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Decontribuzione: come e per chi?

Prodi si è impegnato a ridurre di cinque punti il cuneo fiscale nel primo anno di un suo eventuale Governo. Mancano ancora dettagli importanti sulla proposta, a partire dalle coperture e dalla platea di lavoratori a cui la decontribuzione dovrebbe essere applicata. L’analisi dei potenziali effetti della decontribuzione su competitività del paese, sistema previdenziale e finanza pubblica fa ritenere che l’intervento dovrebbe essere limitato solo ai percettori di bassi salari. Se così fosse, la manovra sarebbe interamente finanziabile con l’inasprimento della tassazione delle rendite finanziarie.

Romano Prodi ha annunciato pubblicamente che, qualora l’Unione vincesse le elezioni, l’azione di politica economica del suo Governo punterà ad abbassare il costo del lavoro fino a “5 punti percentuali nel primo anno”. È indubbiamente un’idea forte, che caratterizzerà la campagna elettorale dei prossimi mesi e la politica economica della prossima legislatura. Bene, dunque, dedicarle fin da subito la massima attenzione e sollecitare doverosi chiarimenti.

Gli effetti della decontribuzione

Il primo chiarimento è essenziale: ogni proposta che comporta aumenti della spesa pubblica (o riduzioni del gettito fiscale e contributivo) dovrebbe essere corredata da dettagli sulle coperture. Immaginiamo che questi dettagli verranno resi noti nel programma. Nella fattispecie non si tratta di un dettaglio trascurabile. Nel caso in cui la decontribuzione fosse estesa all’intera platea dei lavoratori subordinati, costerebbe attorno a 10 miliardi di euro, quasi un punto di Pil.
Questo ci porta direttamente al secondo quesito: si intende davvero ridurre i contributi per tutti i lavoratori dipendenti o solo per quelli con salari più bassi? Diverse ragioni ci fanno ritenere che solo un intervento limitato ai lavoratori con bassi salari sarebbe alla portata di un eventuale Governo Prodi. Proviamo a chiarire perché.
Gli effetti della decontribuzione vanno esaminati da almeno tre punti di vista: i) quello della competitività del sistema, ii) quello del sistema previdenziale, e iii) quello della finanza pubblica.
Partiamo dalla competitività del sistema. Nel breve periodo, a livelli salariali invariati, le imprese non possono che beneficiare di una riduzione del costo del lavoro. Questa riduzione aumenterà la competitività del paese, generando maggiori investimenti e maggiori assunzioni. Gli effetti sulla competitività nel medio periodo sono più incerti, in quanto è molto probabile che parte della riduzione dei contributi si trasformerà in aumenti salariali. I dati sul modo con cui l’offerta di lavoro reagisce a cambiamenti nel salario ci fanno ritenere che quest’effetto di traslazione della decontribuzione sarà relativamente forte per i lavoratori maschi in età centrali, caratterizzati da un’offerta di lavoro “rigida” e “stabile”. In sostanza, se l’obiettivo di politica economica è quello di aumentare la competitività nel medio-lungo periodo, la riduzione contributiva dovrebbe concentrarsi sui lavoratori meno stabili sul mercato del lavoro, quali le donne, i giovani, e i lavoratori a bassa produttività che spesso agiscono ai confini con il lavoro sommerso. Per questo tipo di lavoratori, una riduzione contributiva dovrebbe garantire una riduzione del costo del lavoro nel lungo periodo.

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Le conseguenze sul sistema previdenziale

Più problematici sono gli effetti della decontribuzione sul sistema previdenziale. A seguito della riforma Dini del 1995, il sistema pensionistico sta progressivamente diventando un sistema basato sul metodo contributivo, dove il valore della pensione ricevuta è strettamente collegato al valore dei contributi versati. Se una parte consistente del finanziamento della pensione dovesse passare alla fiscalità generale, si spezzerebbe il legame contributi-pensioni, quel meccanismo “assicurativo” che stava lentamente entrando nelle mentalità dei lavoratori italiani, responsabilizzandoli rispetto alle loro pensioni future e facendo loro percepire i contributi previdenziali non come una tassa, ma come un accantonamento per la vecchiaia. Il nuovo sistema pensionistico prevede, tuttavia, dei minimi, dei trattamenti minimi che andrebbero garantiti a coloro che andando in pensione si ritrovassero con quiescenze inferiori ai minimi di legge. Quindi l’unico modo per salvaguardare l’asse portante del nuovo sistema pensionistico consiste nel concentrare la decontribuzione su quei lavoratori che, percependo salari molto bassi, sono a forte rischio di ricadere nella platea dei beneficiari delle sole pensioni minime. Il tutto andrebbe fatto in modo molto trasparente offrendo ai lavoratori beneficiari della decontribuzione un quadro preciso di quanto guadagnerebbero in termini di pensioni future uscendo dalla zona di decontribuzione. Questo è molto importante anche per evitare che i lavoratori rimangano “intrappolati” in lavori a bassi salari.

Dove trovare dieci miliardi?

I problemi più grossi dell’operazione sono quelli legati alla finanza pubblica. Una decontribuzione estesa a tutti i lavoratori dipendenti costerebbe circa 10 miliardi di euro. Non crediamo possibile che nel primo anno di Governo si possano ridurre le spese, mediante tagli, per questa cifra. Bisognerà allora individuare 10 miliardi di nuove entrate. Dove? Le opzioni sono limitate: aumento dell’Iva, aumento dell’imposta sui redditi da capitale, o aumento dell’Ire. La tassazione dei redditi da capitale è coerente con un disegno di riequilibrio della tassazione di lavoro e capitale, ma è bene ricordare che le stime esistenti suggeriscono che una manovra che uniformasse le aliquote sui redditi di capitale al 23 per cento frutterebbe attorno ai 3 miliardi di euro. Dove si troveranno gli altri 7 miliardi? Una opzione potrebbe essere quella di annullare il secondo modulo della riforma fiscale del Governo Berlusconi, che ammontava a circa 6 miliardi di euro e di cui nessuno sembra essersi accorto. Ma in televisione Prodi ha escluso di volerlo fare. Rimane la possibilità di agire sull’Iva, aumentandone l’aliquota. Una simile proposta era nel programma di Angela Merkel, ma le aliquote tedesche sono inferiori a quelle italiane. E si rischierebbe di alimentare l’inflazione. Chiaramente, tutti questi problemi sarebbero molto più limitati nel caso di decontribuzione circoscritta ai soli lavoratori con bassi salari: costerebbe tra i 2 e i 3 miliardi di euro, a secondo della definizione dell’area di esenzione. Sarebbe quindi interamente finanziabile con l’inasprimento della tassazione delle rendite finanziarie.
Riteniamo pertanto che le tre dimensioni più rilevanti su cui va giudicata la manovra – competitività, previdenza e finanza pubblica – forniscano tutte argomenti per limitare la decontribuzione soltanto ai percettori di salari bassi.
Ci auguriamo allora che sia proprio questa lettura della decontribuzione quella che verrà resa nota al momento della presentazione del programma della coalizione.

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17 commenti

  1. Ugo Celauro

    Per evitare gli atti d’imperio in materia di prelievo fiscale mediante imposte, sarebbe consigliabile che questa potestà fosse sottratta al Parlamento ed affidata ad un Ente estraneo alla politica, con competenza specifica per assicurare il rispetto della effettiva capacità contributiva dei cittadini.
    Sembra chiaro che non sia possibile proporre qualsiasi aliquota per qualsiasi tipo di ricchezza se non si lavora prima ed in modo serio alla realizzazione dell’art. 53 della Costituzione.
    E questo impone che si trovi un metodo di comparazione tra reddito e patrimonio per ottenere un unico ammontare di ricchezza imponibile.

  2. Maurizio Benetti

    Sorprende che anche autori come Boeri e Garibaldi incorrano in errori non marginali quando affrontano temi legati al sistema previdenziale. Secondo loro la diminuzione delle aliquote contributive non avrebbe particolari effetti solo sui lavoratori a basso salario dato che sarebberero comunque coperti da trattamenti minimi. L’integrazione al minimo delle pensioni non è prevista nel sistema contributivo, sistema al quale appartengono pressochè tutte le figure di lavoratori precari e/o a basso reddito.
    La possibilità di percepire per un massimo di 1/3 la pensione sociale (senza le integrazioni) non sostituisce il valore dell’attuale trattamento minimo.
    Una diminuzione della contribuzione per i lavoratori a basso salario aggraverebbe pertanto le loro già misere aspettative previdenziali.
    Una decontribuzione riservata solo a questi lavoratori, inoltre, accentuerebbe ancora di più la forte divaricazione contributiva esistente nel mercato del lavoro favorendo ulteriormente la spinta da parte delle imprese versi le tipologie di lavoro con minore carico contributivo, cosa che dubito abbia effetti positivi sulla produttività.
    Si dovrebbe tendere,invece, a rendere più simili le aliquote contributive e con questo avvicinamento (aumento contributivo per autonomi e parasubordinati) si potrebbe trovare una parziale copertura della decontribuzione fatta sui lavoratori dipendenti.
    Certo si spezzerebbe il legame tra contribuzione e pensione, ma un sistema pensionistico che promette pensioni da fame a una percentuale non marginale dei lavoratori va ripensato o no?

    • La redazione

      Le pensioni minime rimangono in vigore per tutti i lavoratori nel regime misto. Dopo varranno comunque dei minimi sociali pagati dalla fiscalità generale. La cosa viene implicitamente riconosciuta dall’articolo 20 della riforma laddove si sostiene il diritto alla pensione si consegue al compimento del cinquantasettesimo anno di eta’, “a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell’assicurato almeno cinque anni di contribuzione effettiva e che l’importo della pensione risulti essere non inferiore a 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale”. cordiali saluti

  3. Massimo Marnetto

    Concordo con la necessità di selezionare l’intervento decontributivo, anche per il messaggio riequilibrante – e quindi politico – che avrebbe.
    Circa le coperture, vedo margini significativi nel recupero dell’evasione fiscale, anche se è noto che questa azione ha due limiti: la non quantificabilità delle entrate e la necessità di tempi medi per produrre i primi effetti.
    Entrambi questi elementi di incertezza la rendono inopponibile alla certezza di una spesa come quella in questione.
    Tuttavia, una relazione tra i due provvedimenti non può dirsi arbitraria e quindi – con le cautele predette – penso sia spendibile.
    Con l’ulteriore vantaggio di un rinforzo reciproco dei due provvedimenti, nella linea di una decisa inversione di tendenza prodiana, verso una maggiore giustizia fiscale. E quindi, sociale.

  4. Riccardo Puglisi

    Le proposte di Boeri e Garibaldi a proposito del modo di attuare la decontribuzione mi sembrano fattibili e convincenti.
    Comprendo i problemi di compatibilità con il regime previdenziale di tipo contributivo, ma una soluzione possibile mi sembra la seguente: se la decontribuzione dei salari più bassi è finanziata con tasse più alte sulle rendite finanziarie, si potrebbe specificare che questo contributo aggiuntivo va direttamente a finanziare il monte contributivo di questi lavoratori.
    A prescindere dal fatto che questi lavoratori siano vicini al trattamento minimo di cui discutono Boeri e Garibaldi.
    E’ vero che in questo modo si inserisce un elemento non del tutto omogeneo con il sistema previdenziale contributivo, ma si tratta di un elemento che da un lato è trasparente dal punto di vista contabile, e dall’altro è piuttosto coerente con una politica concreta di solidarietà sociale.
    Riccardo Puglisi

  5. Massimo Sainati

    E’ ovvio che faccio riferimento ad elementi complessi che sicuramente faranno parte di altri contributi, supportati da qualche elaborazione econometrica.
    Però forse sarebbe stato interessante sin da subito dire qualcosa di più sugli indubbi aspetti positivi di una tale manovra, tanto sul lato dell’offerta come della domanda.
    Mentre del primo aspetto viene fatto cenno, il secondo non compare. E’ logico aspettarsi un relativo o considerevole effetto positivo data l’alta propensione al consumo dei salariati a basso reddito, derivante dai soli nuovi assunti qualora la decontribuzione andasse a solo vantaggio delle imprese, dalla totalità dei salariati a basso reddito qualora parte della decontribuzione fosse a vantaggio degli stessi.
    In ogni caso, combinando gli effetti positivi sull’offerta e quelli sulla domanda, di tante manovre che vengono spacciate come capaci di autofinanziarsi, forse questa sarebbe capace di non andarci tanto lontano, soprattutto qualora per la sua entità ricercasse un effetto di “shock” sul sistema.
    Ma è necessario avere qualche dettaglio in più.
    Grazie per il contributo di tutti Voi al ns paese.

  6. Giovanni Galli

    Come detto da Boeri e Garibaldi con il nuovo sistema previdenziale i contributi previdenziali non rappresentano una vera e propria tassa, ma un accantonamento per la vecchiaia. La decontribuzione, se non compensata da una crescita delle retribuzioni (ma in questo caso non vi sarebbero effetti sul costo del lavoro), equivale in realtà ad una riduzione del salario reale percepito dai lavoratori (anche se differto nel tempo).
    Ma vogliamo veramente ridurre i salari?
    Sono comunque perfettamente d’accordo sull’abolizione del secondo modulo della riforma fiscale del governo Berlusconi per ridare maggiore progressivita al sistema fiscale.

    • La redazione

      Grazie del contributo. La decontribuzione per questi lavoratori non si accompagnerebbe ad una riduzione delle loro pensioni future, dato l’operare dei minimi.

  7. Pietro Rizza

    Il legame tra contributi versati e pensione percepita non va spezzato (altrimenti, per favore, cambiamo la Dini). Io dividerei la riduzione del cuneo fiscale nel seguente modo: 2% in meno per le imprese, 3% in meno per i lavoratori (tutti). I contributi del lavoratore non vanno in busta paga. Vanno, invece, in un fondo pensione. Se il fondo rende il 4,5% all’anno e il PIL cresce al 2%, la pensione del lavoratore sarà la stessa di oggi.

    • La redazione

      E’ un’altra riforma, ma sicuramente da studiare. Ricordiamoci comunque che la ripartizione dei contributi stabilita per legge può trasformarsi in una ripartizione molto diversa. Conta il potere contrattuale delle due parti o, più in generale, il modo con cui domanda e offerta reagiscono alla decontribuzione. Cordiali saluti

  8. nicola s.

    Un progetto di decontribuzione credo vada considerato come parte integrante di un più ampio progetto di remix pubblico-privato delle pensioni, utilizzando il TFR e con il sostegno di coerenti riforme del sistema impositivo (quello specifico della previdenza e quello generale). Temo, infatti, che interventi senza respiro sistemico continueranno a generare “coperte troppo corte”. Vedrei necessario puntare il più possibile alla costruzione di una nuova base strutturale, completa e organica. Grazie e saluti.

  9. carlo borzaga

    Concordo pienamente con la propposta di Boeri e Garibaldi di privilegiare interventi di decontribuzione selettiva. Mi convince meno la resistenza a fiscalizzare questi contributi: non credo infatti che una decontribuzione così limitata rischi di sganciare la pensione dai contributi versati.
    Non mi pare tuttavia che la scelta di concentrarsi sui lavoratori a basso reddito sia l’unica possibile nè forse la più efficace. In alternativa proporrei di prendere in considerazione di riservare la decontribuzione ai lavoratori dei servizi che hanno un contenuto elevato di interesse collettivo, da quelli di cura a quelli culturali, ecc. per i quali esiste una domanda privata e pubblica che stenta ad emergere come domanda pagante perchè i costi sono elevati a seguito non tanto di elevati salari lordi, ma degli oneri indiretti e per i quali è impossibile puntare su aumenti della produttività. Questa scelta avrebbe diversi vantaggi: una buona parte dei posti di lavoro sarebbe aggiuntiva e a favore della componente femminile, contribuendo a innalzarne il tasso di occupazione; si verrebbero a coprire alcune delle lacune del nostro sistema di welfare di cui vi è crescente consapevolezza; si incentiverebbe la regolarizzazione di lavoro sommerso ormai ampiamente diffuso anche in questo tipo di servizi;grazie all’aumento netto di occupazione che ne deriverebbe l’intervento sarebbe in parte autofinanziato.
    La proposta non è del tutto alternativa a quella degli autori perchè spesso in questi settori i salari sono anche bassi, non andrebbe ad accrescere la competitività del sistema Italia (se non im modo indiretto), ma avrebbe il vantaggio di dare qualche risposta anche ad altri problemi.

  10. Silvano Succi

    Perché diminuire il costo del lavoro attraverso la decontribuzione quando il nostro livello di costo del lavoro è già molto competitivo all’interno dell’ area euro?
    E’ dall’introduzione dell’euro che siamo in questa condizione, ma quali sono stati gli effetti positivi? Quante sono le aziende dell’area euro che hanno investito in Italia?
    La decontribuzione sarebbe un semplice regalo di utili per le aziende che vanno già bene e un aiuto insufficiente per quelle che vanno male.
    Se poi fosse sottoforma di calo dei contributi a carico dei dipendenti si trasformerebbe nel medio periodo in una compressione delle retribuzioni.

  11. antonio di giovanni

    Mi sembra che la proposta di decontribuzione vada spiegata come un paliativo per la nostra economia perchè rientra nel filone dell’abbassamento del costo del lavoro non selettivo. Passi per la parte che riguarderebbe il recupero di potere d’acquisto dei lavoratori, ma io mi chiedo se non è un modo di investire denaro pubblico in modo omnidirezionale e dispersivo, cioè dandolo anche a quelle aziende alle quali, dovendo subire concorrenza asiatica, si allunga solo un po’ l’agonia: ma la loro sorte non si può invertire. Non si potrebbe adottare una “decontribuzione selettiva” per le aziende che hanno un minimo di futuro e il resto delle risorse convogliarlo in una riqualificazione del sistema produttivo? Perchè se la decontribuzione non è accompagnata da questo credo che sia solo un’illusione.
    Cordiali saluti

    • La redazione

      Siamo soltanto in parte daccordo con lei. La riqualificazione del sistema produttivo passa per maggior concorrenza e maggiore investimento in capitale umano e ricerca.

  12. riccardo boero

    Egregi professori,
    trovo inspiegabile che nelle modalità di finanziamento prospettate non compaia un inasprimento radicale della tassa sugli immobili ad uso seconda casa. Il proprietario di una residenza secondaria è invariabilmente un individuo agiato, che ha scelto di sottrarre somme a volte colossali all’investimento produttivo, congelandole in beni che degradano l’ambiente, senza essere disponibili per chi cerca un primo alloggio, e a volte utilizzate una settimana all’anno.
    Inoltre i redditi cosi’ ottenuti sarebbero immensamente superiori a quelli ottenuti dalle rendite finanziarie.
    Qual è dunque la causa della vostra voluta omissione? Semplice negligenza (non credo) Interesse personale (non credo), legami dell’Ulivo con gruppi immobiliari, errata percezione della proprietà immobiliare della base elettorale dell’Ulivo, posizionamento dell’Ulivo a tutela dei proprietari a discapito dei redditi da investimento?
    Potreste illuminarmi?
    Distinti saluti

    • La redazione

      Indubbiamente il patrimonio immobiliare italiano rappresenta una ricchezza praticamente immobilizzata e non direttamente collegata al processo produttivo.
      Una delle grandi sfide di politica economica e’ proprio quella di trovare il modo per rendere disponibile al sistema produttivo in senso lato quell’immensa ricchezza. La proposta da lei suggerita (inasprimento tassa sugli immobili ad
      uso seconda casa) e’ affascinante ma temiamo che sia terribilmente facile da eludere. E’ sufficiente inventare un affitto fittizio ad un amico/parente/cugino. Ad ogni modo sarebbe interessante studiare quanto renderebbe all’erario un’iniziativa simile a quella da lei suggerita.

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