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Nuove regole per le Opa

Restano pochi mesi per recepire la direttiva europea sulle offerte pubbliche di acquisto. Se in altri paesi l’orientamento dei Governi è già chiaro e raggiunto attraverso un dibattito ampio, da noi del processo di recepimento si sa molto poco. Sembra però che il filo conduttore sarà “il ricorso a un’ampia autonomia statutaria”. Gli statuti delle società potrebbero derogare alle disposizioni sull’autorizzazione assembleare per le misure difensive oppure introdurre regole di reciprocità. Il rischio è di avere assetti ancora meno contendibili di quelli attuali.

Il 20 maggio 2006 è il termine ultimo per recepire la direttiva 2004/25/Ce sulle offerte pubbliche di acquisto. La materia è delicata e rilevante; lo testimonia l’iter particolarmente travagliato della stessa direttiva, in discussione dal 1989. Proprio per la difficoltà di trovare soluzioni condivise, alcune disposizioni – le più importanti – non sono vincolanti, ma solo facoltative.
Con le regole previste dal Testo unico della finanza, l’Italia appartiene a quella ristretta rosa di paesi che possiedono una disciplina aperta ai takeover. Quali scelte effettuerà ora il nostro paese? Con quali ricadute? Per comprendere l’importanza delle decisioni che gli ordinamenti nazionali si apprestano a fare, ecco brevemente i profili sui quali esse dovranno intervenire.

Le tre norme coinvolte

Tre sono le norme coinvolte. La prima è la cosiddetta passivity rule , che richiede l’autorizzazione dell’assemblea della società target per l’adozione di misure di difesa nel corso dell’offerta (post-bid defences). La seconda è la cosiddetta breakthrough rule, che prevede l’inefficacia di alcune difese preventive (pre-bid defences) – ad esempio voti plurimi, limiti ai diritti di voto o al trasferimento di azioni, diritti speciali degli azionisti – nel corso dell’offerta o successivamente. Per entrambe queste norme, gli Stati membri possono decidere se prescriverne l’obbligatorio rispetto da parte delle proprie società; qualora optino per il no, alle singole società deve essere tuttavia riconosciuta la possibilità di una loro applicazione su base volontaria (il cosiddetto opting-in). In questo caso, la scelta compiuta dalla società può essere successivamente modificata. La terza disposizione riguarda la “clausola di reciprocità“: gli Stati membri possono decidere di permettere alle proprie società che applichino – per scelta propria o dell’ordinamento di appartenenza – la passivity rule e la breakthrough rule di sottrarsi a queste norme quando siano oggetto di un’offerta proveniente da un bidder non soggetto alle medesime regole.
Vale forse la pena di notare che su alcune di queste scelte la letteratura teorica è piuttosto critica, anche se non in modo univoco.
Alcuni paesi europei hanno già indicato e in alcuni casi definito (in Francia e nel Regno Unito, per esempio), gli orientamenti che i Governi intendono seguire. Quasi ovunque, le scelte sono state oggetto di ampio dibattito con consultazioni pubbliche. Così non sembra avvenire nel nostro paese, dove il processo di recepimento è tuttora avvolto da mistero. Le poche informazioni disponibili si rintracciano nella stampa quotidiana; secondo un articolo del Sole 24-Ore del 23 dicembre il ministero dell’Economia avrebbe predisposto una bozza di criteri di delega, inviata a un ristretto numero di soggetti.

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Tutto il potere agli statuti

Il filo conduttore sarebbe “il ricorso a un’ampia autonomia statutaria“. Gli statuti delle società potrebbero derogare alle disposizioni in materia di autorizzazione assembleare per le misure difensive: potrebbero cioè disapplicare la passivity rule. Ancora, sarebbe consentito agli statuti delle società introdurre regole di reciprocità: gli amministratori potrebbero quindi difendersi, anche senza il consenso degli azionisti, se l’offerta proviene da una società “meno contendibile”.
La distanza tra questa soluzione e quella ora definita delle norme del Testo unico della finanza è enorme; il segno complessivo della proposta diametralmente opposto. Passeremmo da un sistema in cui la passivity rule è norma imperativa, inderogabile, e la reciprocità assente – un sistema cioè in cui la disciplina del mercato del controllo societario ha come obiettivo primario quello della tutela degli azionisti esterni – a un sistema in cui questa finalità diventa recessiva rispetto ad altre.
Particolarmente critica per la tutela degli interessi degli investitori è la clausola di reciprocità. Perché il fatto che il bidder non sia contendibile dovrebbe rendere più vantaggioso per le minoranze azionarie attribuire agli amministratori la possibilità resistere in ogni caso all’offerta? Inoltre, la non contendibilità del bidder può dipendere da tanti fattori, anche diversi da quelli considerati per l’applicazione della clausola di reciprocità: l’essere una società non quotata, la presenza di azionisti che controllano la maggioranza assoluta dei diritti di voto; non si avrebbe comunque quel level playing field che la clausola intende garantire.
Più in generale, ha senso lasciare all’”autonomia statutaria” la scelta circa il grado di contendibilità della società? In mancanza di disposizioni specifiche, prevedere che spetti allo statuto significa rimettere la decisione nelle mani dei soci di controllo. Nonostante le innovazioni introdotte dal Testo unico della finanza ai quorum delle assemblee straordinarie, il controllante è infatti solitamente in grado di influenzare in modo decisivo anche queste assemblee.
La probabilità di una scelta “virtuosa”, orientata alla contendibilità, è quindi estremamente bassa. Lo è ancora di più qualora, come parrebbe dalle notizie di stampa, i criteri di delega intendessero prevedere – per le società che non si siano sottratte alla passivity rule – che l’assemblea deliberi sulle misure difensive con il solo voto delle minoranze. Intendiamoci, la norma è opportuna e va vista con favore. Ma, evidentemente, ha effetti nell’orientare le scelte del controllante: anticipando il rischio di essere poi estromesso dalla decisione nel corso dell’offerta, quest’ultimo sarà comunque indotto a escludere ex ante l’applicazione della passivity rule.
Occorre infine considerare che la scelta di rendere meno contendibile la società (attraverso l’esclusione dell’applicazione della passivity rule) riduce la probabilità di successo di un’offerta in cui essa sia il bidder (perché la società oggetto dell’offerta potrebbe invocare la clausola di reciprocità). A livello di sistema, ciò tende a ridurre il numero complessivo di possibili acquisizioni.
Vi è quindi il rischio di una deriva verso assetti ancora meno contendibili di quelli attuali. Potrebbe essere in qualche modo corretto dal mercato? Se ne può dubitare. È vero che la contendibilità è generalmente apprezzata, in termini di valore della società, dal mercato. Ma per essere efficace il “premio” dovrebbe essere così elevato da superare i benefici privati del controllo che motivano le scelte meno virtuose.

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Sommario 4 gennaio 2006

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Per un pugno di antivirali

  1. Stefano Verde

    Le difficoltà ed i dubbi che si paventano nel caso del recepimento italiano rappresentano un esempio di come la Tredicesima Direttiva, 2024/25/CE, nel suo testo definitivo e frutto del c.d. “Compromesso Portoghese”, non pervenga agli obiettivi stessi che la Commissione Europea si é posta da oltre quindici anni.
    Dopo avere fortemente inseguito una Direttiva sui takeovers, la scelta della Commissione di lasciare libertà ai Membri sul’adozione o meno delle più importanti norme per un mercato del controllo societario efficiente si rivela effetto del compromesso politico piuttosto che di un coerente progetto economico e legislativo. L’art. 12 del testo comunitario (che garantisce ai Membri tale libera scelta) priva quindi di forza l’intero disposto normativo, aumentando il rischio di un’eccessiva disparità tra le discipline nazionali in vigore ed, inoltre, scatenando un processo simile a quello che negli Stati Uniti ha aperto un cospicuo dibattito accademico sulla “regulatory competition”.
    Nella realtà d’oltreoceano alcuni dei punti più importanti in materia di normativa sulle scalate ostili sono di competenza del singolo stato e non dettati a livello federale, lasciando cosí lo spazio per una concorrenza sulla regolazione tra gli Stati. Chi riconosce in questo meccanismo un processo virtuoso verso la forma di regolazione più efficace sostiene la c.d. “race to the top”, al contrario i sostenitori della “race to the bottom” individuano nel meccanismo della regulatory competition uno strumento per introdurre normative sempre meno efficienti e sempre più lontane dal risultato finale desiderato.
    Ritornando al vecchio Continente la congiuntura internazionale e le prime reazioni degli Stati Membri al recepimento della Direttiva sembrano suggerire potrà prevalere una “race to the bottom”,più orientata cioé alla difesa della capacità economica nazionale che non alla promozione di uno strumento di governance come un efficiente mercato per il controllo societario.

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