più severe in materia di falso di bilancio che in un sussulto di dignità il Senato aveva finalmente varato.
In sostanza, il testo di legge attuale è poco più di una foglia di fico che copre due vergogne: quella di non aver finora fatto nulla dopo i gravissimi scandali societari degli ultimi anni; quella di non essere riusciti a scalfire i poteri del Governatore, al centro di asperrime polemiche negli ultimi mesi. Su quest’ultimo punto, si limita a introdurre il mandato a termine e a trasformare la struttura proprietaria della Banca d’Italia in un modo molto criticato e, guarda caso, favorevole al Tesoro.

Una pessima riforma da rivedere subito

A questo punto il Parlamento, avendo ormai rinunciato a varare la riforma ambiziosa che il ministro Tremonti aveva presentato nel 2004, ha solo due possibilità: o licenziare questo testo nella versione già approvata dal Senato oppure introdurre modifiche. Non a caso, si era inizialmente cercato un accordo bipartisan sulle questioni più delicate, come quelle relative alla Banca d’Italia.
La prima via condurrebbe a una pessima riforma. E, quel che più conta, sarebbe sonoramente bocciata dai mercati, che capirebbero l’inefficacia di molte delle soluzioni faticosamente architettate, e soprattutto dall’Europa, perché la parte sulla Banca d’Italia non resisterebbe a un ricorso alla Corte europea. Se si vuole fare davvero qualcosa di concreto, occorrerebbe concentrare gli sforzi sull’obiettivo di introdurre sul corpo di questo testo tutti i miglioramenti possibili, resistendo alle pressioni per tornare alla versione edulcorata del falso in bilancio.
Tuttavia, la probabilità che ciò accada appare praticamente nulla, anche a chi crede ciecamente in Babbo Natale, che come è noto nulla può rispetto alla potenza di fuoco del partito pro-Fazio. Ciò significa che il prossimo Governo erediterà una riforma che dovrà essere riscritta da capo, o almeno completata, affrontando i nodi veri del sistema finanziario italiano.
Le idee per realizzare questo ambizioso obiettivo non mancano certo.
In materia di architettura delle autorità di vigilanza, in un’intervista della scorsa estate Romano Prodi ha indicato come linee guida da seguire la ripartizione di competenze per finalità: alla Banca d’Italia solo la vigilanza di stabilità (ma su tutte le categorie di intermediari, comprese le assicurazioni); alla Consob la vigilanza di trasparenza; all’antitrust le competenze in materia di concorrenza. Per quanto riguarda la Banca d’Italia, su questo numero di lavoce.info, Luigi Spaventa richiama i punti principali di una proposta elaborata dal gruppo Astrid, che ha il doppio merito di toccare tutti i punti cruciali e di proporre soluzioni dettagliate ed efficaci. In campo societario il dibattito ha portato a elaborare molte proposte capaci di coniugare l’efficacia al rispetto delle regole di mercato. Anche su questo lavoce.info ha dato un contributo concreto.
La risorsa di cui paventare la scarsità nella prossima legislatura non sono le idee, ma la volontà di incidere su problemi delicati come l’assetto delle autorità di vigilanza che sul piano politico portano costi certi e vantaggi aleatori. La riforma nella sua versione meno indecente potrebbe costituire un ottimo alibi per un rinvio che rischierebbe di diventare definitivo. Forse i tentativi bipartisan cui abbiamo assistito sono anche frutto di qualche arrière-pensée opportunistica.
Deve invece essere chiaro che ormai questo Governo può approvare o una riformaccia o una riformicchia e che il prossimo, auspicabilmente diverso, dovrà affrontare subito il problema e tradurre in pratica i progetti che dai banchi dell’opposizione ha già elaborato.

(1) “Il Sole-24 Ore” dell’11 novembre 2005.

La Banca d’Italia e il miracolo di San Silvio, di Giuseppe Pisauro e Francesco Vella

Non sappiamo ancora quale sarà l’esito del braccio di ferro con il Governatore, ma sicuramente la riforma presentata dal Governo come frutto di un accordo dovuto a un ulteriore miracolo di “San Silvio”, un miracolo lo ha effettivamente compiuto: quello di lasciare tutto come prima aggravando una situazione già di per sé difficile.

Il vero “segnale istituzionale”: la norma transitoria

Una volta definito, finalmente, il mandato a termine si è rinunciato a qualsiasi tentativo di introdurre una rigorosa disciplina transitoria in grado di garantire un rapido ricambio nella conduzione della Banca d’Italia: le infinite discussioni e la crisi istituzionale di questi giorni si sarebbero potute evitare con un coraggiosa e coerente normativa che avrebbe, questa sì, lanciato un “segnale istituzionale” inequivocabile. E bisogna tener presente che l’ormai tanto famoso, quanto poco letto, parere della Banca centrale europea del dicembre 2004 non impediva affatto l’inserimento di una equilibrata norma transitoria, ancor più giustificata quando la riforma non riguarda solo la figura del Governatore, ma investe l’intera struttura di governance, introducendo profonde trasformazioni che meritano di essere operative in tempi rapidi.
Ed è veramente bizzarra, a proposito di credibilità internazionale, la rinuncia a una norma transitoria nel timore di un parere contrario della Bce mentre contemporaneamente la stessa Bce chiede di intervenire.
Analoga pavidità e totale incoerenza emerge dalla cosiddetta collegialità. Se, come recita la dotta citazione della relazione presentata dal ministro del Tesoro, “bisogna avere fede nelle banche centrali e non nei banchieri centrali in quanto individui” non si capisce perché si attribuisce al direttorio soltanto il potere di fornire pareri lasciando i poteri decisionali in capo al Governatore. Qualcuno dimentica che per natura i poteri di vigilanza bancaria conservano sempre un certo spazio di discrezionalità: la migliore prevenzione contro un loro utilizzo patologico è una decisione realmente collegiale, possibilmente presa da soggetti competenti, autonomi e indipendenti.
Le proposte di emendamento della redazione di lavoce.info si muovono, opportunamente, proprio in questa direzione.

Conflitti inesistenti: il labirinto degli assetti proprietari

Ogni miracolo, si sa, contiene qualcosa di misterioso e anche quello di “San Silvio” non si smentisce. Si è deciso infatti di intervenire sull’assetto proprietario della Banca d’Italia per prevenire un conflitto di interessi che, come schiere di commentatori avevano ribadito in tutte le salse, non esiste e non è mai esistito.
Le quote di partecipazione detenute dalle banche, che notoriamente nella storia non hanno mai consentito a queste la benché minima possibilità di incidere sugli indirizzi di vigilanza, né su qualsiasi altro aspetto dell’attività della Banca d’Italia, vengono ora trasferite allo Stato o ad altri enti pubblici. A prescindere da ogni facile ironia su come nel nostro paese si adottano draconiane misure di intervento sulla proprietà nei conflitti di interesse inesistenti, mentre per quelli veri si utilizzano linee decisamente più accomodanti, per usare un eufemismo, , non si capisce cosa succederà: tutto è rinviato a un comodo, e appunto misterioso, regolamento governativo.
Il problema è come valutare le quote di partecipazione che le banche, secondo l’emendamento approvato dal Consiglio dei ministri, dovranno cedere allo Stato. Il capitale nominale della Banca d’Italia è pari a 156mila euro, suddiviso in quote del valore di 0,52 euro ciascuna, e il dividendo che la Banca paga ogni anno ai detentori delle quote è di 15.600 euro (il 10 per cento del capitale nominale). Quest’ultima cifra rappresenta la redditività attuale dell’asset per i detentori delle quote di partecipazione (per contro, la Banca ha pagato nel 2004 un dividendo di 15,3 milioni di euro al Tesoro). Una possibile stima del valore economico delle quote è stata prospettata da Marco Panara su Repubblica: valutare le quote di partecipazione alla stregua di un titolo che dà una rendita annua perpetua di 15.600 euro, vale a dire poco più di 300mila euro (circa 1 euro per ciascuna quota), utilizzando un tasso di interesse del 5 per cento.
Una soluzione che guardasse alla sostanza delle cose dovrebbe partire dalla premessa che, in considerazione delle particolari caratteristiche dell’organizzazione istituzionale della Banca d’Italia, qualsiasi esborso dalle casse del Tesoro (o del patrimonio della Banca d’Italia) che andasse oltre queste valutazioni costituirebbe un impoverimento della collettività.
Le banche, tuttavia, hanno iscritto nei loro bilanci valori molto superiori e molto difformi tra loro: la valutazione di una singola quota varia da 41,3 euro per Banca Carige a 13.781 euro per Bnl. Vendere le proprie quote allo Stato al prezzo di 1 euro si tradurrebbe in pesanti minusvalenze.
Deve la collettività farsi carico di questo problema? La riposta dovrebbe essere negativa, tranne che in un caso. Secondo lo Statuto della Banca d’Italia, la partecipazione maggioritaria al capitale deve essere in capo a soggetti pubblici. L’errore è stato commesso all’atto delle privatizzazioni allorché non si è intervenuti per conservare questo assetto. Gli investitori che hanno acquistato le azioni delle banche privatizzate hanno pagato anche per le quote della Banca Centrale, al valore cui erano iscritte allora nei bilanci. Si dovrebbe, pertanto, riconoscere a queste quote un valore coerente con quello assegnato all’atto della privatizzazione, senza attribuire nessuna considerazione per ogni successiva rivalutazione delle quote. Appaiono però evidenti le sperequazioni tra banche che anche in questo modo si genererebbero.
Si tratta, quindi, di un bel pasticcio che ci terrà occupati per i prossimi mesi. Forse la soluzione migliore sarebbe mantenere lo status quo (in questa direzione vanno gli emendamenti proposti da lavoce che separano proprietà e controllo) e rinviare le decisioni sull’assetto proprietario della Banca a una più approfondita riflessione. Si potrebbero allora prendere in considerazione altre proposte, decisamente meno rischiose e più equilibrate come quella, già avanzata nel passato, di trasformare la Banca d’Italia in una fondazione che ricompra le quote dalle banche per poi annullarle.
Risolta la questione della proprietà, diverrebbe superflua l’assemblea dei partecipanti al capitale di Banca d’Italia; lo Stato potrebbe nominare il consiglio superiore, con procedure che garantiscano la scelta dei relativi membri tra soggetti particolarmente qualificati, indipendenti e autorevoli. Lo Statuto andrebbe poi emendato per assicurare all’Istituto, nell’ambito dei poteri di autorganizzazione propri di ogni ente pubblico, gli spazi di autonomia funzionale e finanziaria inderogabilmente richiesti dall’ordinamento comunitario. D’altronde, è questo un modello adottato anche in altri ordinamenti.
La strada verso una coerente e rapida riforma delle Autorità di vigilanza è ancora lastricata di molti ostacoli, ma per superarli, più che i miracoli, serve, forse un po’ di buon senso.

La morale della storia, di Marco Onado

Non è ancora chiaro quale sarà il finale della storia della scalata ad Antonveneta, soprattutto dopo la clamorosa iniziativa della magistratura di procedere al sequestro delle azioni della banca padovana e alla sospensione da ogni incarico societario di Gianpiero Fiorani, del suo direttore finanziario Gianfranco Boni, di Emilio Gnutti e di Stefano Ricucci.

Se il finale della storia è incerto, la morale che si può trarre, anche guardando solo al capitolo della scalata di concerto, comincia a essere chiara: può essere riassunta in quattro punti che riguardano il principio di italianità in nome del quale si è combattuta la battaglia, il rispetto delle regole dimostrato dai contendenti, il collegamento con le altre scalate del 2005, il ruolo delle istituzioni, in particolare della Banca d’Italia, che avrebbero dovuto fungere da arbitri della contesa.

Il principio di italianità

Fin dal momento in cui si è delineata la volontà di Abn Amro di assumere il controllo di Antoveneta è stata sventolata la sacra bandiera dell’italianità, cioè della difesa del controllo italiano delle banche. La stessa accoglienza è stata riservata all’offerta per Bnl avanzata dagli spagnoli del Banco di Bilbao Vizcaya. Una parola d’ordine avallata dalla Banca d’Italia e subito ripresa con compunta determinazione dal mondo politico. In quei giorni, dichiarazioni favorevoli ad un’aggregazione pilotata da Fiorani e soci sono state rilasciate da esponenti di un arco politico molto vasto. Nessuno però, e tanto meno Fiorani, si è mai dato cura di dare un contenuto più preciso a questo vuoto concetto. E così le lodi del “radicamento territoriale” oppure i solenni richiami alla “attenzione all’apparato produttivo locale” sono rimasti nel campo dei luoghi comuni. Esattamente come era successo quando si voleva difendere a ogni costo la “meridionalità” del Banco di Napoli o del Banco di Sicilia.
I documenti ufficiali, compreso il carteggio con la Banca d’Italia fanno riferimento a un’altra dimensione dell’italianità, che però ha poco a che vedere con gli interessi generali. Bpl dichiara infatti nella sua lettera dell’11 febbraio all’autorità di vigilanza di agire “su sollecitazione di imprenditori locali”. Chi? Forse quelli che partecipavano alla cordata e/o quelli che si accingevano a spartirsi qualche centinaia di milioni di euro guadagnati con l’uso disinvolto di informazioni riservate.
L’unico localismo che emerge in questa vicenda è quello dei rapporti preferenziali fra una banca (meglio: un banchiere) e una serie di soggetti che ne traggono pingui tornaconti personali. Si tratti dei trentacinque clienti come l’imprenditore agricolo Carlo Baietta o dei nuovi immobiliaristi, il copione è sempre quello dei clienti privilegiati, come era avvenuto nel caso Bipop e, risalendo per li rami, alla famigerata “lista dei 500” delle banche di Sindona.
Non è un caso che Emilio Gnutti dichiari alla Consob di essersi dissociato dal patto di sindacato di Antonveneta anche perché il nuovo management dell’istituto padovano gli aveva chiesto di rimborsare il fido ottenuto. Le condizioni di favore sono evidentemente considerate come un atto dovuto nei confronti degli azionisti di riguardo, con tanti saluti ai conflitti di interesse e alla particolare prudenza con cui dovrebbero essere realizzate le operazioni con parti correlate. Alcuni soggetti sono dunque convinti che a loro le regole si applicano con molta elasticità. E infatti uno dei protagonisti negativi della vicenda continua a sedere imperterrito nel consiglio di amministrazione di una grande banca (Gnutti, vicepresidente del Monte dei Paschi di Siena) nonostante una condanna in primo grado per insider trading: con la nuova normativa sarebbe ipso facto causa di perdita dei requisiti di onorabilità necessari per far parte dell’organo amministrativo di una banca.
L’italianità in sé interessa dunque ai suoi sostenitori quanto la riconquista del Santo Sepolcro premeva a coloro che predicavano le crociate, mossi, prima che da nobili motivi spirituali da ben più concreti interessi commerciali e di potere.

Il rispetto delle regole

Per conquistare Antonveneta, un boccone da quasi tutti gli analisti indipendenti ritenuto troppo grosso per una banca dalla crescita così intensa e così ricca di particolari inquietanti, Bpl ha violato sistematicamente le regole più importanti del mercato finanziario e della corretta gestione bancaria. È accertato che l’istituto guidato (fino alla sospensione) da Fiorani non ha rispettato le norme sui patti parasociali, cioè norme fondamentali di trasparenza del mercato del controllo proprietario. Il fatto che ciò sia avvenuto in un periodo così delicato come l’imminenza di un’offerta pubblica di acquisto rende la violazione ancora più grave: non a caso le cronache riferiscono di possibili reati di manipolazione di mercato. Le modalità con cui sono avvenuti gli acquisti da parte dei clienti eccellenti ha indotto la procura di Milano a ipotizzare anche il reato di insider trading. Infine, i fidi per oltre un miliardo di euro concessi in pochi giorni a tali clienti, senza garanzie, per operazioni che potevano essere fortemente rischiose, sono contrari alle buone regole della tecnica bancaria.
Le polemiche di agosto sui protagonisti della scalata ad Antonveneta sembrano per lo più improntate (anche da parte dell’opposizione) a criticare le intercettazioni telefoniche e la diffusione dei loro contenuti: la seconda carica del Paese ha affermato che non ritrovava in esse elementi di carattere penale o deontologico. Il punto non è affatto questo: le intercettazioni sono solo la forma colorita di una sostanza grave, già emersa negli atti di accertamento Consob e nel decreto di sequestro delle azioni. Questi documenti dimostrano che la scalata è avvenuta violando tutte le regole possibili di funzionamento del mercato finanziario e bancario e che il Governatore della Banca d’Italia ha avallato e sostenuto violazioni così gravi.
La delibera Consob di maggio aveva confermato che la Banca Popolare di Lodi e i suoi alleati avevano diffuso comunicazioni false a proposito delle azioni Antonveneta rastrellate in Borsa, in primo luogo non rivelando al mercato l’esistenza di un patto di sindacato. Tutto ciò ha alterato gravemente il quadro informativo e ha impedito agli azionisti della banca padovana di prendere una decisione consapevole sulle operazioni in corso. Si tratta di una violazione gravissima delle regole sulle offerte pubbliche e sul controllo societario. Non a caso Luigi Zingales ha ricordato che negli Stati Uniti uno dei protagonisti negativi del capitalismo rampante degli anni Ottanta era stato condannato perché nel corso di una scalata aveva intestato alcuni pacchetti azionari a società di comodo.
Se qualcuno nutre ancora qualche dubbio sulla gravità del depistaggio sistematico che è stato realizzato, si legga il seguente passo del decreto di sequestro delle azioni Antonveneta.

“Diffondevano (i soggetti indagati) le seguenti false notizie al mercato:

a) di non possedere né direttamente né indirettamente altre partecipazioni nel capitale sociale di Banca Antonveneta oltre a quelle specificamente indicate alle autorità e al mercato” (comunicati bpl del 9 e 16 marzo e del 6 aprile 2005);

b) che la “determinazione (di collocarsi fra gli azionisti stabili di Antonveneta) sarà assunta previa valutazione dei prezzi e delle quantità, compatibili con l’esigenza di non creare turbative al mercato. Tutto ciò ovviamente nell’ambito delle prescritte autorizzazioni” (comunicato del 12 aprile 2005);

c) che “l’attività di intermediazione per conto terzi sul titolo Bav svolta da Bpl nel rispetto formale e sostanziale delle vigenti disposizioni non ha alcun nesso con la partecipazione detenuta né tanto meno con pretesi accordi con gli attuali azionisti di Bav (comunicato del 16 marzo e del 6 aprile);

d) che non sono stati “stipulati accordi (opzioni, contratti preliminari, a termine o condizionati, accordi per gli acquisti o per il voto) aventi per oggetto le azioni Bav e di non aver concluso – in forma scritta o in altra forma – patti parasociali con azionisti della medesima banca (comunicati Bpl del 16 marzo e 6 aprile);

e) che secondo quanto deliberato dal cda di Bpl, “l’eventuale acquisto non dovrà comunque superare il 30%” (comunicato Bpl del 16 aprile);

f) che il gruppo facente capo all’imprenditore Ricucci definiva come destituita di ogni fondamento la notizia di stampa secondo cui il Gruppo avrebbe ricevuto da istituti bancari una finanziamento finalizzato all’acquisto di azioni Bav, ribadendo che l’acquisto era stato eseguito con mezzi propri;

così inducendo il mercato, nella convinzione che Bpl non avesse acquistato titoli (direttamente o per interposta persona) in quantità superiore al quella di volta in volta comunicata, che non intendesse superare la soglia di cui all’art. 106 tuf e che non esistesse un “concerto” come poi accertato da Consob con delibere del 10.5 e 22.7″.

Gli interventi della magistratura, in particolare il clamoroso sequestro delle azioni del 25 luglio, dimostrano che vi sono ipotesi di violazioni ben più gravi e di rilievo penale. Ma da tempo sulla stampa si era parlato di ipotesi di insider trading e di aggiotaggio informativo e manipolativo. È vero che in questo caso (ma non in quello precedente) dobbiamo aspettare di saperne di più prima di giudicare, ma un conto è il garantismo, uno è il giudizio che è possibile esprimere fin d’ora sulla disponibilità di Fiorani e soci a rispettare le regole di funzionamento del mercato.
Il decreto di sequestro preventivo delle azioni offre un quadro circostanziato delle condotte di mercato addebitate ai cosiddetti concertisti:

avendo [Bpl] organizzato il rastrellamento di azioni Antonveneta:

· Mediante l’utilizzazione in prima battuta di diversi soggetti, persone fisiche, persone giuridiche,, e società offshore, sempre ed integralmente finanziati dalla bpl, con tassi inferiori a quelli normalmente praticati e non richiedendo nella maggioranza dei casi alcuna garanzia per l’apertura di credito;

· Occultando la reale motivazione della concessione dei finanziamenti ed in taluni casi anche il reale destinatario degli stessi, all’uopo avvalendosi di società off-shore e tra queste Garlsson Real Estate SA (riconducibile a Ricucci) cui veniva erogato da Bpl Suisse e con fideiussione di Bpl Scarl, un credito di 100 milioni di euro, fittiziamente destinato a finanziare un’inesistente operazione immobiliare, invece impiegato per l’acquisto di azioni Antonveneta;

· Interponendo per l’acquisto di azioni antonveneta fondi di investimento offshore tra i quali Generation Fund, finanziati direttamente anche tramite Bpl Suisse.

Le storie parallele

La scalata ad Antonveneta si è svolta contemporaneamente ad altri due raid borsistici che hanno reso incandescente il mercato finanziario italiano nel primo semestre del 2005: quella a Bnl e quella al Corriere della Sera. Ciascuna scalata, come le famiglie infelici di Tolstoi, fa naturalmente storia a sé, ma le coincidenze almeno fra quelle che riguardano le due banche sono inquietanti: coincide il sacro principio dell’italianità; coincidono i soggetti che orchestrano l’operazione; coincidono le banche finanziatrici; coincide il problema dell’acquirente molto più piccolo della preda. Il sospetto che si stia scrivendo un capitolo di “vite parallele” degno di Plutarco si fa sempre più robusto.
Unipol ha più volte dichiarato di avere un disegno industriale significativo e di essere in grado di dissipare i molti dubbi agitati dagli analisti sulla possibilità di creare valore in un’operazione che comporta costi finanziari elevatissimi e dal ritorno assai incerto, considerate anche le condizioni di debolezza della banca obiettivo (non certo risolte dall’ultima gestione, nonostante la presenza nell’azionariato di tutti coloro che si sono proposti per risolverne i problemi, a cominciare – va detto – dagli spagnoli del Banco di Bilbao). Ma se così non fosse, la nostra storia sarebbe solo un capitolo di una saga ancora tutta da scrivere e da meditare. Sicuramente saremmo di fronte a un’operazione di potere perfettamente analoga a quella su Antonveneta (e forse a quella su Rcs) cioè a un tassello del disegno che, come dice Edmondo Berselli, porta solo a “lottizzare posizioni nel circuito della rendita attraverso una pratica di accordi e alleanze trasversali”.

Il ruolo degli arbitri

La Consob ha dimostrato di sapere agire prontamente, grazie anche ai maggiori poteri e all’azione coordinata con la magistratura derivanti dalla nuova legge (imposta dall’Europa) sugli abusi di mercato e soprattutto ha preso una decisione coraggiosa pochi giorni dopo l’assemblea di fine aprile che ha modificato il corso dell’intera vicenda. Ben diverso è il giudizio che si deve dare sull’operato della Banca d’Italia e soprattutto del Governatore Antonio Fazio.
In ogni concerto che si rispetti c’è uno spartito, un’orchestra, un solista e un direttore. La cronaca che abbiamo ricostruito dimostra che Fiorani è la mente che ha scritto lo spartito fin dai tempi della scalata alla Banca Popolare di Crema. È anche il solista che esegue i pezzi più difficili, ben seguito da orchestrali che sono anche suoi compagni di affari e che si sono esercitati in questa e altre esecuzioni con diligente entusiasmo. Rimane scoperto il ruolo di direttore d’orchestra e molti non esitano ad assegnarlo al Governatore della Banca d’Italia.
Già qualche mese fa, Alessandro Penati osservava che “l’aspetto incomprensibile della vicenda è l’atteggiamento del Governatore della Banca d’Italia: perché mette in gioco la reputazione personale, e quella dell’Istituzione, pur di appoggiare apertamente l’espansionismo di una banca così debole?”. Dopo gli accertamenti della Consob e le prime indiscrezioni che filtrano dalle inchieste della magistratura, rispondere a questa domanda è ancora più difficile. Dal punto di vista formale, la Banca d’Italia ha finora dimostrato la correttezza del proprio operato sul piano amministrativo sia davanti al Tar, sia a Bruxelles, e ovviamente non si tratta di un aspetto secondario. Ma sul piano sostanziale la documentazione che abbiamo citato dimostra ampiamente che un progetto che aveva l’italianità come unico formale obiettivo, privo peraltro di alcun contenuto reale, è stato accolto con tale favore da ricevere autorizzazioni che hanno pochi precedenti nella storia bancaria italiana.
Tutto questo già dimostra che Bpl aveva violato regole di sana e prudente gestione, cioè l’essenza stessa della vigilanza di stabilità affidata alla Banca d’Italia. Non è né sano né prudente concedere in pochi giorni 1,1 miliardi di euro di finanziamenti a tasso molto basso e senza garanzie per investire in un’operazione rischiosa come una scalata societaria. I controlli interni della banca (la base della sana e prudente gestione come recitano le istruzioni di vigilanza) escono a pezzi da questo episodio; non è sano né prudente interporre schermi societari, per di più finanziati dalla banca; non è sano né prudente tacere al mercato operazioni che sono sicuramente effettuate con parti correlate. E molti di questi aspetti vengono citati nella relazione della Vigilanza dell’8 luglio sulla Popolare Lodi. La stessa relazione poi clamorosamente bocciata da Fazio, per dare comunque via libera all’Opas di Fiorani.

Un danno incalcolabile

Questo è il prezzo pagato per sostenere l’italianità del sistema bancario, l’obiettivo dichiarato dal Governatore e avallato dall’esecutivo almeno a partire dallo sciagurato “pranzo dello Sciacchetrà” di gennaio scorso (quando la scalata era già partita). Un mito che, come ha detto Ferruccio de Bortoli, si è infranto nel dedalo degli interessi anche personali di un gruppo di amici finanziati da Fiorani per acquistare titoli dell’istituto padovano.
È possibile che il Governatore abbia appoggiato la scalata senza sapere delle violazioni normative che Fiorani e soci stavano commettendo. Ma è gravissimo che una volta accertato questo aspetto fondamentale (da maggio, si ripete) egli abbia continuato ad appoggiarne il disegno fino alla autorizzazione decisiva all’Opas di Bpl su Antonveneta (il 12 luglio).
Quest’ultima decisione è stata presa contro il parere di due alti funzionari della Vigilanza. E, peggio, facendo ricorso al parere di tre esperti esterni, un fatto senza precedenti che ha aperto così un conflitto tutto interno a Bankitalia mai visto prima.
Che Fiorani abbia ricevuto un trattamento privilegiato è quindi nella vicenda stessa. Ed è anche questo un fatto grave, perché già prima che iniziasse la scalata ad Antonveneta si poteva stigmatizzare che un banchiere venisse presentato come il “pupillo di Fazio” o come l’autore di una crescita “sponsorizzata” da via Nazionale. Eppure queste sono le espressioni ricorrenti nella stampa da molti anni e ovviamente sempre più frequenti nel corso della scalata. Il danno che ne è derivato all’indipendenza della Banca d’Italia e alla sua capacità di essere super partes rispetto ai soggetti vigilati è incalcolabile, anche solo sulla base di questi aspetti. È inaudito che la seconda carica dello Stato affermi di non trovare nulla di “moralmente censurabile” nelle intercettazioni che hanno dato ulteriore evidenza a tutti questi fatti.
Come se non bastasse, qui si apre il capitolo più scottante: se nel corso della vicenda la Banca Popolare di Lodi abbia sempre rispettato i principi di sana e prudente gestione e in particolare i coefficienti patrimoniali che sono la base fondamentale della vigilanza prudenziale. Qui il giudizio è ancora sospeso, ma basterà mettere in evidenza almeno i seguenti aspetti.

a) la complessità della struttura di controllo e il frequente ricorso a strumenti di finanza derivata avevano indotto molti analisti indipendenti a formulare da molto tempo dubbi sulla consistenza patrimoniale effettiva di Bpl;

b) le acquisizioni passate avevano comportato emissioni obbligazionarie cospicue: la struttura del passivo di Bpl è molto diversa da quella del sistema bancario e tale, secondo Alessandro Penati, a farla assomigliare più ad un hedge fund che a una banca;

c) la ricapitalizzazione di marzo aveva comportato emissione di titoli ibridi che il mercato aveva accolto imponendo spread da junk bond;

d) la cessione di quote di minoranza delle società del gruppo Bpl a banche estere appare sempre più sospetta e tale da comportare un (oneroso) impegno di riacquisto da parte della banca;

e) è stato utilizzato uno schermo societario (Earchimede) inizialmente taciuto al mercato e poi rivelatosi riconducibile a uno dei componenti la cordata;

f) Moody’s ha declassato al livello D+ (cioè un gradino sopra il minimo assoluto) il suo giudizio sulla solidità finanziaria della banca e della controllata Efibanca.

Era sulla base di queste considerazioni che ben due capiservizio della Banca d’Italia ritenevano opportuno negare a Bpl l’autorizzazione ad assumere il controllo di Antonveneta. Per superare questa opposizione, Fazio ha usato una procedura anomala e irrituale. Anche in questo caso, il problema non è se la procedura sia difendibile sul piano strettamente formale, ma il vulnus che ne deriva per la credibilità esterna della Banca e per l’armonia del suo funzionamento interno.
Duole che sia adesso la magistratura penale ad avere la parola decisiva al riguardo. È auspicabile che, come è finora avvenuto sul piano amministrativo, sia possibile dimostrare la piena correttezza almeno formale dell’operato della Banca d’Italia. Ma sul piano sostanziale vale il vecchio detto di Talleyrand: “È più che un delitto; è un errore”.

* Conclusioni dell’articolo di Vittorio Malagutti e Marco Onado che sarà pubblicato sul prossimo numero di “Mercato Concorrenza Regole”, ed. Il Mulino. Uno speciale ringraziamento a Giuliano Amato per averci concesso l’opportunità di pubblicare in anteprima questo articolo.

Parlamento, Presidenza della Repubblica e Banca d’Italia, di Carlo Fusaro

Nessuno può levare le castagne dal fuoco al Governo e al Parlamento: Banca d’Italia va riformata, e subito per cambiare governance e Governatore. Altra strada non c’è. In un paese normale, lo si farebbe con un progetto da votare in un mese o per decreto legge. Da noi si temporeggia, col Governatore screditato e il rischio di pericolose supplenze giudiziarie.
Pochi anni fa il Governatore della Bundesbank fu sostituito in due o tre settimane. Con la famiglia aveva accettato un paio di giorni di ospitalità a spese di un soggetto vigilato. La cosa finì sui giornali; il Fazio tedesco si profuse in scuse, ma dovette andarsene.
Da noi, non funziona così. La sensibilità per i comportamenti (forse) non penalmente rilevanti, ma peggio che inopportuni, è diversa. Molti non si indignano affatto; di quelli che si indignano, i più lo fanno per convenienza. Tutto è tattica subordinata a interessi partigiani. Leggo ora che la Lega tenta lo scambio Banca popolare italiana-Fazio.

Un Governatore in una botte di ferro

L’occasione d’oro per provvedere, quando Cirio e Parmalat avevano già segnalato l’esistenza di seri problemi, il Parlamento l’aveva avuta, ma dal progetto sulla tutela del risparmio le norme sulla temporaneità dell’incarico di Governatore e sulle funzioni di Banca d’Italia furono stralciate a furor di Fazio e Lega, con benedizione di pezzi dell’opposizione. Ora la stalla è vuota.
Il Governatore, dal canto suo, resiste all’ondata di discredito che si è attirato. Se lo fa – a me sembra – è perché il contesto politico glielo permette, ma anche perché dispone di un quadro giuridico che lo pone in una condizione di forza. Può andarsene se, quando e come vuole. Per esser chiari: a legislazione vigente, il Governatore è in una botte di ferro. Perché, è presto detto.
La sua nomina e revoca dipendono da un troppo ampio concorso di volontà: formalmente spettano al consiglio superiore della Banca; ma la delibera di questo assume valenza nell’ordinamento pubblico solo se fatta propria da un decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio di concerto col ministro dell’Economia, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Ciò di per sé è un poderoso ostacolo a scelte rapide e incisive.
Per di più, la struttura societaria e di governo della Banca, che pure sarebbe un “istituto di diritto pubblico”, è peggio che curiosa, e da sempre sfida le categorie dei giuristi. Figlia della sua storia, non ci si è curati di adeguarla, ignorando la trasformazione del sistema bancario. Così, il consiglio superiore è ancora eletto dai soci della Banca; questi soci sono banche (sempre le stesse) che ne detengono il capitale, nominalmente irrisorio (156mila euro). Ciò (più in teoria che in pratica) mal si concilia con le funzioni di vigilanza: ma un tempo aveva una logica perché le banche “proprietarie” erano (quasi) tutte pubbliche. Non è più così.
Come che sia, questi strani soci nominano nel consiglio superiore degne persone, scelte di fatto, non da loro, ma dal Governatore stesso; questi, come sanno ormai anche i bambini, non solo è a tempo indeterminato, ma non conosce pensionamento.
Ecco perché l’unica ipotesi giuridicamente prevista per liberarsi di un Governatore senza che lo voglia, è la revoca da parte di quel consiglio superiore: il che, di fatto, è come pretendere una sorta di 25 luglio della Banca d’Italia (Mussolini fu sfiduciato da un organo, il Gran consiglio, che era tutto di sua nomina). Ma una replica in via Nazionale sembra difficile.
Come se ciò non bastasse, per ottime ragioni – dato il ruolo dei governatori delle banche centrali nazionali nella Banca centrale europea, del cui direttivo fanno parte di diritto, col divieto di “sollecitare o accettare istruzioni” da chicchessia, governi inclusi) – le norme dell’Unione tutelano sia l’indipendenza delle banche centrali sia i singoli governatori: non solo impongono il mandato lungo (almeno cinque anni), ma ne disciplinano con sfavore la rimozione.
Infatti, il Protocollo sulla Bce, in relazione alla revoca di un Governatore (a) la subordina a condizioni che esso stesso indica (è lecita “solo se [il governatore] non soddisfa più alle condizioni richieste per l’espletamento delle sue funzioni o si è reso colpevole di gravi mancanze”) e (b) dà espressamente facoltà al Governatore rimosso di far ricorso alla Corte di giustizia.
Sono norme disegnate in base all’ipotesi, generalizzata, di governatori con incarico a termine, dunque soggetti comunque a periodica conferma (per cui la revoca è quasi inimmaginabile). In Italia, hanno l’effetto di blindare una carica che, come il pontefice cattolico, è vitalizia (c’è in Europa, pare, un altro governatore senza scadenza, in Danimarca, ma a settanta anni va in pensione).
Perciò, ove anche quel famoso “25 luglio” si verificasse, un Fazio revocato potrebbe sempre adire la Corte di giustizia.
A legislazione vigente, non esiste altra autorità che possa intervenire. Neppure il Presidente della Repubblica, il quale, in materia, è legato alla proposta del Governo che, tutt’al più, può rifiutarsi di far propria, ma senza la quale non può che affidarsi alle cosiddette esternazioni: strumento delicato da usare con cautela, essendo l’equivalente presidenziale della moral suasion. Non obbliga e ove non assecondata, espone chi vi ricorre a brutte figure.

La riforma necessaria

Ma poi, non è solo questione di questo Governatore. Un problema di funzioni e di governance della Banca d’Italia c’è comunque, e da tempo.
Ipotizzare un’autoriforma, è politicamente indecoroso e istituzionalmente senza senso (si potrebbe introdurre il mandato a termine, ma non cambiare funzioni e poteri). Il Governatore in carica, al più, può dare i suoi suggerimenti: e senza ostruzionismi, se vuol rispettare il Parlamento.
Anche, ma non solo per questo, il legislatore è l’unico che può e deve intervenire: con norme di portata generale che non configurino l’ipotesi di una revoca per legge. Perciò vanno poste le basi per una seria modifica di Banca d’Italia, previa, s’intende, richiesta del parere della Banca centrale europea, come da Trattato.
Ma anche qui, nessuna confusione: di parere obbligatorio ma non vincolante, come diciamo noi giuristi, si tratta. Autorevole, da seguire se possibile a scanso di grane, ma poi decidendo in proprio: non può essere la Bce a riformare la banca centrale italiana. Né vedo come, da parte dell’Unione europea, si potrebbe equiparare a una revoca di fatto, vietata, una riforma legislativa che introducesse il mandato a termine in un contesto più ampio che prevedesse la collegialità.
La riforma allora, potrà e dovrà: (i) prevedere il mandato a termine; (ii) istituire un ristretto board che renda collegiali le decisioni in materia di vigilanza (non quelle in materia monetaria che al Governatore spettano personalmente in base alle norme Ue: a garantire ciò, queste sono finalizzate; non quelle in materia antitrust che andrebbero attribuite ad altra autorità); (iii) risolvere la questione della struttura proprietaria (cosa complicata dalla consistenza in termini patrimoniali che alle quote nominali possedute dalle singole banche è stato consentito di assumere: ma bisognerà pure uscirne ora che le banche sono private); (iv) dettare norme transitorie per il passaggio al nuovo regime, nell’ambito delle quali si può anche immaginare – per assecondare il parere Bce del 2004 – formule quali l’introduzione di un’età di pensionamento oppure un mandato assai breve (“di cortesia”, posto che la meriti) per il Governatore in carica al momento della riforma. Ma di ciò non dovrebbe esserci bisogno se si introduce la collegialità di cui dicevo, che giustificherebbe la nomina, subito, del nuovo organo, quindi del Governatore.
Se la nostra classe dirigente di governo condividesse solo in parte la sensibilità contro comportamenti eticamente impropri di altre classi dirigenti; se in nome di ciò, essa fosse in grado di stabilire una collaborazione bipartisan a difesa di una delle fin qui più rispettate istituzioni del paese, si potrebbe immaginare uno strumento normativo incisivo e immediatamente vigente: un decreto legge con i contenuti indicati, destinato per definizione a fulmineo e sicuro iter parlamentare. Decreti legge hanno tagliato la contingenza, salvato le reti tv private, imposto la par condicio (con in gioco principi costituzionali non meno rilevanti di quelli di cui si ragiona qui): perché non lo si fa a salvaguardia della credibilità della nostra banca centrale?
Invece, come si vede, nemmeno se ne parla. Perché? Semplice: non lo si vuole, un po’ per scelta, un po’ per ignavia, un po’ per debolezza. E il tempo passa.
Il fantasma delle supplenze della magistratura torna, fatalmente, ad aleggiare.

La via dell’autoriforma è obbligatoria?, di Francesco Vella

Il parere della BCE

La riforma della Banca d’Italia deve rispettare i vincoli comunitari derivanti dal trattato di Maastricht e dalla qualità di membro del direttivo della BCE del Governatore. Sono vincoli che difendono l’indipendenza e l’autonomia delle banche centrali, imponendo alle legislazioni dei paesi dell’Unione Europea criteri coerenti con il Trattato. Questo è il motivo per il quale tutte le iniziative in questo settore devono ricevere il parere obbligatorio, ma non vincolante, della Banca Centrale Europea.
La BCE già nel 2004 ha dato un primo parere sull’originario testo del disegno di legge sul risparmio che prevedeva il mandato a termine del governatore.
E’ quindi importante valutare gli orientamenti della BCE per verificare la concreta fattibilità delle diverse ipotesi di riforma.
Bisogna in primo luogo liberare il campo da un equivoco: nel documento 2004 la BCE non prendeva, e non poteva prendere, in alcun modo posizione sulle modalità attraverso le quali realizzare la riforma, se cioè attraverso una nuova disciplina legislativa o il rinvio a norme autoregolamentari; sono, queste modalità affidate alla libera scelta dei paesi membri.

Il mandato a termine e il periodo transitorio

La BCE svolgeva, invece, alcune considerazioni, sia sulla durata dell’incarico del governatore, sia su altri rilevanti aspetti che meritano di essere ricordati. Innanzitutto accoglieva con evidente e ovvio favore la proposta di un mandato del governatore di 8 anni non rinnovabile e revocabile soltanto nei casi previsti dall’articolo 14 dello statuto della BCE e cioè nelle ipotesi di gravi mancanze e del venir meno delle condizioni richieste per l’espletamento delle funzioni, tenendo presente che comunque il governatore eventualmente rimosso può sempre tutelarsi con il ricorso alla Corte di Giustizia.
La BCE criticava però l’assenza di una norma transitoria per il governatore in carica, coerente con lo stesso art. 14, secondo il quale la durata del mandato dei singoli governatori delle banche centrali nazionali non può mai essere inferiore ai 5 anni, ma esprimeva la consapevolezza della “eccezionalità” della situazione italiana dovuta alla mancanza di qualsiasi limite.
Non vi è dubbio che quella posizione è opportuna e assolutamente coerente con i principi comunitari, altrimenti qualsiasi governo potrebbe con un intervento legislativo liberarsi di un governatore scomodo. Nella valutazione della congruità del periodo transitorio si deve, però, tener conto della specifica situazione nazionale, soprattutto, poi, se la riforma non investe solo il mandato, ma configura (cosa che il disegno di legge del 2004 non faceva) una più radicale modifica dell’assetto di governo della Banca Centrale.
La proposta, contenuta nell’intervento del 29 luglio pubblicato su lavoce.info prevede l’adozione per la Banca d’Italia di una struttura simile a quella della BCE, con un funzionamento collegiale e con la previsione di analoghe norme per il mandato dei membri del direttorio, e quindi con la revisione delle caratteristiche della figura del governatore e delle sue competenze monocratiche. Sebbene il Trattato non imponga ai paesi membri l’adozione di un determinato modello organizzativo per la loro Banca Centrale, è inevitabile che la BCE, come in parte emerge dal parere del 2001 sulla riforma della Bundesbank, guardi con favore a questa innovazione.
In questo caso vi sarebbe, quindi, una profonda modifica di tutta l’organizzazione della Banca Centrale che giustifica, anche in un ottica comunitaria, un periodo transitorio ridotto. Non ci si può certo nascondere che su questa materia l’interpretazione delle norme si presta a qualche ambiguità, d’altronde si tratta di trovare una soluzione equilibrata che senza violare i principi del Trattato consenta una rapida ed effettiva entrata in vigore della riforma, soprattutto quando questa mira a risolvere con urgenza situazioni oggettivamente patologiche dove risultano violati quei valori di indipendenza e imparzialità ai quali fanno esplicito riferimento anche i codici di condotta interni alla stessa BCE.

Indipendenza, accountability e politica

E’ importante ricordare che nel suo parere la BCE sottolineava altre novità contenute nel disegno di legge del 2004 per incrementare la trasparenza dei processi decisionali e garantire una adeguata accountabilitry, elementi intimamente connessi e complementari alla indipendenza operativa delle autorità di vigilanza. E’ quindi evidente la necessità di intervenire con rapidità, organicità e puntualità anche su questi aspetti, perché la tutela dell’indipendenza non si trasformi in incentivo ad una pericolosa autoreferenzialità.
Vi è, infine, un ultimo profilo che la BCE prendeva in considerazione e che si rivela cruciale per una riforma che voglia rispettare gli imprescindibili presidi di autonomia dell’autorità di vigilanza.
Una prima versione del progetto di legge sulla tutela del risparmio del 2004 attribuiva al CICR penetranti competenze in materia di vigilanza con una norma che sembrava recuperare i poteri di indirizzo politico previsti dalla vecchia legislazione bancaria. Quella norma, dopo un autentica levata di scudi, fu successivamente eliminata e la BCE esprimeva tutto il suo compiacimento per il fatto che il legislatore aveva evitato di trasformare la riforma delle autorità in un subdolo tentativo per sottoporle ad un controllo politico. E’ un monito ancora valido e un utilissimo presidio comunitario contro il rischio, sempre in agguato nel nostro paese, che ritornino vecchi fantasmi.

Il Governatore, l’Italia e le banche, di Tito Boeri, Francesco Giavazzi, Marco Onado, Marco Pagano, Francesco Vella

Sotto il dipinto di San Sebastiano, nell’ufficio del Governatore della Banca d’Italia hanno lavorato Luigi Einaudi, Donato Menichella, Guido Carli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi. In più occasioni la reputazione della Banca è stata cruciale per la credibilità dell’Italia. Senza questa reputazione probabilmente non avremmo ricevuto lo stand-by del Fondo monetario internazionale che nel 1976 ci consentì di superare un momento molto difficile. Durante le vicende di Tangentopoli il capitale umano della Banca, da Carlo Azeglio Ciampi a Lamberto Dini, evitò il collasso delle istituzioni della Repubblica. E’ un patrimonio che oggi rischiamo di perdere.

Un problema di regole e di persone


I problemi della Banca d’Italia non si limitano alla leggerezza e allo scarso senso dello Stato dimostrati in questi mesi da Antonio Fazio, di cui abbiamo criticato l’operato in anni non sospetti, quando essere critici del Governatore era considerato da molti economisti quasi un tradimento. All’origine dei problemi della Banca vi sono le regole che sovra-intendono al suo operare. Innanzitutto la responsabilità per la concorrenza, che fa a pugni con quella per la stabilità del sistema finanziario. E poi il mandato a tempo illimitato, che sottrae il Governatore ad ogni forma di accountability. E il fatto che non ci sia collegialità nelle decisioni, al contrario di quanto avviene nella BCE. Si tratta semplicemente di applicare le regole già previste per la Banca Centrale Europea. Problemi che in passato non sono emersi per la misura e la correttezza dei precedenti Governatori, ma anche perché il loro potere di indirizzo sul sistema finanziario era limitato da un assetto proprietario ingessato e sostanzialmente tutto pubblico.
Con l’avvio delle privatizzazioni la Banca ha potuto esercitare la sua funzione di regolatore del nostro sistema finanziario e il Governatore è diventato l’arbitro unico di aggregazioni e ristrutturazioni, dotato di un potere assoluto, senza dover rispondere ad alcuno del suo operare. Nonostante un caso di evidente successo, Unicredit, il modo in cui Antonio Fazio ha interpretato questo ruolo ha prodotto effetti deludenti: aggregazioni negate senza spiegare perché, altre autorizzate senza che ne fossero evidenti le sinergie e soprattutto un’ostinata chiusura all’ingresso di banche estere in Italia. Il risultato è un sistema bancario tra i più costosi d’Europa .

La responsabilità del governo

A questo punto la responsabilità è del governo. Esso ha i poteri per intervenire mettendo fine ad una vicenda che ha leso la credibilità dell’Italia nel mondo. Non si tratta di inventare alcunché di nuovo, ma semplicemente di adeguare lo statuto della Banca d’Italia a quello della Banca centrale europea. Mandato a termine del Governatore (con una norma transitoria, compatibile con i principi comunitari, che preveda le dimissioni del Governatore in carica qualora abbia superato il nuovo termine stabilito dalla legge) un direttorio che, sul modello del Comitato Esecutivo della BCE, assuma le sue decisioni su base collegiale e forme di accountability adeguate. In questa prospettiva è necessario anche intervenire sulle competenze attribuendo quelle di Antitrust sulle banche all’Autorità per la concorrenza. Se il Governo non ha la forza di portare in porto la legge di riforma del risparmio, almeno stralci questi due provvedimenti. Stare a guardare, dando l’impressione di non poter far nulla è un atteggiamento irresponsabile che rischia di dilapidare il grande capitale di competenze e credibilità che rimane nella Banca d’Italia.

La pelle d’oca e i mercati, di Giuseppe Montesi

“Con la pelle d’oca” è una delle frasi che sembra abbia pronunciato Giampiero Fiorani per ringraziare il governatore Antonio Fazio per il via libera all’offerta di scambio su Antonveneta. È la stessa sensazione, anche se per motivi alquanto differenti, che dovremo avere nel ripercorrere le vicende degli ultimi mesi che hanno interessato il mercato azionario italiano. Ed è sempre quella stessa sensazione che dovremo avere quando pensiamo agli sviluppi futuri legati alle operazioni in corso e a quelle che si preannunciano già per il prossimo futuro.
Ogniqualvolta che nei mercati si realizzano operazioni che hanno poco senso economico dovremo sempre essere preoccupati. Purtroppo negli ultimi tempi di operazioni di questo tipo ve ne sono diverse in corso e altre sono attese. Il pericolo in questi casi che si creino posizioni estremamente speculative e rischiose, determinando così i presupposti perché qualcuno possa subire nel futuro forti perdite a vantaggio di qualcun altro, che, sfruttando la situazione, si crea un bel guadagno immediato. Ogni riferimento a fatti e persone (vicenda Unipol/BNL/immobiliaristi) non è casuale. Con questo naturalmente non vogliamo dire che ci sia necessariamente qualcosa di male nel voler acquisire una società, ma quando l’acquirente è una società molto più piccola, con poche risorse a disposizione, può diventare un problema. Alle stesso modo non c’è nulla di male a rastrellare titoli sul mercato ma diventa patologico se si acquistano con premi altissimi. Quello che possa ad esempio aver spinto Stefano Ricucci a rastrellare azioni RCS a quei prezzi, non ha certo nulla a che fare con la ricerca di un investimento industriale profittevole.
Questi problemi non riguardano solamente coloro che risultano coinvolti direttamente in queste operazioni. È infatti interesse di tutta la collettività che queste operazioni non determino delle condizioni eccessivamente rischiose o violino i principi di concorrenza. Anche perché, in particolare nel caso delle banche, è l’intera collettività che poi alla fine, in un modo o nell’altro, è chiamata a coprire eventuali situazioni deficitarie. Non bisogna poi dimenticare che è interesse di tutti che i mercati allochino nel modo più efficiente possibile le risorse.
Per cercare di prevenire e limitare questi problemi esistono delle regole da rispettare e delle autorità di controllo in grado di condizionare e indirizzare anche fortemente certe operazioni. E qui purtroppo arriviamo al punto più sconfortante, che concerne proprio il controllo, in particolare sulle operazioni su Antonveneta e BNL, che si presenta sempre di più come un concentrato di paradossi e omissioni. Siamo stati dell’opinione, (a questo punto crediamo sia del tutto evidente) che la condotta di Banca d’Italia, oltre a non essere stata imparziale, è andata contro quasi ogni buona regola economica e prudenziale conosciuta. Il fatto che questa possa essere stata formalmente rispettosa delle normative in materia (vedi sentenza del TAR), non può e non deve riportare in secondo piano quegli elementi di sostanza, che sono talmente evidenti, che non possono e non devono essere taciuti. Le imprese falliscono senza che necessariamente i propri amministratori facciano qualcosa di illegale; ma questo non elimina le responsabilità degli amministratori nei confronti dei propri finanziatori. L’aggravante è stato poi che su queste vicende la politica è stata, almeno fino a questo momento, praticamente assente; a destra come a sinistra, il che può anche essere condivisibile, a patto che tutto proceda nella correttezza e nel rispetto, sostanziale oltre che formale, delle norme previste. E alla fine, come spesso accade in questo paese, ad intervenire sono stati i giudici. La cronaca è ormai nota e a questo punto è inutile farne un nuovo resoconto. Vale solamente la pena ricordare la situazione incredibile che si è creata nel caso di Antonveneta dove si è dato il via all’OPS lanciata da Popolare Italiana (ex Popolare di Lodi) nonostante il parere contrario dei tecnici di Banca d’Italia. Questo per sottolineare che evidentemente anche in Banca d’Italia erano giunti alle medesime conclusioni a cui erano arrivati praticamente tutti, ovvero che i coefficienti patrimoniali della Popolare Italiana erano compromessi e che tutta l’operazione era ed è altamente rischiosa per una banca in queste condizioni. Francamente non abbiamo mai dubitato che i tecnici di Banca d’Italia, che godono da sempre, e giustamente, di una reputazione di alta professionalità, non vedessero di buon occhio questa situazione.
Quali siano le ragioni che possano aver spinto Banca d’Italia, o meglio il suo governatore, ad una simile condotta è e rimane un mistero. Ragioni economiche non riusciamo a vederle; l’italianità delle banche, la costituzioni di gruppi bancari radicati sul territorio, possono essere forse dei bei slogan per qualcuno, ma certamente hanno una scarsa consistenza economica. Il nostro sistema bancario è costituito quasi esclusivamente di banche ben radicate solo sul proprio territorio; che tale caratteristica diventi addirittura una priorità e un vanto ci sembra veramente troppo. È stato lo stesso governatore del resto che nella sua relazione annuale a maggio ha evidenziato le principali lacune del nostro sistema bancario, quando ha affermato come tutta una serie di attività bancarie in Italia, assolutamente strategiche, siano gestite da banche estere, come in particolare il collocamento di titoli (il 70% è collocato da banche estere), servizi di finanza aziendale, gestione di patrimoni mobiliari e altre attività all’ingrosso. Non bisogna essere certo degli esperti per capire che per svolgere questo tipo di attività non c’è bisogno di un maggiore localismo ma di una maggiore apertura e internazionalizzazione. Sul fatto poi che le OPA di Popolare Italiana e Unipol non rappresentino potenzialmente un buon investimento lo dicono le cifre che gli stessi autori delle OPA hanno fornito al mercato. Ci riferiamo alle famose sinergie di 300 milioni nel caso di BPI/Antonveneta e 500 milioni nel caso Unipol/BNL. Infatti se a tali valori vengono dedotti i costi dell’integrazione, quelli del finanziamento delle operazioni (interessi passivi, etc.), le parcelle dei consulenti e naturalmente le tasse, e si considera un adeguato costo opportunità del capitale e un certo numero di anni per andare a regime, ne ricaviamo che la presunta creazione di valore delle sinergie potrà a stento coprire i costi legati ai cospicui premi pagati per le acquisizioni. Di vantaggi per gli azionisti chiamati a sopportare l’onere ed il rischio finanziario di tali operazioni non se ne vedono. Insomma si stanno prendendo dei grossi rischi a fronte di basse probabilità di guadagno; agli azionisti non rimane che sperare che il proprio management abbia sottostimato le possibili sinergie delle fusioni. Date le poste in gioco, tutto questo ci sembra veramente incredibile e incomprensibile.
Se poi qualcuno ha ancora qualche dubbio sulla contraddittorietà di questi progetti provi a districarsi sulla serie infinita di operazioni, alcune molto complesse, richieste per finalizzarli. Tra le altre cose, molte di queste operazioni implicano l’utilizzo di derivati; purtroppo a tanti ancora sembra sfuggire che l’utilizzo di questi strumenti crea di per se posizioni rischiose e costose.
Se qualcuno infine pensa che comunque alla fine tutto si sistemerà, ricordiamo che la storia ci insegna che le fusioni e le acquisizioni alla prova dei fatti risultano spesso un modo per distruggere ricchezza più che per crearla. Moeller, Schlingemann e Stulz in un recente articolo pubblicato su Journal of Finance, hanno stimato, per un campione di società quotate, che tra il 1998 e il 2001 i processi di acquisizione hanno determinato una distruzione di valore netta per circa 134 miliardi di dollari. È singolare come da questo punto di vita la stessa Banca Popolare Italiana rappresenti un tipico esempio. Se guardiamo infatti alla sua storia recente vediamo che questa è fatta di numerose acquisizioni (a prezzi sempre elevati), aumenti di capitale, forte ricorso al debito; con il risultato finale di aver perso un terzo del suo valore negli ultimi cinque anni. È difficile al momento prevedere gli sviluppi futuri di queste vicende. Se accantoniamo per un momento le beghe giudiziarie e amministrative, l’unica certezza che rimane è che queste operazioni stanno richiedendo investimenti e relativi finanziamenti per miliardi di euro. Investimenti, come abbiamo visto, dall’esito molto incerto e con basse potenzialità di guadagno. Ci auguriamo che in futuro, chi si fa promotore di certe iniziative, abbia quantomeno l’accortezza di presentarsi al mercato con maggiore trasparenza e con progetti che almeno sulla carta risultino credibili e sostenibili. Perché è veramente paradossale che le cifre fornite dagli stessi promotori siano in palese contraddizione con gli ambiziosi progetti annunciati a parole.

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