L’otto marzo è la festa delle donne. Nonostante la crescita dei livelli di istruzione, le donne continuano ad essere meno pagate degli uomini e con minori opportunità di carriera. Nel lavoro familiare, le donne sono sempre più oberate di lavoro con scarsi aiuti da parte dei coniugi e del sistema pubblico. Nel Sud d’Europa queste difficoltà di conciliare lavoro e famiglia si traducono nella
scelta di avere meno figli o a rinunciare del tutto al mercato del lavoro.

Un lavoro poco condiviso, di Linda Laura Sabbadini

I dati del Rapporto annuale dell’Istat sulle famiglie mostra come il modello di condivisione delle responsabilità familiari stia cambiando anche se lentamente e per effetto delle strategie delle donne, più che degli uomini.

Il tempo delle donne

Le donne, soprattutto quelle con figli, continuano a essere sovraccariche di lavoro familiare. Negli ultimi anni, però, hanno fatto fronte alla difficoltà di conciliare il lavoro e i tempi di vita comprimendo il tempo dedicato al lavoro familiare e operandone una redistribuzione interna: dedicando più tempo ai figli, e riducendo l’impegno nei servizi domestici. Qualche cambiamento, seppure di minore entità, si osserva anche nell’universo maschile. Aumenta solo di qualche punto percentuale il numero di uomini (mariti o partner) che aiutano nel lavoro familiare e cresce anche la durata media delle attività svolte per la famiglia (anche se soltanto di 16 minuti e soprattutto nel lavoro di cura dei figli).
Nell’arco di quattordici anni l’asimmetria dei ruoli si riduce, ma più per la riduzione del tempo dedicato al lavoro familiare dalle donne, che per il maggiore coinvolgimento degli uomini. Più lavoro di cura per i bimbi da parte di madri e padri, ma anche dei nonni e soprattutto delle nonne e più in generale delle reti di aiuto informale che, sostenute in particolare dalle donne, continuano a essere fondamentali per la soluzione dei principali bisogni non soddisfatti o dell’assistenza dei soggetti più vulnerabili.

Chi aiuta le famiglie

Il numero dei care giver negli ultimi anni è cresciuto, ma le famiglie aiutate sono diminuite. La riduzione è generalizzata e ha riguardato soprattutto le famiglie con anziani con l’eccezione delle famiglie con persone con gravi problemi di autonomia e di quelle con bambini (tra 0 e 13 anni) e madre occupata. Ciò è avvenuto perché anche le reti di solidarietà soddisfano i bisogni emergenti con modalità diverse: non solo selezionando le famiglie destinatarie dell’aiuto a favore di quelle più bisognose, ma anche contraendo il tempo complessivamente dedicato alle varie attività e condividendo l’aiuto con altre persone.
L’unico tipo di aiuto informale per cui cresce il volume di ore è quello relativo alla cura dei bambini, non a caso svolto soprattutto da donne, che passa da un totale di 83 milioni di ore al mese nel 1998 a 101 milioni nel 2003. Il sostegno rivolto alle famiglie con bambini con madre che lavora proviene, dunque, in larghissima misura dalla rete informale (33 per cento) e, invece, in misura molto limitata dal servizio pubblico (2 per cento), e anche dal privato (13,9 per cento). Negli ultimi cinque anni i bambini che frequentano il nido sono aumentati del 15 per cento, ma solo il 56,6 per cento dei bambini frequenta una struttura pubblica. La domanda del servizio di asilo nido è stata soddisfatta prevalentemente dalle strutture private, con elevati costi a carico soprattutto delle donne che lavorano, che sono quelle che in maggioranza usano i nidi. Le donne che lavorano e hanno bambini piccoli emergono come un particolare segmento dai bisogni non soddisfatti: ancora non sufficientemente sostenute dal proprio partner e dalle strutture pubbliche, si avvalgono fondamentalmente del supporto informale e in piccola parte del privato.
La situazione dei servizi sociali pubblici per l’infanzia è tale da scoraggiare l’offerta di lavoro delle madri: secondo l’indagine Forze di lavoro 524mila donne attualmente inattive sarebbero disponibili a lavorare e 160mila a passare da part time a full time se fosse disponibile una adeguata diffusione di strutture e servizi a sostegno delle famiglie.

L’arduo incontro tra donne e lavoro, di Chiara Saraceno

A prima vista, i dati presentati ieri dall’Istat sulle tendenze nel mercato del lavoro nel quarto semestre 2004 e per il periodo 2003-2004 delineano un quadro positivo. Il tasso di occupazione è stabile. Vi è stata una vistosa diminuzione delle persone in cerca di occupazione (-4,3 per cento) e, molto più contenuto, del tasso di disoccupazione (-0,4 per cento). Soprattutto, la diminuzione delle persone in cerca di occupazione e del tasso di disoccupazione ha riguardato il Mezzogiorno (-8,5 per cento delle persone in cerca di occupazione, -1,1 per cento del tasso di disoccupazione). Un ottimo segno, si direbbe, anche se il tasso di disoccupazione in queste Regioni continua a riguardare il 15 per cento delle forze di lavoro, a fronte del 4,3 per cento del Nord e del 6,5 per cento del Centro.

Donne al Sud

C’è tuttavia poco da essere ottimisti. L’occupazione ha praticamente smesso di crescere. E la diminuzione sia della offerta di lavoro che della disoccupazione è pressoché tutta dovuta alla diminuzione del tasso di attività, in particolare delle donne e in particolare nel Mezzogiorno, dove le donne in cerca di occupazione sono diminuite lo scorso anno del 12 per cento. Continua quindi a indebolirsi il fattore che dal 1998 maggiormente aveva contribuito all’innalzamento del tasso di occupazione nel nostro paese, ma che già dal 2001 aveva cominciato a dare segni di cedimento, come si evince dal grafico. Siamo di fronte a una vistosa modifica delle preferenze delle donne, in particolare meridionali, una quota crescente delle quali non sarebbe più interessata a entrare nel mercato del lavoro, nonostante l’aumento dell’istruzione? Non credo. Sono piuttosto le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno, unite alla mancanza di servizi adeguati per favorire la conciliazione tra lavoro remunerato e responsabilità familiari, a spiegare in larga misura questo fenomeno, che è in controtendenza sia con quanto avviene nelle altre Regioni, sia con gli obiettivi europei. Tra le giovani donne meridionali (15-24 anni) in cerca di lavoro il tasso di disoccupazione tocca il 44,6 per cento (32 per cento tra i loro coetanei), contro il 17,7 per cento del Nord e il 25,9 per cento del Centro. La disoccupazione femminile di lunga durata nel Mezzogiorno riguarda il 12,2 per cento delle disoccupate, il doppio di quella maschile nelle stesse Regioni, due volte e mezza quella media nazionale per le donne, sette volte quella delle donne nel Nord-Est (1,7per cento). Se le donne meridionali ricominciano a non presentarsi più sul mercato del lavoro, non è perché non lo desiderino o non ne abbiano bisogno. Piuttosto perché le chance di trovare una occupazione – anche nella definizione “larga” utilizzata dall’Istat come da tutti gli organismi internazionali (aver fatto almeno un’ora di lavoro remunerato nell’ultima settimana) – sono troppo scoraggianti.

I lavori a termine

Anche i dati sulla occupazione a tempo parziale e sulle occupazioni dipendenti a termine confermano la problematicità delle tendenze nel mercato del lavoro in generale e per quanto riguarda il Mezzogiorno e le donne. Su base annua, la buona notizia è che il lavoro dipendente a termine è diminuito del 3,1 per cento. Ma questo calo ha riguardato quasi esclusivamente gli uomini, così come ha riguardato esclusivamente loro la diminuzione del lavoro dipendente a tempo parziale, che viceversa è aumentato tra le donne, ma esclusivamente nel Centro-Nord. In altri termini, aumenta, di poco e con differenze territoriali, l’occupazione maschile a tempo pieno e indeterminato. L’occupazione femminile invece, là dove non diminuisce, rimane più facilmente in contratti temporanei e/o a tempo parziale. Le lavoratrici a tempo parziale sono ormai il 24,7 per cento del totale dei lavoratori dipendenti. Ma nel Mezzogiorno, neppure la possibilità di ricorrere a contratti a tempo determinato e/o parziale sembra incoraggiare la partecipazione femminile. Insieme a quelli sulla stabilità del tasso di occupazione complessiva, questi dati segnalano anche che la pluralizzazione dei modelli orari e delle forme contrattuali dal pacchetto Treu in poi, ha esaurito la propria efficacia.
Secondo le stime presentate dall’Istat sono oltre due milioni i lavoratori con una occupazione principale “non standard” (il 9 per cento circa di tutti gli occupati): lavoratori interinali, altri lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, prestatori d’opera occasionali, collaboratori coordinati e continuativi. Si tratta di una popolazione fortemente eterogenea, la cui incidenza sul totale degli occupati è rimasta stabile nell’ultimo anno.
Il gruppo più problematico, e dai contorni contrattuali più indefiniti, è quello dei collaboratori coordinati e continuativi. (1) Essi costituiscono l’1,8 per cento di tutti gli occupati e il 6,4 per cento dei lavoratori autonomi. Meno numerosi di quanto comunemente si ritenga (ma in linea con le stime di molti studi, incluso quello recente del Cnel), oltre la metà è concentrata nel Nord, in particolare nel Nord-Ovest. Nel Mezzogiorno si trova solo il 18 per cento dei collaboratori. Sono inoltre concentrati tra le donne (61 per cento di tutti i co.co.co nel quarto trimestre 2004) e i giovani al di sotto dei 34 anni (51,5 per cento di tutti i co.co.co nel quarto trimestre 2004). Si tratta di una forza lavoro istruita, occupata per lo più nel terziario. Soprattutto, sembra trattarsi di una forma di lavoro alle dipendenze di tipo mascherato, piuttosto che di lavoro autonomo. Quindi non è dissimile dai contratti di lavoro alle dipendenze a tempo determinato, ma con minori protezioni sociali. La mono-committenza, infatti, riguarda circa il 90 per cento dei co.co.co, che nell’83 per cento dei casi lavorano nei locali dell’azienda e in oltre il 60 per cento dei casi non decidono del proprio orario di lavoro. Queste caratteristiche, di nuovo, riguardano più le donne che gli uomini, i giovani che gli adulti, le persone residenti nel Mezzogiorno. La legge Biagi, trasformando i co.co.co in lavoratori a progetto ha contestualmente ridotto la possibilità di rinnovare all’infinito questo tipo di contratti. L’obiettivo, condivisibile, è di facilitarne la trasformazione in contratti di lavoro dipendente a tempo determinato: altrettanto precari dal punto di vista della sicurezza lavorativa, ma almeno con maggiori protezioni dal punto di vista previdenziale. È da vedere se invece non sia stata incoraggiata la loro trasformazione in titolari di partita Iva e in prestatori d’opera occasionali. Dovremo aspettare i dati del 2005 per fare una prima valutazione.

(1) Vedi anche A. Accornero, Nuovi lavori e rappresentanza, in Diritto delle relazioni industriali, 1, XV, 2005, anche all’indirizzo http://www.csmb.unimo.it/adapt/bdoc/02_05/Accornero.pdf

C’è poco da festeggiare, di Alessandro Magnoli

Nel mondo, più di cento milioni di donne mancano all’appello, quasi fossero scomparse nel nulla. (1) L’inquietante fenomeno è portato alla luce dall’analisi di un semplice indice statistico: la composizione demografica della popolazione. In teoria, infatti, gli individui di sesso femminile dovrebbero costituire, più o meno, il 52 per cento di ogni popolazione. (2) In pratica, tale proporzione non ha riscontro nelle statistiche internazionali: mentre le donne costituiscono il 52,5 per cento della popolazione nel mondo industrializzato, ammontano solo al 51 per cento nell’Africa sub-sahariana, a meno del 48 per cento in Asia dell’Est e a meno del 47 per cento in Asia del Sud. Cosa è successo a queste donne? Perché ne mancano cento milioni? La risposta suona purtroppo sinistra: alta mortalità femminile. (3)
Le cause di questo fenomeno, come sempre, sono molteplici e altamente correlate tra loro.

Abusi e condizioni sfavorevoli

In quasi tutti i paesi, l’eccesso di decessi si deve, per lo più, alla difficile condizione della donna. In alcune aree dell’Asia si pratica la selezione sessuale: si eliminano le bambine tramite aborto e infanticidio. In tutto il mondo in via di sviluppo l’abuso del sesso maschile sul femminile è caratteristica comune, e va dalla violenza, fisica e psichica, alla vessazione sessuale. I motivi sono i più disparati: la dote, la gestione della casa, o l’educazione dei figli. Inoltre, le donne hanno scarso accesso non solo ai metodi anticoncezionali, ma anche alle cure minime e necessarie alla gestazione, una volta incinte; ne risulta un’alta mortalità legata alla maternità. Infine, le donne sono particolarmente vulnerabili a problemi – quali la malnutrizione e le malattie a trasmissione sessuale, ampiamente ignorati o considerati tabù dalla maggioranza dei Governi.
In generale, lo status delle donne è influenzato da un coacervo di fattori biologici, sociali e culturali che sono altamente interrelati. In varie nazioni in Africa, Asia del Sud, America Latina e Medio Oriente, una ragazza su quattro si sposa prima del suo quindicesimo compleanno. In svariati paesi, tra un terzo e metà delle donne sono madri prima di raggiungere il ventesimo anno di età. Ovunque, il sesso femminile riceve meno informazioni del sesso maschile e ha un minor controllo dei processi decisionali e delle risorse della famiglia. In poche parole, le donne si trovano in una posizione di handicap sociale, che è spesso connessa al valore economico dei ruoli familiari. In un circolo vizioso, le maggiori conseguenze che ne seguono sono educazione insufficiente, alimentazione inadeguata, gravidanze precoci e frequenti, e salute precaria.

Investire sulle donne

Politici, economisti e sociologi non sono quasi mai d’accordo. Ma in questo campo lo sono, e per tutti, l’obiettivo è chiaro: bisogna migliorare la condizione della donna. Nel 1995, la Dichiarazione di Pechino, ultima tra le tante, ha sancito il principio politico dell’uguaglianza dei sessi come base per lo sviluppo e la pace. (4)
Le donne costituiscono la metà (dimenticata) della popolazione mondiale, e la loro inclusione sociale porterebbe benefici a tutti. In campo economico, ricerche empiriche hanno dimostrato che donne e ragazze lavorano più degli uomini, investono i loro risparmi nei loro figli, e si assumono la responsabilità della famiglia. Senza di loro, uomini e bambini avrebbero gravi difficoltà a sopravvivere e a essere produttivi. Infine, se alle donne fosse concesso un maggior potere nella gestione di comunità e società, molte cose cambierebbero (radicalmente), tra le quali i trend demografici, con conseguenze significative su crescita economica e sostenibilità ambientale. Insomma, le donne sono importanti come individui, come produttori e consumatori, e come agenti di cambio sociale. È ora di prestar loro più attenzione. Una quantità ormai innumerevole di studi ha dimostrato che gli investimenti nell’educazione e salute delle donne conducono a una crescita economica sostenibile. Elevati standard sanitari permettono alle donne una vita pienamente produttiva, con ampi benefici per l’economia nazionale. In particolare, la salute delle donne ha un importante impatto sulla salute e sulla produttività delle generazioni future. L’educazione femminile ha effetti rilevanti su ogni dimensione dello sviluppo, dal miglioramento dei risultati scolastici dei figli e delle figlie alla maggiore produttività, alla accresciuta capacità di gestione ambientale.
Insieme, tutti questi fattori possono significare una crescita economica più rapida e, cosa altrettanto importante, una più amplia distribuzione dei frutti della crescita e un aumento della coesione sociale. Un miglioramento della condizione della donna è dunque, condizione necessaria per politiche di sviluppo più efficaci. Le politiche pubbliche devono essere ripensate tenendo conto delle necessità del sesso femminile, per creare nuovi servizi sociali per la donna e migliorare la qualità di quelli esistenti. È arrivato il momento di spendere per lo sviluppo delle donne, perché son soldi ben spesi.
Nei paesi in via di sviluppo i problemi relativi alla salute e all’educazione delle donne rappresentano, in termini strettamente economici, un’opportunità: sono investimenti altamente cost-effective, e ridirigere la spesa pubblica verso questi interventi migliora l’efficienza allocativa. In parole semplici, con pochi soldi si risolvono molti problemi: si migliora l’uso delle risorse e si aumenta il benessere di tutti.

Per saperne di più

Sen, Amartya (with contributions by John Muellbauer, Ravi Kanbur, Keith Hart, Bernard Williams), 1987, “The Standard of Living”, Edited by Geoffrey Hawthorn, Cambridge University Press, Cambridge.

(1) Secondo i calcoli di Amartya Sen, 1987. Per dettagli, si veda: http://www.unifem.org/

(2) Si tratta di una costante biologicamente determinata. Da un lato, nascono più donne che uomini. Dall’altro, le donne vivono di più: a parità di condizioni, alla nascita la speranza di vita di una donna è 1,03 volte quella di un uomo (le donne vivono il 3 per cento in più).

(3) Nella composizione femminile della popolazione una parte della differenza può essere causata da errori nel censimento e dagli effetti di movimenti migratori.

(4) Nel 1995, a Pechino, la Fourth World Conference on Women adottò la “Dichiarazione e strategia di Pechino” (Beijing Declaration and Platform for Action). Per maggiori informazioni, si veda: http://www.un.org/womenwatch/. Per approfondimenti in italiano e per il testo integrale, si veda: http://www.onuitalia.it/calendar/pechino.html

Il mistero delle donne mancanti e l’8 marzo, di Francesco Daveri e Fausto Panunzi

Alessandro Magnoli, nel suo articolo “C’è poco da festeggiare”, riporta una nota osservazione di Amartya Sen. Nel 1992, in un articolo sul British Medical Journal, Sen osservò che la proporzione di donne sul totale della popolazione nei paesi dell’Asia Sud-orientale (soprattutto in Cina e India) era troppo bassa per essere semplicemente il risultato di sottostanti andamenti demografici. Sulla base delle sue valutazioni, infatti, circa 100 milioni di donne asiatiche mancavano all’appello “demografico”. Le cause del fenomeno secondo Sen non erano biologiche, ma sociali: in contesti in cui una figlia femmina “vale meno” di un figlio maschio, la diffusione dell’aborto selettivo porta ad un’accresciuta pratica discriminatoria alla nascita nei confronti delle potenziali figlie femmine. Da allora, il “mistero delle donne mancanti” è stato un po’ ridimensionato quantitativamente, ma non qualitativamente. Governanti e studiosi lo hanno considerato un esempio palese di discriminazione nei confronti delle donne, in aggiunta ad altri meccanismi legati all’istruzione, alla sanità e alla distribuzione dei rapporti di forza all’interno delle famiglie.

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Dopo tanti anni, però, di recente, Emily Oster, una studentessa di Ph.D. di Harvard, ha proposto una semplice spiegazione del mistero delle donne mancanti di Sen, portando all’attenzione di tutti due aspetti ignorati in precedenza dal dibattito sull’argomento. Primo, le donne asiatiche si ammalano più frequentemente di epatite B rispetto alle donne di altri paesi. Secondo, le portatrici di epatite B hanno una probabilità molto più elevata delle altre di dare alla luce un figlio maschio. Se si mettono insieme questi elementi, si ottiene una potenziale soluzione del mistero: un’elevata proporzione del numero di “donne mancanti” in Asia può essere attribuita all’epatite B. I risultati della Oster mettono insomma in luce che , al contrario di quanto affermato da Sen, la soluzione del mistero delle donne scomparse ha anche (in alcuni paesi, prevalentemente) una natura biologica.

Ci sono tante ragioni per cui le donne di tutto il mondo possono oggi solo festeggiare a metà. Ma la “scomparsa” di milioni di donne in Asia è solo parzialmente dovuta alla discriminazione sessuale. Solo una più attenta valutazione dei fenomeni biologici nella spiegazione dei fenomeni sociali può migliorare le previsioni degli scienziati sociali.

Il fisco e le donne, di Marco Leonardi

La Legge finanziaria di quest’anno prevede una riduzione generalizzata delle aliquote marginali. Sarebbe più utile una riduzione mirata delle imposte sul reddito al fine di affrontare alcuni dei problemi più importanti del nostro paese.
La riduzione fiscale a vantaggio delle famiglie a basso reddito con figli carico in cui entrambi i genitori lavorano dovrebbe essere al centro della riforma dell’Irpef. Il fisco è infatti un tassello essenziale per costruire un welfare che sappia conciliare famiglia e lavoro. Attraverso i risparmi fiscali, la riforma dovrebbe prevedere sostanziali incentivi alla partecipazione alla forza lavoro del secondo componente della famiglia, normalmente la moglie.

Basso tasso di occupazione femminile e bassa fertilità sono due dei principali problemi che incidono negativamente sul tasso di crescita del nostro paese. Il tasso di occupazione femminile in Italia è del 42,7 per cento sulla popolazione attiva, contro la media europea del 55,1 per cento. Il vertice di Lisbona del marzo 2000 ha fissato l’obiettivo di portare il tasso di occupazione femminile al 60 per cento entro il 2010. Per l’Italia, significa un aumento del tasso di occupazione femminile del 17-18 per cento, ovvero diversi milioni di donne occupate in più. Le prospettive di crescita dell’occupazione italiana sono dunque affidate alla componente femminile. (1)
Un problema strettamente correlato alla bassa occupazione femminile è la bassa fertilità delle donne italiane. Il tasso di fertilità delle famiglie italiane è fermo a 1,2 figli per coppia, ben lontano dal tasso di rimpiazzo della popolazione (2,1 figli per coppia) e dall’1,9 della Francia, 1,7 di Inghilterra e 2,1 degli Stati Uniti.
Il 30 per cento delle donne italiane non torna al lavoro dopo la maternità perché la cura dei figli assorbe la maggior parte del loro tempo. Fuori dal mercato del lavoro, le donne non sono in grado di mantenere le loro capacità professionali: più ne stanno lontano, più è difficile per loro tornare a un’occupazione permanente. Inoltre, troppo spesso il ritorno al lavoro stabile è poco conveniente dal punto di vista economico perché tutto il loro stipendio finisce in tasse o in babysitter. Questa è la ragione per cui molte donne si ritirano dalla forza lavoro dopo la maternità o cadono nel lavoro sommerso.

L’imposta negativa

Gli incentivi monetari al lavoro potrebbero allora prendere la forma di imposta negativa.
Si tratta di una detrazione d’imposta che diventa un trasferimento netto dalla amministrazione fiscale all’individuo per i contribuenti con reddito da lavoro inferiore a una certa soglia. Costituisce dunque un efficace incentivo all’occupazione femminile in quanto è a tutti gli effetti un premio monetario per chi dichiara un seppur minimo reddito da lavoro.
La detrazione fiscale dovrebbe essere concessa esclusivamente a tre condizioni: la presenza di figli in famiglia, un reddito congiunto al di sotto di un limite da definirsi e il fatto che entrambi i componenti della coppia siano occupati. Per incentivare ulteriormente il ritorno delle madri al lavoro, si potrebbe poi ipotizzare una detrazione addizionale per le spese di cura dei figli, sempre se entrambi i componenti della coppia sono occupati. (2)
La detrazione, per esempio fino a 2mila euro, potrebbe essere concessa in misura proporzionale dal primo euro di reddito fino a un livello da definirsi (per esempio 5mila euro) e poi gradualmente ritirata per livelli di reddito superiore. Solo chi non supera il reddito minimo imponibile (per esempio 9mila euro) avrebbe diritto a ottenere la detrazione d’imposta in forma di trasferimento diretto. In questi casi, si potrebbe anche istituire un sistema di crediti d’imposta. Il credito fiscale è preferibile al trasferimento diretto perché induce ad avere un rapporto con l’amministrazione tributaria e riduce il problema pratico e psicologico di ritirare il trasferimento.
Anche nel caso di una coppia di fatto, la detrazione fiscale dovrebbe essere basata sulla dichiarazione famigliare congiunta. Infatti, se fosse basata sulla dichiarazione individuale, anche compagne di mariti ricchi o individui con grosse rendite e bassi redditi da lavoro potrebbero vantare diritti alla detrazione. La scelta di riconoscere il pagamento all’uomo o alla donna sarebbe però lasciata alla coppia. L’accertamento del reddito familiare congiunto in un sistema di tassazione individuale può risultare problematico dal punto di vista amministrativo, ma l’Inghilterra ha affrontato con successo un problema simile.

Se ci sono altri sussidi

Il sistema di imposta negativa è condizionato al percepimento di un reddito da lavoro ed in quanto tale costituisce un incentivo esplicito all’occupazione. Esso è tanto più efficace quanto più non interagisce con altri strumenti del welfare che non sono condizionati al percepimento di un reddito da lavoro quali sussidi di disoccupazione o alla casa. Infatti, l’incentivo al lavoro diminuisce se per aver diritto al premio monetario bisogna rinunciare al sussidio di disoccupazione o al diritto alla casa. Nel caso italiano, dove i sussidi di disoccupazione sono attualmente poco generosi, un sistema di imposta negativa ha buone possibilità di dimostrarsi efficace. Misure di sostegno alla povertà non condizionate al percepimento di un sia pure minimo reddito da lavoro, per esempio nelle forme assunte più o meno intenzionalmente dal reddito minimo di inserimento, non sono facilmente conciliabili con misure fiscali di incentivo all’occupazione femminile quali l’imposta negativa.

Un sistema di imposta negativa funziona in varie versioni in Usa, Gran Bretagna e Francia.(3) Tipicamente una riforma di questo tipo è onerosa dal punto di vista del bilancio pubblico e richiede un’amministrazione fiscale efficiente che incorpori prontamente le informazioni riguardo al reddito e la condizione di occupazione dei componenti della famiglia. L’evidenza internazionale ha mostrato che gli incentivi sono tanto più efficaci tanto più l’imposta negativa è mirata a gruppi sociali ben definiti. Sia per ragioni di costi complessivi sia perché i risultati sono meglio visibili su gruppi sociali definiti, è preferibile che l’imposta negativa funzioni solo per le famiglie bi-reddito con figli. Inoltre l’estensione alle donne singole con figli è esposta alla critica che ciò costituirebbe un incentivo alla dissoluzione della famiglia.

Ovviamente, un sistema fiscale adeguato alle esigenze delle donne che vogliono conciliare famiglia e carriera è solo una parte di una strategia più complessiva di sostegno alla natalità e alla partecipazione femminile alla forza lavoro. L’altra parte fondamentale è il miglioramento del sistema pubblico e privato dei servizi all’infanzia. Queste misure, con al centro la riforma fiscale, sono necessarie per aumentare la mobilità sociale e per combattere le disuguaglianze e la povertà che iniziano dalla prima infanzia.


(1) La differenza tra il tasso di occupazione italiano e la media europea è dovuta alla minore occupazione delle donne, perché il tasso di occupazione tra gli uomini in età attiva è sostanzialmente simile in Italia a quello dei principali paesi europei e degli Usa.

(2) I costi per la cura dei figli potrebbero essere sostenuti sia nel settore pubblico sia in quello privato.

(3) Una proposta di imposta negativa per tutti i contribuenti e non limitata alle famiglie con figli è stata avanzata in Italia da DeVincenti, Paladini e Pollastri.

Meno nonni, più nidi, di Daniela Del Boca

La bozza di Finanziaria per il 2005, oltre al bonus di mille euro per i bambini nati nel 2005, prevede un aumento degli assegni familiari per i nuclei con reddito inferiore ai 33.500 euro. Questo incremento dovrebbe essere destinato principalmente a famiglie con due figli o con un “quarto componente”, che in molti casi potrebbe essere il nonno o la nonna.

Tutto in famiglia

Dei possibili effetti del bonus si è già discusso su Lavoce.info. In quell’articolo, si diceva che solo i poverissimi possono trovare nel bonus la copertura delle spese aggiuntive per un secondo figlio. L’aumento degli assegni familiari va visto invece all’interno di un sistema di welfare che continua a lasciare l’offerta dei servizi per l’infanzia a totale carico delle famiglie. Nei giorni scorsi, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la parte della Legge finanziaria 2003 che prevedeva un fondo di rotazione per il finanziamento ai datori di lavoro che realizzano servizi di asilo nido e micronidi nei luoghi di lavoro. A giudizio della Consulta, infatti, la legislazione dettagliata sugli asili nido non spetta allo Stato, ma alle Regioni. Tuttavia, la nascita del fondo costituiva la premessa per un ampliamento e una maggiore diversificazione dell’offerta dei servizi per l’infanzia.
La diversificazione è necessaria perché oggi in Italia la struttura degli asili pubblici risulta inadeguata rispetto alla domanda in particolare sotto due aspetti: la disponibilità di posti e la rigidità degli orari. Lo dimostra anche una ricerca recente che esplora un “matched” dataset costruito con i dati della Banca d’Italia e quelli più demografici della Multiscopo. (1)

Tabella 2 Incidenza dei posti nido sulla popolazione della fascia

<3

3-6

Svezia

48

80

Danimarca

64

91

UK

34

60

Germania

10

78

Francia

29

99

Italia

6

95

Spagna

5

84

Grecia

3

46

Fonte: OECD, Employment Outlook, 2001

A seconda delle Regioni, il numero delle domande negli asili pubblici è tra il 30 e il 50 per cento superiore ai posti disponibili. (2) E se le donne con un lavoro a tempo pieno hanno più facilmente accesso agli asili pubblici, si trovano comunque in difficoltà con gli orari. Una quota rilevante delle famiglie che pur hanno diritto all’accesso all’asilo pubblico, finiscono dunque per non usarlo o perché restano in lista d’attesa o perché gli orari non sono compatibili.

Il tempo dei nonni

Né in questo caso il servizio pubblico è sostituito da quello privato, come dimostra ancora lo studio citato. Oggi i nidi privati sono solo il 7 per cento circa dell’offerta totale. Gran parte delle famiglie che non possono usufruire dell’asilo pubblico non utilizzano neanche il privato perché non è disponibile nella zona di residenza o perché è troppo costoso. Si affidano piuttosto a parenti e babysitter. Viene spontaneo domandarsi come mai non si sia ancora sviluppato in Italia un settore privato in grado di rispondere alla eccedenza di domanda esplicita o “scoraggiata”, come invece è avvenuto in altri paesi. I limiti dell’offerta di servizi per l’infanzia sono stati discussi di recente nelle raccomandazioni dell’Unione europea. Questo è infatti considerato uno dei fattori più importanti alla base della minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia e nel Sud Europa.
L’Unione europea invita i governi a sovvenzionare gli asili pubblici. Un invito forse troppo costoso per il bilancio del nostro e di altri paesi. Tuttavia, lo stesso obiettivo potrebbe essere raggiunto da iniziative private di piccola dimensione. I dati del panel europeo (Echp) evidenziano come l’opportunità di usufruire di asili anche sul posto di lavoro aumenti la probabilità di continuare a lavorare dopo la nascita dei figli. (3) Mentre i micronidi, gestiti da madri che hanno già figli propri, sono largamente diffusi sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna. Inoltre, il congedo parentale facoltativo permette di curare direttamente i propri figli piccoli, ma in Italia è più breve rispetto agli altri paesi europei: solo 26 settimane mentre sono 120-130 nei paesi Nordeuropei e in Francia e Spagna).
Infine, va ricordato che l’attuale disponibilità di nonne per la cura dei figli o nipoti nella organizzazione quotidiana di famiglie non è destinata a durare. Dipende infatti in modo significativo dalle vicende demografiche e sociali che hanno caratterizzato la coorte delle attuali sessantenni, in larga misura beneficiate dai pensionamenti anticipati. È molto probabile che in futuro le nonne lavoreranno più a lungo, limitando il potenziale aiuto in termini di tempo a figli e nipoti. Mentre il contributo dei mariti, anche tra i più giovani, resta ancora piuttosto scarso, nonostante i cambiamenti intervenuti all’interno della famiglia. (4)

(1) “Child Care Choices by Italian Households” D. Del Boca, M. Locatelli and D. Vuri CHILD 30/2003 www.child-centre.it

(2) Fonte: Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza- Istituto degli Innocenti, novembre 2001, tab. 3.

(3)Employment and Fertility Decisions in Italy France and the U.K.” D. Del Boca, S. Pasqua and C. Pronzato CHILD 08/2004 www.child-centre.it

(4) Recenti ricerche comparate segnalano che nelle famiglie italiane è importante l’aiuto da parte dei genitori nella cura dei figli piccoli, mentre i mariti/padri danno un contributo molto inferiore rispetto ad altri paesi.(EC The Rationale of Motherhood Choices vedi: www.ulb.soco.mocho).

Quale carriera per le donne, di Giorgio Brunello e Francesca Gambarotto

Il disegno di legge delega sul riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari, o decreto Moratti, cambia le regole del reclutamento dei ricercatori con l’introduzione di contratti di lavoro a tempo determinato. È ragionevole pensare che l’abolizione de facto della sicurezza del posto di lavoro si accompagnerà, perlomeno nell’immediato futuro, al mantenimento di modesti livelli retributivi, a causa dei vincoli di bilancio imposti dalla necessità di contenere la dinamica della spesa pubblica.

Il processo di femminilizzazione

Minore sicurezza a parità di retribuzione vuol dire che le posizioni di ingresso alla carriera universitaria diventeranno per molti meno appetibili. Un possibile effetto è quello di indurre solo chi ha talento o motivazioni tali da ottenere un rapido avanzamento di carriera a scegliere la professione universitaria e di scoraggiare gli altri. Un altro possibile effetto è quello di attrarre chi ha risorse economiche, personali o familiari, tali da compensare il basso livello di reddito.
Riteniamo che questo peggioramento nelle condizioni lavorative dei ricercatori possa anche influenzare la distribuzione di genere dei docenti universitari, e rafforzare il processo di femminilizzazione nella fase di ingresso alla carriera universitaria. Va sottolineato come questo processo sia già presente nell’università italiana, dove il 39,3 per cento dei ricercatori sono donne, a fronte del 19,1 per cento dei professori. Tale sovra-rappresentazione delle donne nel ruolo di ricercatrici mette in luce l’esistenza di una segregazione di tipo verticale nel mercato del lavoro della docenza universitaria. Il processo di segregazione di genere va di solito a braccetto con basse retribuzioni e condizioni di lavoro meno favorevoli. Non è chiaro, tuttavia, se saranno i bassi salari a rendere socialmente poco desiderabile il ruolo del ricercatore, creando così spazi lavorativi per le donne. Oppure, se sarà la forte presenza femminile nel livello più basso della docenza universitaria a ridurne il valore economico, a causa di pregiudizi sociali.
Lo scenario del rafforzamento associato al peggioramento relativo delle condizioni lavorative dei ricercatori non ci sembra affatto remoto se si considera quello che è avvenuto nelle scuole italiane nel corso degli ultimi anni. Durante il periodo 1993-2000, infatti, la componente femminile del corpo docente della scuola è cresciuta del 5 per cento, raggiungendo il 77 per cento dell’organico, accompagnata da una sensibile diminuzione delle retribuzioni reali. (1)
In parte, questo processo può essere imputabile al fatto che le retribuzioni delle donne insegnanti rimangono comunque superiori alle retribuzioni ottenibili da altri lavori dipendenti, contrariamente a quanto avviene per gli uomini. La tabella qui sotto, tratta dall’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia, mostra infatti come nel 1995 la retribuzione netta annua di un’insegnante donna sia stata superiore dell’8,1 per cento alle retribuzioni degli altri lavori dipendenti, mentre la retribuzione netta annua di un insegnante uomo nello stesso anno sia stata del 4,5 per cento inferiore. Tale “vantaggio” delle donne insegnanti è andato comunque scemando negli ultimi anni, come mostra il dato per il 2002.

Tabella 1. Retribuzioni nette annue degli insegnanti, relative alle retribuzioni di altri lavori dipendenti.

1995

2002

Retribuzione relativa netta annua

Retribuzione relativa netta annua

Uomini

0.955

0.948

Donne

1.081

1.023

Fonte: Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane

Il doppio binario

Una bassa retribuzione del lavoro di ricercatore, oltre a segnalare il modesto valore sociale che il nostro paese riconosce a questa professione, ne riduce il prestigio, soprattutto per i giovani di maggior talento. Il mercato del lavoro della ricerca, al pari di molti altri mercati, privilegia la componente maschile: il 40 per cento della popolazione europea con un dottorato di ricerca è donna, ma solo un terzo diventano ricercatrici nel settore pubblico e un quinto nella ricerca privata. (2)
È dunque lecito ipotizzare che il prestigio sociale della professione universitaria si ricrei attraverso la formazione di un doppio binario professionale: una base flessibile e prevalentemente femminile di ricercatori, disposta ad accettare basse retribuzioni e scarse possibilità di carriera e un vertice prevalentemente maschile, formatosi spesso all’estero e in grado di acquisire quelle competenze professionali e relazionali necessarie per accedere alle reti e ai fondi di ricerca internazionali. Fattore, quest’ultimo, importante perché in grado di influenzare sensibilmente la qualità e il prestigio professionale. Riteniamo che una delle possibili conseguenze del decreto Moratti sia quella di accentuare questo doppio binario, e che lo spazio per le donne verrà prevalentemente confinato a situazioni caratterizzate da basse retribuzioni combinate con una minor sicurezza del posto di lavoro.
Il rafforzamento del processo di segregazione verticale nel mercato del lavoro universitario può trovare un ulteriore elemento di rinforzo nel processo di competizione tra atenei. Un aumento della presenza femminile nelle qualifiche più elevate dell’organico accademico può essere interpretato come un segnale negativo della qualità dell’ateneo perché esiste un meccanismo di svalutazione sociale in quei settori dove la componente femminile, soprattutto nei ruoli più prestigiosi, è molto forte: è perciò preferibile mantenere tale presenza ai livelli più bassi della carriera. Non a caso, in Europa gli uomini hanno una probabilità tre volte superiore delle donne di ottenere una qualifica di professore ordinario o equivalente. (3)
In sostanza, l’introduzione della riforma sul reclutamento della docenza universitaria lascia prevedere un rafforzamento anziché una riduzione dell’esclusione delle donne dal sistema di produzione della conoscenza (coordinamento di ricerche, accesso ai fondi di ricerca e così via). E rischia di produrre un risultato perverso: aumentare, sì, la presenza delle donne nella ricerca, ma rafforzare nel contempo il meccanismo di segregazione nella produzione della conoscenza.

(1) Vedi ministero dell’Università e della ricerca, Aspetti della femminilizzazione del sistema scolastico 1999, Roma. E ministero dell’Università e della ricerca, Andamento delle retribuzioni del personale insegnante – Anni 1993-2000.

(2) Si veda Gender in Research 2001, Woman & Science, Report to the European Commission, Bruxelles

(3) Vedi She Figures 2003, Woman & Science, Report European Commission

Troppi pochi bambini? Le ricette del Libro Bianco sul welfare, di Daniela Del Boca

Tra gli obiettivi piu’ importanti delle proposte contenute nel Libro Bianco sul welfare ci sono il sostegno economico alle famiglie piu’ povere e il rafforzamento di incentivi alla procreazione (la natalita’ nel nostro paese e’ diventata tra le piu’ basse del mondo:1,2 figli per donna contro 1,8 in Danimarca e Francia, e 1,6 in Gran Bretagna e USA nel 2001): due obiettivi molto importanti nel contesto di un paese che invecchia piu’ di altri e presenta piu’ che nel resto dell’UE un decisa crescita nelle diseguaglianze economiche. Tuttavia i percorsi indicati nel Libro Bianco sembrano ignorare vari aspetti molto rilevanti di questi fenomeni.

A nostro avviso, e come abbiamo mostrato in molte ricerche (www.child-centre.it), il declino della fertilità e’ legato solo in parte a vincoli di reddito quanto piuttosto alle rigidita’ del mercato del lavoro e del sistema dei servizi. Le donne che vogliono lavorare e avere figli devono affrontare un mismatch tra lavori prevalentemente full time (il part time e’ solo 8-10 per cento) e un sistema di servizi per l’infanzia con orari giornalieri limitati e scarsissima disponibilita’ di posti. Con queste caratteristiche l’assistenza pubblica all’infanzia non puo’ favorire il mercato del lavoro a tempo pieno di entrambi i genitori. Ciò ha influenzato negativamente la crescita della partecipazione delle madri italiane con figli piccoli in relazione ad altri paesi (meno del 40 per cento in Italia contro il 60-65 per cento in Francia, Danimarca, Svezia). Esiste una situazione di razionamento di servizi per l’infanzia che e’ particolarmente grave in alcune aree del paese, soprattutto nel Mezzogiorno dove è particolarmente difficile per le donne trovare lavoro: solo il 18 per cento delle donne e’ occupato nell’economia formale, mentre la disoccupazione femminile e’ doppia di quella maschile.

La questione piu’ problematica riguarda i bambini da 0 a 3 anni: mentre i servizi pubblici e privati per bambini al di sopra dei 3 anni sono utilizzabili dal 95 per cento delle famiglie, i servizi per i bambini di età inferiore ai 3 anni sono disponibili solo nel 6 per cento dei casi. In questa situazione di razionamento, le famiglie devono fare affidamento sul sistema di aiuti familiare (per lo più sull’aiuto dei nonni) o di baby-sitter dal momento che anche l’assistenza privata ha un’offerta limitata. La disponibilita’ del sistema di assistenza all’infanzia è molto importante in un paese come l’Italia dove la gran parte delle famiglie ha un figlio solo e gran parte dei bambini cresce senza fratelli. (dati ISTAT e Istituto degli Innocenti Firenze 2001).

Gli studi che hanno cercato di misurare la relazione tra offerta di asili e offerta di lavoro in Italia, riportano che l’ammissione al sistema pubblico di assistenza fa crescere la probabilita’ di lavoro delle madri di una proporzione notevole (dal 35 al 55 per cento ). I costi invece influenzano solo la decisione del lavoro part-time, non quella del lavoro a tempo pieno e solo nelle regioni del Nord Italia dove i posti non sono razionati. Il fattore piu’ significativo di supporto alla decisione di lavoro delle donne e alla decisione di avere figli resta comunque l’ aiuto da parte dei genitori o di altri familiari ad affrontare il mismatch sopra descritto.

Le proposte del Libro Bianco sul welfare indicano varie direzioni ma tutte collegate da un idea comune: che sia la famiglia a mantenere un ruolo cruciale nella produzione di welfare e che l’unica famiglia esistente sia quella delle coppie sposate.

1.La proposta di riduzione degli interessi dei mutui alle coppie che intendono acquistare una casa va nella direzione importante di rendere meno dipendenti i figli adulti dalla famiglia e di aumentare il numero dei giovani proprietari di abitazioni che in Italia sono tra i più bassi d’Europa ma e’ limitata solo alle coppie sposate, mentre, come abbiamo detto, le coppie di fatto in Italia sono in crescita (come in tutti i paesi avanzati).

2.La proposta di aiuti per le famiglie ad associarsi e organizzare la gestione di asili nido ripropone il ruolo fondamentale della famiglia come sistema di protezione dei membri attraverso le reti di solidarieta’ in termini di tempo e di risorse, per compensare le carenze e il razionamento del mercato.

In attesa di capire meglio i dettagli del Libro Bianco, appare evidente che ancora una volta si scarica sulla famiglia tutta una serie di pesanti attivita’ di organizzazione che in altri paesi sono gestite dal settore pubblico o privato, e si trascura il problema del controllo della qualita’ dei servizi per l’infanzia (problema che e’ diventato cruciale negli Stati Uniti in assenza di offerta pubblica di servizi e di standard nazionali di qualita’).

3.Infine la proposta di aiuti alle famiglie numerose con l’obiettivo di contrastare il declino della fertilita’ puo’ avere effetti alquanto perversi.

Il fenomeno della declino della natalita’ e’ spiegato dal mismatch derivante dalla rigidita’ del sistema dei servizi e del mercato del lavoro che rende particolarmente elevati i costi dei figli. Sussidi monetari alle famiglie avrebbero l’effetto di aumentare la fertilita’ la dove e’ relativamente piu’ alta (nel Mezzogiorno), ma al costo di disincentivare tassi di partecipazione femminile gia’ molto piu’ bassi che nel resto del paese. Questo costo non è trascurabile se analizziamo le aspettative di una quota crescente di donne che studiano quanto e piu’ degli uomini, e gli obiettivi di convergenza dei tassi di occupazione femminile definiti a Lisbona, da cui emerge che il tasso di occupazione dovrebbe aumentare del 22 per cento per adeguarsi ai livelli europei.

Le donne tra responsabilità lavorative e familiari, di Chiara Saraceno

L’Italia è uno dei paesi europei con la più bassa occupazione femminile, nonostante la crescita degli ultimi anni. I dati disponibili segnalano infatti che nel periodo 1993-2001 il tasso di attività femminile è cresciuto più di 5 punti percentuali, passando dal 41,9 al 47,3% (mentre quella maschile risulta pressoché stabile, con qualche segnale di diminuzione, dal 73,8% al 73,6%), restando, tuttavia, ampiamente al di sotto della media europea e anche dell’obiettivo del 60% che tutti i paesi membri dovrebbero raggiungere nel 2006.

Lavoro e famiglia: un affare privato

Ciò è dovuto in larga misura alla bassissima partecipazione al mercato del lavoro delle donne adulte in età matura (ultracinquantenni), a causa non tanto dei pensionamenti precoci, quanto della loro appartenenza a coorti per le quali il modello di casalinga a pieno tempo e di dedizione univoca alle responsabilità familiari ha fortemente segnato le strategie di vita adulta. Così nota giustamente Reyneri (1), che è però troppo ottimista quando sostiene che la differenza di partecipazione tra uomini e donne sia destinata ad esaurirsi semplicemente con l’entrata nell’età adulta delle coorti di donne più giovani e mediamente più istruite, con una propensione al lavoro molto diversa dalle loro madri e nonne, e più simile a quella dei loro coetanei. Anche tra le coorti più giovani, infatti, molte donne continuano ad abbandonare il lavoro alla nascita del primo figlio e talvolta anche solo dopo il matrimonio. Più che in altri paesi la conciliazione tra responsabilità familiari e partecipazione al mercato del lavoro continua ad essere considerata non solo un “affare di donne”, ma un “affare privato”.

I dati più recenti sulle Forze di Lavoro (2) segnalano che la quota di donne che abbandona temporaneamente o provvisoriamente il lavoro per motivi familiari è costante da una coorte all’altra e se tra le coorti più giovani diminuisce la motivazione del matrimonio, rimane invece forte quella di avere figli. Ad esempio, nella coorte che ha attualmente 30-39 anni, tra le nubili il tasso di attività è di poco inferiore a quello dei loro coetanei: 89,7% ma diminuisce di quasi 11 punti tra le coniugate senza figli e di altri 23 punti tra le coniugate con figli, il cui tasso di attività si abbassa al 56%. Con tassi di attività inferiori, le donne coniugate con figli hanno viceversa tassi di disoccupazione più alti non solo degli uomini, ma delle stesse donne senza figli.

Anche la forte femminilizzazione dell’aumento della occupazione part-time negli ultimi anni, non è priva di problemi. Indica infatti che da parte non solo dei policy makers, ma anche dei datori di lavoro e dei lavoratori, la conciliazione continua a essere un problema che riguarda esclusivamente le donne. Benché il part-time non sia in linea di principio riservato alle donne, lo è in pratica e tutto l’aumento riscontrato in questi cinque anni è dovuto a loro. Non può quindi sorprendere che il genere (l’essere donne) e lo status familiare (l’essere sposata, l’essere madre) riducano le chances occupazionali future delle lavoratrici part-time rispetto a lavoratori e lavoratrici a tempo pieno. Non è il part-time di per sé che riduce queste chances, ma le specifiche ragioni per cui lo si fa: conciliare responsabilità lavorative e familiari.

L’effetto negativo della presenza di responsabilità familiari è più alto per le donne a bassa qualificazione e che vivono nel Mezzogiorno rispetto a quelle con titolo di studio medio-alto e che vivono nel Centro-Nord. L’istruzione per le donne appare ancora più importante che per gli uomini a fini occupazionali e come fattore di differenziazione sociale: incide infatti non solo sul tipo di lavoro cui si può aspirare ma anche sulla possibilità stessa di rimanere nel mercato del lavoro, a parità di ogni altra condizione. Le donne del Centro-Nord con istruzione e qualifiche più alte sono maggiormente in grado di rimanere nel mercato del lavoro lungo il ciclo di vita familiare; anche se “pagano” questa maggiore capacità di durata con differenziali salariali rispetto agli uomini di pari livello e più ampi di quelli che si riscontrano nelle qualifiche più basse.

Conciliare responsabilità familiari e lavorative per le donne è reso difficile non solo da orari di lavoro poco amichevoli e dalla mancanza di servizi adeguati, ma anche, se non soprattutto, dalle aspettative e dai comportamenti dei familiari, innanzitutto dei mariti/padri dei loro figli. Tutte le ricerche sull’uso del tempo segnalano che se si sommano le ore dedicate al lavoro familiare a quelle dedicate al lavoro remunerato, le donne occupate e con responsabilità familiari lavorano dalle 9 alle 15 ore alla settimana in più rispetto ai loro compagni. E ciò è rimasto costante negli ultimi 10 anni. Il maggior carico di lavoro familiare per le donne riduce il tempo che esse possono dedicare al lavoro remunerato e la gamma di occupazioni che possono prendere in considerazione, in termini di distanza, orari di lavoro, ecc. Inoltre le espone al rischio di essere viste dai datori di lavoro come lavoratrici inaffidabili e/o più costose.

Libertà per le donne e nuovi modelli

Modificare questa situazione, aumentando i gradi di libertà per le donne e favorendo modelli di genere, maschile e femminile, meno rigidi, richiede interventi a più livelli: nelle forme di regolazione del mercato del lavoro, nella offerta di servizi, nei modelli culturali e di socializzazione. In questa prospettiva si può accogliere positivamente l’incentivo dato alle aziende nella Finanziaria per il 2003 perché organizzino nidi o micro-nidi aziendali. Tuttavia non va trascurato il fatto che le giovani generazioni, quelle che in linea di principio sono nell’età di essere genitori di bambini piccoli, sono presenti in modo sproporzionato nei contratti di lavoro atipico, e che le donne tendono a rimanervi più a lungo degli uomini. Perciò è l’offerta pubblica o di mercato sociale che va innanzitutto sostenuta.

Analogamente mentre va apprezzato il carattere innovativo della legge 53/2000 (sui congedi genitoriali) – specie là dove incentiva sia una flessibilità amichevole nei confronti dei lavoratori e lavoratrici con responsabilità familiari, sia una più equilibrata ripartizione delle responsabilità di cura tra padri e madri – non ci si può nascondere che il provvedimento riguarda solo il lavoro dipendente escludendo i vari tipi di contratto di lavoro non standard che vedono peraltro una forte presenza di giovani uomini e donne in età riproduttiva. Questi rapporti di lavoro o non includono alcuna misura di protezione della maternità e di sostegno alla conciliazione (è il caso, ad esempio, di chi ha partita IVA) o li hanno in misura ridotta e in un contesto in cui è difficile utilizzarli. Una giovane lavoratrice coordinata e continuativa, ad esempio, difficilmente potrà permettersi di prendere anche solo il periodo di congedo obbligatorio (e infatti non è obbligata), perché l’assegno di maternità è troppo basso. Ancor meno questa giovane potrà permettersi di stare fuori dal mercato del lavoro per un periodo più lungo, non solo per motivi economici ma anche per salvaguardare la propria collocazione professionale.

Nelle discussioni sulla flessibilità nel mercato del lavoro, gli effetti sulle questioni della conciliazione tra responsabilità lavorative e familiari e la vulnerabilità aggiuntiva che ne deriva, in particolare per le donne, meriterebbero di essere meglio messi a fuoco da tutte le parti in causa.

(1) Cfr. anche E. Reyneri, Pensioni, fasce di età, genere e livello di istruzione, in lavoce.info, 9.1.2003

(2) Cfr. ISTAT, Rapporto annuale 2001, Istat, Roma, 2002

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